Il talento del giovane Tonali

Intervista al giovane centrocampista del Milan, uno dei migliori giocatori dell'ultima Serie A e uomo-simbolo della squadra che ha vinto lo scudetto.

Quando parla si stacca dal polso un braccialetto, ci gioca, poi lo riattacca. Lo stacca di nuovo, e via così. Si scioglie a poco a poco. Fino a qui, in una carriera ancora breve e molto studiata da tutti, ha sempre parlato poco. Ma si distingue subito la sua naturale riservatezza dalla superbia, e forse è qualcosa che ha a che fare con la Bassa lodigiana in cui è cresciuto, una pianura infinita di orizzonti sconfinati, campi, poche case e poche parole. Il «silenzio residenziale» di cui parlava Celati, passeggiando da quelle parti diretto a Est in Verso la foce. Sandro Tonali è un ragazzo nato nel 2000: è facile dimenticarsi che i calciatori sono talvolta uomini così giovani da essere appena usciti dal liceo, anche se la domenica gli mettiamo addosso proiezioni, sogni e responsabilità di grandi eroi popolari. Ha appena finito il terzo anno di Serie A e non ha nemmeno 22 anni, quando parliamo – li ha compiuti l’8 maggio. In tre anni, a un’età in cui molti suoi coetanei si sono appena lasciati alle spalle la scuola, ha passato tre fasi già diverse della carriera: quella da predestinato, con il Brescia; quella più difficile, con le difficoltà di adattamento, al primo anno di Milan; quella di leader e speranza per il futuro anche del calcio italiano, quest’anno.

Dopo il primo anno in Serie A con il Brescia mezza Italia voleva i suoi talenti, ma lui ha giocato e si è esposto poco. Il Milan, alla fine, è stato quasi una sorpresa. Lui si è aperto soltanto allora: volevo solo i rossoneri, ha detto; qui posso vincere tutto. Il Milan è tornato in Champions League e lui ci ha messo più di quanto ci si aspettava per adattarsi al calcio di Pioli. Ma aveva vent’anni, anche se schiacciato da un hype motivato ma troppo severo. Crescere è una cosa che richiede pazienza e protezione. Poche parole e molto impegno. Il Milan glieli ha dati. Lui, nell’agosto del 2021, si è presentato in campo che sembrava un altro. Alla seconda giornata di campionato, direttamente da calcio di punizione, un arcobaleno sotto l’incrocio, il primo con la maglia del Milan, che è sembrato insieme una liberazione e una consacrazione. Ha esultato con gli occhi chiusi e le braccia larghe, come per dire: finalmente.

Ⓤ: Da dove viene Sandro Tonali?

Io sono nato a Lodi. Stavo a casa a Sant’Angelo, ho fatto il primo anno all’oratorio nel mio paese, poi sono andato subito a Milano alla Lombardia Uno. Ho fatto un passaggio molto diretto, che non era normale, diciamo, a quell’età.

Ⓤ: A proposito di passaggi non normali. Ti sei accorto subito che c’era qualcosa in più degli altri?

Sì, ce ne siamo accorti subito perché io mi allenavo all’inizio con mio fratello che era tre anni più grande di me, e con tutti i suoi compagni. Io ero l’unico del 2000, l’unico così piccolo. Poi dopo aver fatto un po’ di tempo con loro sono tornato con quelli della mia età e lì abbiamo capito qualcosa. Da lì alla fine dell’anno sono rimasto sempre a Sant’Angelo a vivere ma a giocare mi sono trasferito alla Lombardia Uno a Milano. Lì si lavorava molto di più che al mio paese, ed è iniziato il mio percorso.

Ⓤ: Quanti giocatori sei stato prima di diventare il centrocampista che sei adesso?

Da piccoli tutti vogliono fare gli attaccanti e pure io sono nato attaccante. E poi col passare del tempo non è che mi annoiavo, ma volevo provare cose nuove in giro per il campo. Poi ne ho provata una sola, perché sono diventato centrocampista e lì mi sono fermato. È stato un bene.

Ⓤ: In quegli anni avevi in testa solo il calcio oppure era più un: proviamo, vediamo come va?

Tutti partono con l’idea di voler diventare calciatori da bambini, ma è difficile avere un’idea e riuscire a portarla fino alla fine. Devi avere fortuna, devi essere bravo, e devi dedicare tutto il tempo possibile al calcio. E tanta fortuna, ancora. È difficile dire: “Voglio giocare in Serie A” e poi riuscirci. Ti devono andare bene tante cose.

Ⓤ: Di tutte queste cose che devono incastrarsi per arrivare in Serie A, qual è stata una in particolare che ha aiutato?

Io ho avuto la fortuna di giocare a Brescia e di avere un presidente in particolare che fa giocare i giovani. Questa è una fortuna più che una qualità. Cellino a Brescia mi ha dato questa opportunità alla prima di campionato, e io sono salito subito sul treno. È difficile vedere in Serie B giovani di 17 anni del settore giovanile esordire.

Tutti gli abiti in questa foto sono di Missoni

Ⓤ: Quali sono le difficoltà che un ragazzino deve imparare a gestire?

Ho fatto fino ai 13 anni tanti avanti e indietro: prima a Milano, poi a Piacenza, infine a Brescia. Poi a 14 anni mi sono fermato in convitto per la prima volta e lì è cambiato tutto, tutto il mio modo di vivere. Non avevo più ogni giorno i miei genitori, e anche se mi chiamavano non era la stessa cosa. È iniziata un’altra vita. Anche svegliarti la mattina e sapere che devi arrangiarti da solo durante la giornata, per andare a scuola, poi da scuola all’allenamento, tornare dall’allenamento, organizzarti magari una cena fuori: quelle sono tutte piccole cose che a 14 anni devi già sapere gestire. E non è semplice.

Ⓤ: Qual è una caratteristica che ti ha distinto da quando eri un bambino?

Ero un tipo che parlava poco e che si impegnava sempre. Stavo molto nel mio, come anche adesso. Mi piaceva semplicemente giocare.

Ⓤ: Ci vuole anche tempra, per dirlo in un modo gentile, per saper gestire un processo di crescita di questo tipo.

Soprattutto non mollare. Ci sono stati momenti, come dopo la prima stagione di Serie B, in cui sono tornato in Primavera, e quelli sono momenti che devi imparare a gestire. A ricevere il colpo, e non vivere il fatto di essere stato in prima squadra e poi essere tornato in Primavera come una bocciatura, ma lo devi gestire da persona più matura dei tuoi compagni anche se hai la stessa età.

Ⓤ: Ti ha aiutato essere passato dalla provincia e non essere scaraventato direttamente in città?

A Brescia ho trovato persone e amici che mi hanno aiutato. Il primo anno in convitto eravamo sei ragazzi di cui tre della stessa squadra e questo è stato importante. Passare settimane da soli in un convitto è difficile, e i primi giorni che eravamo solo due o tre, dopo gli allenamenti sentivi la noia e poi la voglia di tornare a casa, di mollare.

Ⓤ: Come la affronti questa voglia?

Con ore di telefonate. Agli amici che vedrai il fine settimana, ai tuoi genitori che sono la base di tutto. E cerchi di non pensare che sei lontano da casa e che hai 14 anni e che non c’è nulla da fare oltre alla scuola e al calcio.

Tutti gli abiti in questa foto sono di Dolce e Gabbana

Ⓤ: Predestinato è una parola che ti si addice?

Più che predestinato, che non lo trovo un aggettivo giusto, alla fine sono sempre stato umile. Mi ha aiutato aver sudato prima di arrivare in alto. Anche aver fatto più di 80 partite con il Brescia mi ha aiutato nel percorso che ho avuto e da quando sono arrivato al Milan. Anche fuori dal campo, perché la Serie B ti dà esperienza. Non dico che sia un’esperienza da fare per forza, ma per chi non può giocare da subito in Serie A è una cosa che fa bene perché capisci i gradini che ci saranno.

Ⓤ: Sarebbe meglio partire dal basso sempre?

Sì, abbiamo visto che negli ultimi anni un giocatore giovane provato per la prima volta in Serie A dalla Primavera, dopo magari una mezza stagione al top, poi c’è il rischio che si facciano discorsi tipo: non è ancora pronto… Non c’è la voglia di aspettare un ragazzo, una squadra oggi vuole persone e giocatori che siano pronti, che siano al livello degli altri.

Ⓤ: Al Milan come sei riuscito a gestire le emozioni di un primo anno di gavetta e un secondo anno già da leader? Come è cambiata soprattutto la percezione di te stesso?

All’inizio era difficile. Perché sono arrivato in un momento in cui la squadra andava a duemila all’ora, andava tutto bene, i risultati erano perfetti, quindi dovevo entrare in punta di piedi. È stato un processo a rilento. Poi col passare del tempo è stato importante il mister Pioli, che mi è venuto molto incontro durante l’anno, è stato bello trovare ragazzi molto giovani, e ragazzi molto esperti come Ibra, che l’anno scorso mi ha aiutato molto sia dentro che fuori dal campo. Più fuori dal campo.

Tutte gli abiti in questa foto sono di Emporio Armani

 

Tutti gli abiti in questa foto sono di Brunello Cucinelli

Ⓤ: Ci parli tanto, con lui?

Si è uno che capisce subito se hai mezzo problema, se hai una virgola che non va. È una persona che parla molto e che ti aiuta in qualsiasi aspetto.

Ⓤ: E poi cos’è successo quest’estate, come ci si trasforma da promessa in certezza, quasi in idolo?

Succede che è passato un anno e un’estate, e ho avuto tempo di staccare, riposare la testa, azzerare e ripartire. Nel calcio questa è una cosa che può darti una seconda possibilità, come è successo a me. Ho avuto tempo di ragionare: sapere che il Milan puntava ancora su di me, quella è stata la cosa fondamentale, la base di tutto. Poi in campo non ti so dire cos’è cambiato, perché è cambiato qualcosa nella testa. Ma da lì è stata una modalità che io e il mister abbiamo cercato di mantenere sempre così. Perché era molto facile fare bene due o tre partite e poi tornare alla media dell’anno scorso, quindi è stata questa la cosa difficile.

Ⓤ: Hai avvertito un cambiamento anche di amore nei tuoi confronti?

Credo che dall’anno scorso a quest’anno, giocare a porte chiuse e giocare con i tifosi siano due esperienze opposte. Vedere la partita allo stadio per un tifoso è un’altra cosa, vedi due parti del campo nello stesso momento, puoi vedere cosa fa il tuo portiere e allo stesso tempo il portiere avversario. E poi il calore dei tifosi, per noi, quest’anno ci ha dato qualcosa in più. Secondo me non è cambiato nulla, soltanto che i tifosi sono tornati e vedono le partite e sono più felici. È quello che mancava al calcio.

Ⓤ: Hai detto che è successo qualcosa a livello mentale: hai staccato per poter ricominciare. una cosa di cui si parla sempre più spesso fortunatamente in questi anni, l’importanza di essere rilassati anche in testa.

A me sembra che nel Milan ci sia un gruppo che funziona molto anche perché c’è sinergia mentale. Una cosa bella è che siamo giovani e ci capiamo in una frazione di secondo in qualsiasi aspetto. Nel calcio il tempo che hai per staccare veramente è poco, lo puoi fare soltanto durante una vacanza estiva a fine campionato. Ti può dare energia, una spinta in più, anche carica.

Ⓤ: E invece come si trova la forza per reagire anche in modi inaspettati quando arrivano le partite più difficili?

Quelle sono partite che si giocano solo per vincere, altrimenti non saremmo qui. Quella contro il Napoli è stata per noi fondamentale, per il morale e per la classifica. E anche quella con l’Inter. Trovi la carica da solo, non hai bisogno di altre motivazioni. È più semplice in un certo senso giocare quelle che altre partite a basso ritmo.

Tutte gli abiti in questa foto sono di Etro

Ⓤ: Cosa ti comunica da sempre il Milan e la sua storia?

Io sono cresciuto guardando il Milan e andando allo stadio. Mi dà un senso di felicità, di serenità. E anche conoscendo persone come Maldini e Massara… ti danno la sensazione di essere sereni, felici, e di avere un amore immenso per il Milan. Stare insieme a loro facilita il percorso di tutti.

Ⓤ: Quando non pensi al Milan invece che fai?

Quest’anno rispetto agli ultimi due anni ho cambiato molto. Alimentazione. Hobby, che sono diversi e sono meno, perché vivere in una città come Milano ti permette certe cose e non te ne permette altre. Quindi magari uscire una volta in meno e stare a casa molto più spesso, o uscire a cena con la mia ragazza. Sono tutte cose che puoi fare ma devi stare attento anche su quelle.

Ⓤ: Lei è importante?

Sì, oltre a essere fidanzati siamo molto amici. Stiamo insieme da più di due anni ma prima di stare insieme eravamo amici. Poi adesso è cambiato tutto.

Ⓤ: C’è un senso di responsabilità, per certi versi, nel sentirsi così forte?

No, o meglio non ancora. È il mio secondo anno di Milan, il terzo di Serie A, quindi direi che è ancora presto. La responsabilità viene da sola, dopo parecchie partite, parecchio tempo in una squadra, avendo la fiducia di tutte le persone di una società. Adesso non serve sentirsi una responsabilità da portarsi dietro.

Ⓤ: Il calcio ti fa crescere troppo in fretta?

Sì. Perché come l’ho vissuta io a partire dai primi passi che a 14 anni vai a vivere da solo ti cambia, perché a 18 anni sei già un uomo, e gli altri tuoi amici a 18 anni hanno vissuto una vita diversa, sono ancora in casa, e poi nel momento in cui torni a casa un’estate o dei giorni di vacanza ti fa anche strano. Quindi ti fa crescere in fretta e la cosa brutta è che finisce presto.

Da Undici n° 44
Foto di Mattia Parodi