José Mourinho è stato uno dei primi allenatori-comunicatori. E in quanto tale, a un certo punto della sua carriera, ha progettato e iniziato a percorrere una strada ben definita, senza ritorno: il suo personaggio e il suo mito si sarebbero poggiati sulla retorica dei trofei, dei tituli, come se non importasse altro, come se il percorso per arrivare alle vittorie non fosse una parte importante del tutto. Ognuno di noi può giudicare a modo suo questa scelta, sicuramente affascinante e sicuramente rischiosa, ma è certo che Mourinho, in questo modo, abbia messo in secondo piano una caratteristica piuttosto importante, per un allenatore: la capacità di costruire squadre in grado di vincere, o comunque di essere competitive. In realtà è una dote che gli appartiene, lo dice la storia: Mou è stato in grado di assemblare dei veri e propri instant-team (il Porto, l’Inter del Triplete e il Manchester United del 2017, anno dell’ultimo trofeo dei Red Devils), ma anche dei gruppi in grado di fare bene per anni, anche dopo di lui, come per esempio il Chelsea e il Real Madrid – nel corso della sua esperienza al Bernabéu sono arrivati Khedira, Di María, Varane, Modric, delle vere e proprie architravi del ciclo vincente di Ancelotti e Zidane.
Negli ultimi anni, la regressione di Mourinho e del mourinhismo è stata evidente. E anche facilmente spiegabile: mentre José continuava a vivere e intendere il calcio come se fosse una guerra emotiva, come se le partite e anche le interviste e le conferenze stampa fossero delle battaglie da combattere e per cui morire, il calcio si è evoluto in maniera velocissima, soprattutto dal punto di vista puramente tattico. E così Mou è rimasto indietro, come se vivesse in un perenne 2011. Il fatto che sia stato rigettato prima dal Manchester United – nonostante, come detto, resti l’ultimo manager capace di vincere qualcosa a Old Trafford – e poi dal Tottenham è stato un segnale piuttosto chiaro, in questo senso. Il fatto che abbia scelto la Roma, se vogliamo, è ancora più significativo: al di là della perfetta aderenza tra la sua comunicazione e il multiverso del calcio italiano, un tema su cui sarebbe giusto fare un ragionamento a parte, è certo che anche José si sia reso conto della sua necessità di ripartire da zero, cioè di avviare un progetto in prima persona in un club non più o non ancora di primo livello, di costruire una squadra, non di rifinirla perché diventi vincente.
Si deve partire da qui, da questo punto, per pesare il valore della vittoria in Conference League. Per raggiungere questo traguardo, è come se Mourinho avesse fatto una sintesi dei vari sé, mettendo nel mixer diversi ingredienti: la sua famosa e incontestabile mentalità vincente, qualunque cosa significhi questa espressione, e la sua capacità di individuare e comprendere il talento, basti pensare all’inserimento e al cambio ruolo di Zalewski; la sua innata tendenza ad accattivarsi i tifosi e la sua ricerca tattica in chiave difensiva; la sua gestione paterna e quindi non amicale del centravanti-totem, in questo caso Tammy Abraham, e le esigenti richieste nei suoi confronti, e lo stesso discorso vale per gli altri calciatori di talento presenti in rosa, soprattutto nel reparto offensivo – su tutti Zaniolo e Pellegrini. Il fatto che tutto questo coincidesse con il primo anno pieno della nuova proprietà ha accentuato la sensazione di cambiamento, e così è venuta fuori una Roma su cui sembrava perennemente apposto il cartello lavori in corso, concentrata sulla creazione di una nuova immagine, di un nuovo rapporto con i tifosi, con Mourinho nel ruolo di sole e tutti i pianeti che dovevano girargli intorno. Allo stesso modo, però, la squadra giallorossa è stata mourinhista fino al midollo nelle serate di Conference League, soprattutto quelle della fase a eliminazione diretta: sempre in controllo anche quando non sembrava, come nella seconda partita di Glimt, quando Pellegrini e compagni hanno evidentemente giocato sui 180 minuti, non sui 90; sempre consapevole della propria forza, della propria solidità e anche dei propri limiti, come nelle due gare di semifinale contro il Leicester; sempre concentrata e attenta a non scoprirsi, come nella finale contro il Feyenoord, una squadra che stava in campo e credeva di dominare la partita, e invece Mourinho e la Roma l’hanno domata, l’hanno trascinata esattamente dove volevano loro, a parte alcuni momenti di sbandamento all’inizio della ripresa.
Il gol decisivo di Nicolò Zaniolo
Alla fine, Mourinho ha fatto riemergere e combaciare entrambe le sue anime: quella moderna e pragmatica che tende inesorabilmente ed esclusivamente al culto vittoria, all’arricchimento del palmarés personale, e allora non c’era un’occasione migliore della Conference League, un torneo in cui solo il Tottenham avrebbe potuto competere con la Roma per valore della rosa. E quella antica del costruttore di cattedrali, per riprendere un’espressione che tanti narratori calcistici – Simon Kuper, Sandro Modeo, Paolo Condò – hanno utilizzato per descrivere il lavoro della sua nemesi storica, Pep Guardiola. No, non è un’esagerazione: la Conference League è evidentemente la terza coppa europea, se guardiamo al prestigio e soprattutto alla qualità delle squadre partecipanti. Ma il trionfo costruito da Mourinho potrebbe essere il primo mattone di una nuova Roma, e anche di una nuova mentalità per tutto il calcio italiano: la squadra giallorossa potrà giovarsi del nuovo e giustificato entusiasmo verso il progetto Friedkin-Mou per trovare una nuova linfa anche tecnica, non solo emotiva, e in qualche modo ha anche chiuso il cerchio delle due semifinali europee raggiunte negli ultimi quattro anni; allo stesso modo, erano ormai decenni che gli analisti italiani – e non solo italiani – si lamentavano del fatto che le squadre di Serie A snobbassero o comunque non avessero grande considerazione dell’Europa League, e ora il successo della Roma ha dimostrato che vincere un trofeo internazionale ha un sapore ancora speciale, sempre inebriante.
Certo, c’è anche l’altra faccia della medaglia: i risultati in Champions degli ultimi anni mostrano che i top club italiani sono lontanissimi dall’élite internazionale, e che ci vorrà moltissimo tempo per colmare il gap. Ma il punto è proprio questo: per iniziare a compensare anni di scelte e gestioni sbagliate, concentrarsi e cercare di fare il massimo all’interno della propria dimensione, per poi andare a confrontarsi a un livello sempre più alto, è una delle migliori strade da percorrere. Anzi, forse è la migliore in assoluto, ed è anche piuttosto divertente, potenzialmente appagante. Ora, finalmente, lo abbiamo scoperto. Grazie alla Roma, grazie a Mourinho.