Non succede spesso che una calciatrice di 25 anni abbia già superato le 40 presenze in campo internazionale. Valentina Bergamaschi ha esordito prima dei 20 anni, nel 2016 – lei è del 1997 – e non si è mai fermata. Quando parla dei traguardi che ha già raggiunto ha un volto che fa trasparire l’emozione della ventenne che è. Nessun filtro messo lì per esperienza, poco understatement, nessuna emozione posticcia. Dev’essere merito dell’energia che ci devi mettere a rincorrere, a risalire, a convincere gli altri – tutto il mondo, calcistico e non – che vali lo stesso. Fino a ieri, almeno. È stato un percorso difficile ma ci siamo arrivati: dal primo luglio 2022 il calcio femminile in Italia è diventato professionistico. Valentina è uno dei volti di Nike, che vede nel calcio non solo uno sport ma una piattaforma per creare una comunità e riunire le persone: il futuro dello sport non passa solo tangenzialmente dalle calciatrici, ma da loro parte e verrà sempre più trascinato. Si parte così per andare in Inghilterra, un’estate italiana da sognare in campo e fuori, dopo l’ultima volta, scorribanda pazza ed emozionantissima in terra francese da sette milioni di spettatori davanti alla tv. Valentina si ricorda tutto e negli occhi c’è un luccichio speciale anche a tre anni di distanza. Dev’essere di quelli che non se ne vanno più.
Ⓤ: Come è iniziato tutto?
Io ho iniziato a giocare a calcio perché era una passione innata. Prima praticavo la pallavolo però poi è arrivato un periodo buio, che è stato a 7 anni quando mi sono ammalata a un polmone, e mi hanno ricoverato al Niguarda operandomi d’urgenza. E da lì ho preso coraggio perché è sempre stato un sport che facevo in cortile, con mio fratello, a scuola, con i miei amici. E ho detto: papà, io voglio iniziare a giocare a calcio. E così è nata un po’ tutta la mia storia calcistica, nel senso che ho iniziato a giocare a calcio coi maschi a Caravate, un paesino vicino al Lago Maggiore, e poi sono andata a Lugano.
Ⓤ: Perché proprio il calcio?
Non te lo so spiegare, non lo so descrivere. Era solo la cosa che mi piaceva fare di più, lo sport che mi piace fare di più. Seguivo mio padre perché era calciatore, non ha giocato a livelli altissimi però in Serie B c’è arrivato, e poi io andavo a vedere le sue partite, perciò è stato uno dei primi modelli a cui mi sono ispirata.
Ⓤ: Quand’è che hai capito che poteva diventare qualcosa di serio?
L’ho capito dopo che ho subito il primo infortunio: ho avuto un momento molto brutto nel senso che io non volevo continuare, perché mi ero rotta il crociato sinistro e avevo 17 anni. Mi sono detta: no, io non voglio provare ancora questo dolore, non voglio più giocare. E da lì poi i miei genitori mi hanno detto: ma tu hai iniziato a giocare a calcio perché volevi diventare una calciatrice, allora io ho preso coraggio, siccome sono una persona molto orgogliosa, e siccome i miei obiettivi sono lì, ben definiti, non volevo che questo obiettivo svanisse così. E allora li ho guardati, li ho ringraziati con le lacrime agli occhi perché mi hanno fatto capire che quella era la mia strada.
Ⓤ: E invece quando ti sei accorta che eri così forte, molto più delle altre?
Non è una cosa a cui penso molto, ma ti dico una cosa che mio papà mi diceva spesso, che non mi vedeva più fare e che ultimamente sono tornata a fare: mi diceva che io prendevo la palla e andavo in porta con la palla. Avevo quella forza nel puntare l’uomo e dribblarlo per cui arrivavo a… mangiarmi gli avversari. E da lì in poi quando ho preso coraggio della mia forza è stato proprio lì quel salto di qualità.
Ⓤ: Com’è stato andare via dall’Italia a 18 anni?
È stato difficile, perché ho fatto un’esperienza a Neunkirch, non sapevo la lingua, non conoscevo nessuna delle mie compagne, ma non sapevo neanche l’inglese. Oltre che sotto l’aspetto calcistico mi ha fatto crescere sotto l’aspetto umano perché ho capito quanto era difficile stare lontano da casa e quando mi dovessi ancora rimboccare le maniche per vivere anche la vita al di fuori del calcio.
Ⓤ: Questa vita adulta all’inizio com’era, come ti sei organizzata?
Allora io non avevo ancora fatto l’esame di maturità, per cui ho dovuto anche far combaciare i ritmi calcistici con la vita fuori dal calcio che era lo studio. Non è stato molto facile perché ero lontana, poi tornavo qualche settimana per rimettermi in pari, ma ho dovuto fare l’ultimo anno di scuola lontano dalla vita comune, che secondo me è molto importante. E comunque non sapevo bene come muovermi tra calciatrice e ragazza immatura che ero. E ho cercato una stabilità e la sto trovando ancora, perché non è semplice e sto ancora studiando. Faccio scienze motorie, e a volte è ancora più difficile di quando facevo le superiori. Ma penso sia una parte importante di uno sportivo è essere una persona anche fuori dal calcio, perché ti fa veramente staccare la spina.
Ⓤ: Una calciatrice di 25 anni riesce a vivere come una ragazza di 25 anni?
Sinceramente penso di no. Perché vedo tante mie coetanee che vanno in Erasmus, fanno tirocini, lavorano, magari hanno famiglia, e io sono qui a fare la calciatrice. E io amo fare la calciatrice, non posso essere dispiaciuta di questa cosa e non cambierei nulla della mia vita, perché è proprio la persona che voglio essere, è quello a cui voglio ambire.
Ⓤ: Hai visto il calcio italiano crescere da lontano. Quando sei tornata l’hai trovato cambiato?
Quando giocavo in Svizzera la differenza era molto sotto l’aspetto fisico. Nulla da rivedere sotto l’aspetto tecnico-tattico italiano, lì non abbiamo niente da invidiare a nessuno. Vedevo crescere il calcio italiano ed ero orgogliosa. Sono molto contenta di aver fatto questa esperienza all’estero perché sotto l’aspetto fisico mi ha dato l’exploit per essere la calciatrice che sono ora, prima ero tutta mingherlina, e credo che ora sia arrivato il momento di dare una svolta al calcio italiano.
Ⓤ: Come è cambiato il tuo ruolo?
Da piccola giocavo punta centrale. Poi mi hanno spostata sempre più esterno, quando abbiamo iniziato ad allargarci col campo. Mi vedevano rapida, poi ero piccolina… Ho iniziato a giocare sulla fascia fino a che non è arrivato questo 3-5-2 dove io faccio il quinto, tutta la fascia avanti e indietro. Mi piace, mi piace segnare, e mi auguro di continuare a farlo, perché è una cosa che avevo perso e ora ho ritrovato. Mi avevano spostato un po’ più indietro, rispetto a dove gioco ora, però amo segnare, amo dribblare, amo vedere la porta. La mia propensione è quella di andare avanti.
Ⓤ: Nel 2019 avete fatto sognare un Paese e ha sorpreso tanti. Non tanto per quanto fatto in campo, o non solo. Ma soprattutto per il carico emotivo che è arrivato al pubblico, una cosa che prima in molti ignoravano. È stato, penso, un cambiamento molto profondo, culturalmente oltre che sportivamente. L’avete percepita, questa cosa?
Ti dico la verità: siamo arrivate là con l’idea che già il fatto di essere là era un traguardo, perché l’Italia mancava da anni in un torneo del genere. E dopo la prima partita con l’Australia che ci siamo messe a tavola, ci siamo guardate e abbiamo detto: ma davvero abbiamo vinto contro la sesta squadra più forte del mondo? E poi abbiamo visto tutte le statistiche con tutti i dati, i report, media, foto… Persone che mai avrei potuto immaginare che avessero visto la nostra partita, e invece l’avevano fatto. L’exploit vero e proprio l’abbiamo avuto poi contro il Brasile. Ci siamo dette: stiamo facendo la storia, andiamo avanti, crediamoci. Ma è venuto tutto dal gruppo, dallo staff, dalle persone che ci circondavano. E l’arma in più è stata anche questa gente che ci seguiva. Tanti amici miei che mai avrei pensato di vedere a Valenciennes con l’Olanda sono venuti a Valenciennes. E mi hanno detto anche loro: mai avrei pensato che tu fossi una calciatrice che avrebbe giocato un torneo del genere. E invece ero lì a giocare.
Ⓤ: Te lo aspettavi anche solo due anni prima, un exploit del genere?
Secondo me sì perché eravamo già pronte. Quattro anni prima no. Molte società maschili avevano iniziato a investire nel calcio femminile e credo che anche quell’avvicinamento da parte dei maschi sia stato un incentivo.
Ⓤ: Che cosa significa, adesso, il professionismo?
Non te lo so descrivere perché mi brillano gli occhi solo a pensare alla mia carta d’identità dove al posto di studentessa ci sarà scritto: calciatrice.
Ⓤ: L’hai già rifatta?
No, ma la rifarò presto. Pensare che le bambine oggi piccole potranno diventare calciatrici come i maschi è una cosa indescrivibile, è bellissimo. E ringrazio anche le mie veterane, perché è anche merito loro, e a tutte le persone che ci sono dietro e che hanno sbattuto i piedi per arrivare a questo traguardo. Per anni una bambina in Italia doveva guardare all’America per vedere il calcio fatto, raccontato, fotografato in un certo modo. Quando arriviamo al campo e ci sono le nostre piccoline che si allenano, loro ci vedono ed è come se io vedessi Del Piero, Shevchenko, Ronaldinho. Loro vedono noi come i primi modelli a cui ambire. È… bellissimo. Io me lo sognavo da piccola che dicessero “voglio essere come Bergamaschi”, quando io volevo essere come Alex Morgan. E poi adesso puoi chiedere: io a chi potevo chiedere? Sì, a un maschio, ma pur facendo lo stesso sport non è mai uguale. A livello fisico siamo diversi, perciò magari vedere un modello più vicino a loro è più utile.
Ⓤ: Ti senti una pioniera?
Sì, assolutamente. E sono orgogliosa di esserlo.
Ⓤ: C’è ancora una conflittualità tra il calcio maschile e quello femminile?
Non la chiamerei conflittualità. Pratichiamo lo stesso sport, fatto in modo differente, ma abbiamo le stesse cose. Una palla uguale, un campo uguale, e ventidue giocatori. Ma ci sono troppi pregiudizi, noi non vogliamo essere come gli uomini. Noi vogliamo giocare il nostro sport per quello che è, e ti deve piacere per quello che è. E io spero che dopo il calcio arrivi il professionismo per anche gli altri sport. Una vittoria delle donne, per le donne, con le donne.
Ⓤ: Cosa ti manca?
Assolutamente niente, te lo giuro. E cosa vorrei? Vorrei vincere.
Ⓤ: Il momento più emozionante, finora?
In Francia, cantare l’inno davanti a 40mila persone… mi tremavano le gambe e piangevo. E poi anche portare la fascia di capitano, perché non è facile.
Ⓤ: Se pensi al calcio, qual è la prima cosa che ti viene in mente?
Io con la maglia gialloverde della mia squadra dei maschi, il Caravate, che mi arriva sotto le ginocchia, col pallone in mano.