«Dammi un paio di minuti di riposo e rientro. Sarò pronto». Mancava poco alla fine del terzo quarto di gara-6 delle Finals 2019 tra i Golden State Warriors e i Toronto Raptors, una partita che Klay Thompson aveva contribuito a tenere aperta quasi da solo – 30 punti in 32 minuti di impiego – prima di sbriciolarsi il legamento crociato del ginocchio sinistro ricadendo male dopo un tentativo di schiacciata stoppato fallosamente da Danny Green; eppure, rientrando negli spogliatoi dopo aver tirato sul dolore i due tiri liberi, aveva chiesto a Steve Kerr di aspettarlo, quasi come se si trattasse di una banale storta alla caviglia, di quelle che ci si procura giocando al campetto d’estate. Thompson non sarebbe più rientrato, ovviamente, e gli Warriors – che avevano già dovuto fare i conti con la rottura del tendine d’Achille di Kevin Durant in gara-5 – avrebbero perso partita, serie e titolo, vedendo sfumare la possibilità di chiudere il primo three-peat dai tempi dei Lakers di Kobe & Shaq, per di più nell’ultima gara giocata nella leggendaria Oracle Arena.
Quella partita e quell’infortunio sono stati considerati a lungo un turning point alla rovescia nella storia recente della franchigia simbolo di una generazione, il momento in cui una squadra pensata e costruita per non poter perdere – se non contro il titanico LeBron James del 2016 – aveva cominciato a sgretolarsi pezzo dopo pezzo, quasi come se stesse obbedendo a un drammatico e ulteriore corollario della legge di Murphy per cui nei due anni successivi ogni cosa che poteva andare male finiva, in realtà, con l’andare peggio: Durant che saluta e va ai Brooklyn Nets durante la free agency, l’addio di Andre Iguodala, l’infortunio alla mano che tiene fuori Curry per tutta la stagione 2019/2020, una regular season da appena 15 vittorie per inaugurare l’avveniristico Chase Center, le difficoltà di inserimento di D’Angelo Russell, Kelly Oubre Jr. e James Wiseman, il nuovo infortunio (questa volta al tendine d’Achille) di Thompson, l’eliminazione al play-in per mano dei Memphis Grizzlies. Insomma l’ennesima dimostrazione della validità del sistema NBA, una lega strutturata in modo che le squadre forti, o molto più forti di altre, non restino in vetta troppo a lungo: non a caso, dopo i Raptors di Kawhi Leonard sarebbe toccato ai Los Angeles Lakers di LeBron e ai Milwaukee Bucks di Antetokounmpo alzare il Larry O’Brien Trophy, nel segno di quella discontinuità competitiva che tutti cercavano dopo l’era dei superteam.
Tre anni e tre giorni dopo, in un’altra gara-6 di un’altra serie finale, Klay Thompson ha segnato 12 punti nel 103-90 che ha permesso agli Warriors di battere 103-90 i Boston Celtics e di vincere il sesto titolo della propria storia (il settimo considerando quello della BAA nel lontano 1947 quando la franchigia era a Philadelphia), il quarto in otto anni in cui sono arrivati alle Finals in sei occasioni, di cui cinque consecutive tra il 2015 e il 2019. Il titolo probabilmente più importante e significativo di tutti. Perché se da un punto di vista strettamente numerico è lecito parlare, scrivere e ragionare di una vera e propria dinastia sul modello dei Celtics degli anni Sessanta, dei Lakers degli anni Ottanta e dei primi anni Duemila e dei Bulls degli anni Novanta, lo è altrettanto la sensazione è che Golden State abbia trovato il modo di fregare il sistema, di ribaltare gerarchie che si credevano cristallizzate, di accelerare i tempi di una ricostruzione che si preannunciava lunga e faticosa, di dare una nuova connotazione a una retorica dell’underdog adatta solo fino a un certo punto per spiegare quello che è accaduto negli ultimi dieci mesi.
Dopo il titolo perso nel 2019, Draymond Green aveva detto che «nessuno, in realtà, aveva spodestato sul serio gli Warriors». A maggio 2021, poi, Steph Curry aveva avvertito i giornalisti subito dopo il ko contro i Grizzlies: «Non vorrete vederci, nessuno vorrà vederci il prossimo anno». In entrambi i casi erano sembrate dichiarazioni di facciata, il segno di come due grandi campioni non riuscivano ad arrendersi al tempo che passava per tutti, persino per loro. E invece gli eventi successivi hanno seguito il corso tracciato proprio da Curry e Green, in un percorso che abbraccia sia la narrazione tipici del team of destiny che una programmazione meticolosa e finalizzata al recupero dell’identità, a ciò che aveva reso grande gli Warriors indipendentemente dal numero di titoli e di finali raggiunte.
Quella che ha vinto contro Boston è una squadra che non ha – non può più avere – la velocità, l’immediatezza, la vorticosità e il tremendismo del 2014/2015, né il manipolo di stelle all’apice del proprio prime alla Kevin Durant che permettevano quasi di scegliere come, quando e di quanto vincere; ma questa versione funziona altrettanto bene, anzi per certi versi risulta persino migliore delle altre, perché è il risultato di un compromesso cercato e voluto, di un ritorno al passato rimodulato sulle caratteristiche fisiche tecniche e psicologiche del presente di un roster non più così superiore rispetto agli altri ma che, meglio di altri, è riuscito a trovare il modo di nascondere i difetti dietro la massimizzazione dei pregi. A fare la differenza è stato soprattutto il supporting cast, gli elementi di complemento alla santissima trinità Curry-Green-Thompson, scelti in funzione dell’adeguatezza al sistema a prescindere dal background e dal nome: le aggiunte di Bjelica e Otto Porter Jr., il ritorno di Iguodala quasi da capitano non giocatore, il ritorno ad altissimi livelli di Kevon Looney dopo due stagioni da appena 81 partite disputate, la crescita di Andrew Wiggins – con l’apice dei 26 punti e 13 rimbalzi nella fondamentale gara-5 contro i Celtics – e Jordan Poole, ecco tutti questi sono stati i mattoni su cui Steve Kerr ha edificato la sua quarta chiesa, scegliendo di rinunciare alla fisicità esasperata ed esasperante sui due lati del campo e innervando il suo playbook di soluzioni meno estreme rispetto al passato ma ugualmente efficaci, soprattutto nella metà campo difensiva.
E se gli Warriors del passato erano una squadra asfissiante sui ventotto metri, quelli di oggi sono certamente più maturi e lucidi nella gestione di momenti e situazioni, consapevoli che le accelerazioni continue e i ritmi alti avrebbero potuto trasformarsi da risorsa in limite. Una scelta che ha pagato sia contro Jokic, l’MVP che si è trovato da solo sull’isola a fare i conti con l’inconsistenza dei Denver Nuggets nonostante i suoi numeri senza senso (31 punti, 13.2 rimbalzi e 5.8 assist nella serie), che contro Ja Morant e Luka Doncic, limitati nel loro incedere da Poole e Wiggins – ovvero due che si sono reinventati, anzi riscoperti specialisti difensivi d’élite contro due tra i migliori realizzatori della lega.
Al resto, poi, ci ha pensato Steph Curry, MVP delle Finals al sesto tentativo, icona riconosciuta di una squadra nata e cresciuta a sua immagine e somiglianza. Certo, gli anni passano anche per lui, che non è più quel big di sistema semovente che ti costringeva ad alzarti la mattina solo per aprire l’app sul cellulare e vedere quale record avesse sbriciolato. Eppure, come nella migliore aderenza possibile tra individuale e collettivo, anche Curry si è dimostrato un giocatore più consapevole, in pieno e totale controllo dei suoi mezzi, per certi versi persino jordanesco nel suo saper “aspettare” quel momento della partita in cui lui avrebbe deciso come e dove fare la differenza. Gara-4 al TD Garden è la sua Cappella Sistina, la partita che legittima una carriera e che certifica una legacy che fino ad oggi è stata messa costantemente in discussione da chi sosteneva che fosse solo uno “forte tra i forti” e non il protagonista assoluto della squadra che più di tutte ha cambiato e influenzato il basket contemporaneo: 43 punti, 19 negli ultimi 17 minuti, per ribaltare l’inerzia di partita e serie, fiaccando i Celtics nella testa prima ancora che nel fisico secondo il principio per cui non è importante ciò che fai ma ciò che gli altri credono che tu possa fare.
La dimostrazione si è avuta nella successiva gara-5, quando Curry ha tirato male (7/22 dal campo e addirittura 0/9 da tre) senza per questo limitare i compagni, anzi facendo in modo che questi alzassero ulteriormente il livello delle loro prestazioni. I 15 punti di Gary Payton II – tagliato a inizio stagione, rifirmato come quindicesimo e ultimo del roster dopo che si era addirittura candidato per un posto da video coordinator, e rientrato in extremis dopo l’infortunio al gomito sofferto a causa di un brutto fallo di Dillon Brooks in gara-2 contro i Grizzlies – costituiscono non solo la storia di queste finali ma anche la migliore spiegazione possibile dell’influenza che Curry riesce ad avere su quelli che giocano con e per lui, sul modo in cui riesce a stimolarli mentalmente. «Quando smetterò di allenare mi guarderò indietro e ringrazierò Steph» ha detto Steve Kerr. Uno che ha giocato e vinto con Jordan e che è in grado di riconoscere la grandezza quando se la trova di fronte.
In questo articolo su The Ringer, Zach Kram ha scritto che «quasi non esistono precedenti nella storia NBA del modo in cui gli Warriors hanno vinto, sono caduti e si sono rialzati vincendo di nuovo», soprattutto perché «non hanno solo vinto quattro titoli ma hanno definito una nuova era di questo sport». E lo hanno fatto andando oltre se stessi, oltre ciò che erano diventati, tornando al punto di partenza quando non sapevano come andare avanti, recuperando un’identità che sembrava perduta, colmando il vuoto colpevolmente lasciato a Ovest dai Lakers dei futuri hall of famers che non sono riusciti a essere tali nel presente, dai Nuggets non all’altezza di Jokic, dai Jazz che si sono sgretolati troppo presto e troppo facilmente, dai Suns delle grandi occasioni mancate, dai Mavericks troppo dipendenti da Luka Doncic.
«Credo che tutti stiano pensando che questa è la nostra fine. Eppure vi dico che ritorneremo». Era Draymond Green, era il 2019, era una gara-6 che doveva essere la fine ed invece era solo l’inizio. Aveva ragione Green, aveva ragione Curry: gli Warriors sono tornati, anzi non se ne sono mai andati, sono sempre stati lì. E lo hanno dimostrato nell’unico modo possibile, nell’unico modo che conoscono.