Probabilmente non saremo mai in grado di capire fino in fondo se l’espulsione per doppio tecnico che Gianmarco Pozzecco ha rimediato durante la gara contro la Serbia sia stata cercata, uno stratagemma alla Gregg Popovich prima maniera, oppure deve essere considerata solo la diretta conseguenza del suo eccesso di partecipazione che spesso diventa incontinenza emotiva – una caratteristica che aveva da giocatore e che gli viene rimproverata anche in questa sua seconda vita di allenatore. La prossemica e il linguaggio del corpo – il volto trasfigurato fino alle lacrime, la ricerca ossessiva del contatto fisico e dell’abbraccio con i suoi giocatori, quasi a voler cercare un espediente per non abbandonare il campo – lascerebbero propendere per la seconda ipotesi; le parole di Marco Spissu subito dopo la partita – «La sua espulsione ci ha smosso qualcosa dentro: stavamo facendo bene anche prima, ma da lì qualcosa è cambiato» – racconterebbero, al contrario, di un momento di lucidissima e studiata follia, del colpo di genio di un uomo istintivo che, messo di fronte alla necessità di ottenere qualcosa di più da parte dei suoi giocatori, ha scelto di immolarsi per la causa. Di sacrificarsi per una squadra che stava già cercando di andare oltre sé stessa.
Il gesto di Pozzecco, studiato o casuale che sia, ha comunque costituito un azzardo all’interno di una partita che l’Italbasket ha dovuto giocare come un azzardo sui due lati del campo, prendendosi dei rischi che a un certo punto potevano sembrare persino eccessivi, soprattutto a fronte di un metro arbitrale fin troppo permissivo e indulgente nei confronti di Micić e Jokić; oggi tutto viene filtrato attraverso la lente bonaria e ridanciana del meme diventato virale – come la tentata invasione di campo dopo la sirena finale prontamente stoppata da Nicolò Melli o l’abbraccio ad Antetokounmpo incrociato per caso nel tunnel degli spogliatoi – ma è facile immaginare che, in caso di sconfitta, la principale chiave di lettura sarebbe stata quella di un coach incapace di gestire le pressioni e le responsabilità di certi palcoscenici, di un allenatore non adatto per un contesto in cui la componente razionale dovrebbe sempre prevalere su quella emozionale. Eppure secondo Pozzecco è stata proprio quest’ultima a rendere possibile la più grande impresa del basket italiano dopo l’argento di Atene nel 2004: «Noi abbiamo due opzioni: pensare o non pensare. Pensare vuol dire che abbiamo la Francia, probabilmente la Slovenia ed eventualmente la Grecia. Quindi Gobert, Doncic e Antetokounmpo, dopo aver giocato contro Jokić. La seconda è non pensare, fare in modo che questi ragazzi vivano l’entusiasmo e scendano in campo pensando di vivere un sogno. Il sogno non è razionalità. Quindi nemmeno noi dobbiamo essere razionali».
Quest’affermazione sembra assecondare un tipo di narrazione che accompagna lo sport italiano praticamente da sempre, quasi come se ogni insperato rovescio – individuale e di squadra – non possa essere raccontato senza ricorrere al misticismo delle coincidenze troppo assurde per essere vere, alla retorica dell’underdog, ai topoi classici dell’apparizione salvifica dell’eroe per caso e del gruppo che si compatta al grido di noi contro il mondo. In pratica quando l’Italia e gli italiani vincono contro un avversario teoricamente più forte, lo fanno grazie al verificarsi di quelle congiunture spazio-temporali, favorevoli e irripetibili, che proiettano tutto in una dimensione di incoscienza e inconsapevolezza, per altro destinata a durare lo spazio di una partita, di un torneo, di un’estate, prima che ci si svegli tutti insieme per tornare alla dura realtà dei romantici sfavoriti che si sono fatti onore e nulla più.
La serata della Mercedens-Benz Arena, da questo punto di vista, non ha fatto eccezione. O almeno così sembra: la suggestione di un altro «cielo azzurro sopra Berlino» dopo quello calcistico del 2006, il tweet di Miro Bilan che ha ricordato come nei suoi due anni a Sassari la squadra avesse sempre vinto dopo un’espulsione di Pozzecco, Spissu che dopo l’uscita dal campo del coach tira 5/6 da tre, Polonara che segna in gancio cielo alla Kareem Abdul-Jabbar e mette due triple in step-back da quasi nove metri, Melli che stoppa Jokic nel defining moment della sua partita e forse della sua carriera, Fontecchio che chiude in reverse il contropiede più importante della sua vita, Pajola e Tonut che combinano per appena 6 punti in due ma che trovano ugualmente il modo di avere impatto nel quintetto da battaglia schierato a cavallo tra secondo e terzo quarto, quando la Serbia ha cercato inutilmente di piazzare l’allungo decisivo dopo aver toccato anche la doppia cifra di vantaggio.
Gli highlights di una partita indimenticabile
Eppure considerare tutto questo “solo” come un miracolo non è altro che una visione parziale e sottostimante di ciò che si vede sul campo. Finisce con l’azzerare i meriti e le qualità tangibili di una squadra che, a poco più di un anno dalla presa di Belgrado che valse il pass per le Olimpiadi di Tokyo, ha battuto nuovamente i serbi quando sembrava impossibile farlo. E lo ha fatto concretamente, da squadra conscia dei propri limiti ma anche delle proprie potenzialità, in cui «ognuno deve credere nei propri mezzi, perché se parti già battuto allora è perfino inutile scendere in campo. Noi non entriamo mai in campo pensando di perdere, anzi siamo consapevoli che se giochiamo di squadra possiamo essere davvero pericolosi per chiunque», come ha detto Melli a Sky Sport.
Ed è questa consapevolezza a segnare la vera differenza rispetto al passato anche recente, oltre che il motivo per cui questa Nazionale è così seguita e amata: l’Italia del basket non è – o non è più – quella che punta a perdere bene quando si trova di fronte avversari come la Serbia di Jokić o la Francia di Rudy Gobert, magari continuando ad alimentare la retorica dell’a testa alta che tanto male ha fatto al movimento negli anni della ricostruzione post-Atene. Piuttosto è una squadra credibile, forte, identitaria, riconoscibile nel suo tentativo di bilanciare di pregi e difetti. E che proprio per questo riesce a giocarsela a modo suo – anzi: alla pari – contro chi può schierare delle stelle NBA di prima grandezza. Questa Italbasket rappresenta il trionfo dell’etica del lavoro, della preparazione, dello studio degli avversari, della costruzione di un roster omogeneo e funzionale in grado di far fronte all’infortunio di Danilo Gallinari e al parziale ridimensionamento della centralità di Gigi Datome, gli ultimi due esponenti di una golden generation che ha raccolto troppo poco rispetto a quello che prometteva.
All’inizio di questo video pubblicato sui canali social dell’Italbasket, ad esempio, si vede Pozzecco esporre il piano gara contro la Serbia partendo dal dato statistico in cui gli azzurri risultano primi nella speciale classifica, quello relativo ai punti concessi di media: una scena che sembra presa direttamente da Hoosiers – in particolare quando Gene Hackman/Norman Dale invita i suoi giocatori a misurare l’altezza dei due canestri per convincerli che possono battere i favoritissimi e fortissimi Central Bears di South Bend – ma che in realtà racconta di una squadra che sa cosa fare e quando farlo. Quindi difendere forte, sporcando le linee di passaggio verso Jokić e cambiando sistematicamente su Micić e Guduric, e poi spingere sulla transizione alla ricerca di tiri rapidi e ad alta percentuale. Tutte cose che risultano molto più facili in quelle serate in cui Marco Spissu si trasforma in un cosplay credibile di Steph Curry.
No, non stiamo esagerando
Al di là dell’overperforming più o meno episodico del singolo, sono queste le peculiarità che hanno portato l’Italia ai quarti di finale di Eurobasket. E non c’è motivo di pensare, al netto degli inevitabili correttivi e aggiustamenti che si renderanno necessari, che possa snaturarsi adesso che si appresta a sfidare la Francia – nonostante si tratti di una squadra molto diversa dalla Serbia per caratteristiche, con Gobert che rappresenta uno spauracchio persino peggiore di Jokic a causa della cronica assenza di un centro di ruolo che possa contenerlo sul piano fisico. In questo senso è probabile che a Nicolò Melli venga richiesta l’ennesima partita di sacrificio, da leader tecnico ed emotivo soprattutto nella metà campo difensiva e nel pitturato – contro la Serbia, a un certo punto della telecronaca, Flavio Tranquillo sembrava sul punto di rispolverare il «Cannnavaaaro» che fu di Caressa. E che toccherà a Fontecchio prendersi i tiri decisivi per restare a contatto in quelle fasi della partita in cui la maggiore fisicità dei francesi, legata al minutaggio concesso a M’Baye, Yabusele e Luwawu-Cabarrot, potrebbe prendere il sopravvento. Il tutto mentre Spissu, Tonut, Pajola e Mannion saranno chiamati ad alternarsi nel contenere le iniziative di un reparto guardie in cui il dinamismo di Albicy, Okobo e Maledon costituisce il piano B cui coach Vincent Collet fa ricorso quando la capacità di creare dal palleggio di Heurtel e Fournier non riesce più a mascherare i limiti di una squadra che fatica ad attaccare in maniera fluida e veloce, soprattutto quando i lunghi vengono tirati fuori dalla propria comfort zone in post.
Per questo l’Italia si è guadagnata il diritto – anzi: il privilegio – di poter essere potenzialmente criticata in caso di eliminazione contro un’avversaria più forte e favorita ma anche battibile, e che ha accusato parecchi passaggi a vuoto durante il torneo. E questo perché Pozzecco e i suoi giocatori hanno fiducia nel basket che giocano, riescono ad applicarne i concetti chiave in maniera estrema e rischiosa nei momenti in cui è necessario salire ulteriormente di livello, quando bisogna compensare con il collettivo le mancanze e gli squilibri legati alle minori qualità individuali. Perché essere sfavoriti è un conto, ma non significa più essere scarsi, non forti abbastanza: «Quando giochi contro un gruppo che ha questo mix di carattere, compattezza e follia non sai mai cosa può uscire: siamo la squadra che nessuno vuole mai affrontare. Abbiamo scioccato il mondo», ha detto il Poz subito dopo aver battuto la Serbia, citando – anche qui non si saprà mai quanto volontariamente – l’immortale I shook up the world di Muhammad Ali. La sua espulsione può essere stato un caso oppure no, ma di certo sono cambiate le prospettive e le percezioni intorno a un’Italbasket che può vincere. Che ha già vinto. Non tanto e non solo perché avvolta dall’alone mistico del “team of destiny” ma perché è in grado di farlo. Senza doverla poi raccontare per forza, nel caso, come l’ennesimo miracolo italiano.