Il tratto che accomuna quasi tutti i report (video e non solo) di Charles De Ketelaere che abbiamo consumato in queste settimane è la loro scomponibilità, il loro essere “divisi in paragrafi”, ciascuno dei quali dedicato a una precisa caratteristica del suo gioco, che viene raccontata quasi come se fosse separata dalle altre: la finalizzazione, la rifinitura, il tempismo e la qualità delle letture con e senza palla, la capacità bergkampesca di superare l’avversario con un dribbling in direzione opposta a quella canonica, l’utilizzo – talvolta eccessivo – della suola e del colpo di tacco per far progredire l’azione in verticale. Insomma, guardar giocare De Ketelaere restituisce una sensazione di completezza, quell’idea per cui si tratti di un giocatore che sa fare tutto e che sa farlo bene. Quest’aura lo accompagna fin dai tempi delle giovanili del Bruges, ed è alla base dell’attesa spasmodica che lo circonda da quando ha iniziato a imporsi in prima squadra.
In un breve documentario realizzato da Eleven Sports, per esempio, l’allenatore dell’Under 14 Stijn Claeys dice che «sono in questo club da dieci anni e non ho visto molto spesso un giocatore come lui, che possiede un pacchetto di abilità così completo: è un calciatore versatile che può giocare in molte posizioni. Questa è anche la qualità che gli permette possibilità di adattarsi molto rapidamente alle varie situazioni». Una necessità che De Keteleare ha compreso già nei suoi anni formativi: a un certo punto del video lo si vede raccontare l’aneddoto di quando, a 12 anni, un’improvvisa crescita di peso e altezza lo portò a diventare uno dei giocatori più lenti della squadra dopo essere stato sempre il più veloce del gruppo, costringendolo quindi a rimodulare il suo gioco sulla base delle nuove caratteristiche fisiche: «La pressione che ho messo su me stesso è sempre stata più grande di quella delle altre persone, qualcosa che mi ha accompagnato fin dagli anni del liceo perché volevo essere eccellente in tutto ciò che facevo».
La naturale versatilità di De Ketelaere, unita al suo talento di oggi e ai suoi margini di crescita, spiega perché il Milan stia facendo così tanti sforzi per aggiungerlo alla rosa che dovrebbe consolidare i rapporti di forza emersi dopo la vittoria dello scudetto. Una delle maggiori criticità riscontrate dai rossoneri nella scorsa stagione, infatti, era costituita da un’evidente sterilità offensiva, da una mancanza di soluzioni che si manifestava nel momento in cui veniva a mancare l’apporto di Rafael Leão nell’ultimo terzo di campo; in quei momenti di stasi, in cui la prevedibilità della manovra offensiva si cristallizzava nel lancio lungo alla ricerca della sponda aerea di Ibrahimovic o Giroud, il Milan dimostrava tutti i suoi limiti di squadra giovane, inesperta e fin troppo dipendente dalla brillantezza e dalla condizione di uno dei suoi giocatori più esplosivi.
In questo senso De Ketelaere sarebbe la variazione sul tema che mancava, il giocatore in grado di occupare tutti gli slot dell’attacco in un 4-2-3-1 e di agire tra le linee sia da trequartista puro che da centravanti ombra, sfruttando la capacità di muoversi a piacimento in zona centrale e la contro-intuitività dell’ultimo passaggio. Di fatto il belga diventerebbe il jolly per uscire di prigione, la garanzia di continuità, varietà e qualità nell’azione offensiva senza dover per forza sperare nell’overperformance di Leão; in questo modo Pioli aggiungerebbe un altro generatore di gioco e occasioni sul lato opposto a quello di Leão, riequilibrando un’inclinazione del campo fin troppo spostata a sinistra e con la possibilità di variare il piano partita anche in corso d’opera. In questo modo il tecnico rossonere potrebbe anche restituire ai suoi centravanti quella lucidità in fase conclusiva che tante volte hanno dovuto sacrificare per aprire con il fisico quegli spazi che non era stato possibile aprire con la tecnica individuale dei giocatori alle loro spalle.
Ma al di là della sua potenziale e immediata adattabilità al sistema di gioco della squadra rossonera, De Ketelaere è e resta un giocatore unico nel suo genere, un atleta su cui vale la pena investire e lavorare in funzione della possibilità di ritrovarsi tra le mani, un domani neanche tanto lontano, un campione generazionale. Guardarlo giocare significa ritrovare tutte le movenze che caratterizzano i calciatori molto alti – secondo Transfermarkt raggiunge quota 1,92 metri – dotati di grande tecnica, quindi la leggerezza, anzi la levità, degli appoggi e dei movimenti, ma anche quel senso di innaturalità per cui ogni singolo tocco appare sempre di troppo, superfluo, ridondante, fine a sé stesso.
In realtà, nonostante l’incoscienza, l’inclinazione nell’assecondare il fattore estetico, la comprensione e l’accettazione del rischio siano ancora quelle tipiche di un giocatore che, in fondo, ha soltanto 21 anni, De Keteleare ha già dimostrato di aver lavorato tanto e bene per rendere più efficace il suo gioco ripulendolo dagli eccessi e dai barocchismi. Questo è un dettaglio che è emerso chiaramente nell’ultima stagione, nel corso della quale ha triplicato il numero di gol rispetto al 2020/21 con un numero di presenze pressoché identico. In area di rigore De Keteleare è un finalizzatore di buon livello, cinico il giusto, che sente la porta anche quando è fuori dal suo campo visivo e che gioca sui tempi di reazione sottratti a marcatore e portiere avversario, grazie a un sinistro prensile che gli permette di ridurre al massimo spazi e tempi necessari al controllo e al tiro; l’unica pecca, comune a tanti giocatori con le sue caratteristiche fisiche, risiede nel gioco aereo e in un colpo di testa che viene sfruttato solo quando non ne può fare a meno o quando risulta davvero impossibile coordinarsi per calciare al volo o di contro-balzo.
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Tuttavia è da trequartista o da “finto” esterno offensivo che De Keteleare fa realmente la differenza, non solo rispetto ai pari età. L’elasticità della corsa e il modo con cui tocca la palla in piena azione costituiscono la parte più vistosa e raccontata del suo repertorio per quanto sarebbe più opportuno concentrarsi sulla su tecnica nel primo controllo orientato, una qualità che lo accomuna a Patrick Schick, soprattutto quando agisce da riferimento per la risalita del campo. Parliamo, quindi, di un manipolatore, di un giocatore che disorganizza le rotazioni altrui, più che di un calciatore da strappi e accelerazioni, per quanto il suo cambio di passo – sia da fermo che in situazione dinamica – risulti molto spesso efficace, anche perché supportato da una struttura fisica che asseconda la fluidità della corsa. E anche gli istinti senza palla sono basati sulla reattività e sulle letture preventive più che su una fisicità soverchiante: il curl partendo alle spalle dell’ultimo difensore per poi aggredire la profondità sulla traccia interna è la signature move di De Keteleare, il movimento con cui ha aumentato in maniera esponenziale la sua incisività negli ultimi trenta metri, soprattutto quando viene schierato da punta.
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Allo stesso modo, De Keteleare non è – non può essere – un rifinitore così visionario come ci si potrebbe attendere da chi ha le potenzialità per andare in doppia cifra negli assist ogni anno. Perché non è ancora in grado di deformare a piacimento la dimensione spazio-tempo come per esempio fa Kevin De Bruyne, quindi il suo successo come assistman è legato alla capacità di connettersi con il ricevitore, giocando sui punti di forza dello stesso e sul timing dell’appoggio; i suoi passaggi decisivi, per quanto possano risultare per certi versi persino “prevedibili” dal punto di vista delle scelte dell’esecuzione, risultano comunque ugualmente efficaci perché modulati su chi li riceve e giocati in anticipo sui tempi di reazione degli avversari.
Così come per i video, anche nelle interviste che De Keteleare ha rilasciato negli ultimi mesi emerge un pattern chiaro, una caratteristica che aiuta a definire la sua natura di calciatore diverso dagli altri: leggendole emergono un’ambizione feroce – in forte contrasto con la prossemica e il volto da bravo ragazzo – e la consapevolezza di essere entrato in una dimensione diversa e ulteriore rispetto a quando era solo un giovane che giocava sognando di imitare quelli che un giorno sarebbero diventati i suoi compagni di squadra. Non a caso ha detto che punta «a vincere la Champions League con un club e una grande competizione con la Nazionale» nei prossimi sei anni. Per il momento il suo talento e il suo atteggiamento lo stanno portando da Bruges a Milano, nella squadra campione d’Italia. Il suo è un percorso che è appena cominciato e che non sembra avere limiti, potenzialmente.