Il 7 agosto scorso l’Olimpique Marsiglia aveva esordito in Ligue 1 battendo 4-1 il Reims tra i fischi. Quelli che il pubblico del Vélodrome aveva indirizzato fin dall’annuncio delle formazioni a Igor Tudor, l’allenatore che il presidente Pablo Longoria aveva designato come successore di Jorge Sampaoli dopo le burrascose dimissioni di quest’ultimo all’inizio di luglio. Anche l’atteggiamento di analisti ed ex giocatori era diffidente: Jérome Rothen, per esempio, disse che «quello che si è visto in campo è merito dei giocatori, non certo del tocco di Tudor. Il nuovo allenatore ha messo in discussione tutto il lavoro fatto da Sampaoli. A me non dispiace che ci siano stati dei cambiamenti, ma non capisco come si possa mettere a ferro e fuoco uno spogliatoio in così poco tempo. Tutto andava bene a Marsiglia, c’era un bel clima tra i giocatori. Il problema è che alla prima sconfitta ci sarà una frattura totale con il gruppo, oltre che con la tifoseria». In qualche modo, Rothen aveva ripreso e confermato lo scoop del quotidiano La Provence, poi rilanciato anche da L’Equipe, secondo cui la posizione del tecnico croato era già in bilico a causa dei suoi metodi di allenamento mal digeriti dai giocatori, Dimitri Payet in testa.
La sconfitta incendiaria profetizzata da Rothen avrebbe potuto essere quella dell’8 ottobre contro l’Ajaccio ultimo in classifica, per di più alla vigilia della settimana che avrebbe portato l’OM a giocarsi la vetta della classifica nello scontro diretto con il Paris Saint-Germain. E, invece, la squadra ha dimostrato la sua forza mentale andando a vincere quattro giorni dopo una gara fondamentale – a Lisbona contro lo Sporting – per il passaggio del girone di Champions League. Un traguardo che l’OM non raggiunge da oltre dieci anni. E che ora sembra alla portata, anche in virtù del fatto che la squadra sembra essersi schierata dalla parte del suo allenatore: «Ieri una delegazione di quattro giocatori è venuta da me e mi ha detto di stare tranquillo, che il gruppo aveva buone sensazioni e che la partita sarebbe andata bene. Adesso non dobbiamo fare altro che continuare così, partita dopo partita, pensando sempre a dove possiamo migliorare e a quanto possiamo essere bravi se ci applichiamo in tutto ciò che facciamo: è bello trovarsi oggi nella posizione in cui ci troviamo noi, io sono orgoglioso e i giocatori sono contenti», ha detto Igor Tudor dopo lo 0-2 dell’Alvalade.
Per quanto oggi ci sembrino parte integrante di quell’universo memetico di previsioni sbagliate ed esagerazioni che Antonio Cassano ha elevato a forma d’arte, le parole di Rothen avevano comunque un senso, una ragione d’esistere, nella misura in cui il compito che attendeva Tudor era di quelli più difficili per un allenatore: l’ex tecnico del Verona doveva convincere un gruppo di sportivi professionisti a cambiare il metodo di lavoro che li aveva portati a raggiungere un risultato importante. Dopotutto il Marsiglia non era una squadra in crisi o da ricostruire, anzi era reduce da un secondo posto in Ligue 1 che aveva rappresentato il massimo raggiungibile per chi compete nello stesso campionato del Psg di Messi, Neymar e Mbappé. C’era anche da tener conto della profondità del cambiamento in corso, visto che Tudor ha rappresentato – e rappresenta ancora, al netto del miglior avvio di campionato dei marsigliesi degli ultimi 23 anni – un elemento di profonda discontinuità con la gestione di Sampaoli, anzi è una vera e propria anomalia soprattutto per ciò che riguarda la comunicazione e il modo in cui riesce a trasmettere determinati stimoli ai suoi giocatori. «Il mister ha idee ben precise e che dobbiamo seguire. Ha un carattere veramente forte, che è importante, ma anche l’esperienza. Per questi motivi, se lo seguiamo, potremo fare grandi cose», ha dichiarato recentemente Eric Bailly, che all’OM sta cercando il rilancio dopo sei stagioni anonime al Manchester United.
Quella di Tudor è una concezione del calcio e del lavoro quasi militaresca, alla Antonio Conte per intenderci, che si fonda sulla necessità che i giocatori comprino il progetto, che credano che quello del loro allenatore sia l’unico sistema per farcela, per compiere un ulteriore passo in avanti, per colmare il gap e competere con squadre più ricche, più attrezzate, più forti. A Marsiglia sta accadendo esattamente questo: Tudor ha convinto i calciatori che un ulteriore salto di qualità e possibile, che il Psg può essere sfidato e persino battuto, ma che per farlo è necessario rischiare, mettere in discussione le proprie convinzioni, cambiare il modo di allenarsi e di stare in campo. Coinvolgendo in questo processo anche i tifosi, per creare un clima di unità di intenti che si rifletta su una squadra che sia in grado, allo stesso tempo, di trascinare ed essere trascinata da una fanbase storicamente calda, generosa ma anche esigente: «Per quello che riguarda i fischi», disse Tudor nella conferenza stampa dopo la partita con il Reims, «posso solo dire che i tifosi hanno sempre ragione. Noi giochiamo per loro, sono fondamentali: se non ci fossero i tifosi non ci sarebbe neanche il calcio. A me tocca lavorare giorno dopo giorno per il bene della squadra, perché questo è anche il bene dei tifosi».
Il concetto stesso di coinvolgimento è fondamentale anche per fornire un’ulteriore chiave di lettura nell’analisi di ciò che l’OM ha proposto sul campo in questi primi due mesi di stagione. Fin dal suo insediamento Tudor non ha mai fatto mistero di voler praticare «un calcio offensivo, intenso, ambizioso e allo stesso tempo organizzato», che fosse il risultato di un lavoro di sintesi tra la caratteristiche del campionato e i principi cardine del suo sistema. Il tutto si è tradotto in un 3-4-2-1 di chiara ispirazione gasperiniana costruito intorno alla dimensione fisica e atletica dei due esterni a tutta fascia, Nuno Tavares e Jonathan Clauss: arrivati entrambi in estate, Tavares e Clauss sono le dinamo di un sistema estremamente diretto e verticale, esprimendo una tecnica in velocità che si concretizza nelle connessioni da quinto a quinto – anche se sarebbe meglio dire “da quarto a quarto” – e nell’aggressione continua degli avversari.
Nell’ultimo terzo di campo il compito di creare superiorità numerica e posizionale è affidato alternativamente ad Amine Harit – «Ha un ottimo controllo di palla, sa dirigere il gioco a suo piacimento, si muove tra le linee, ha le capacità tecniche per combinarsi con gli altri» ha spiegato Tudor dopo la partita di Lisbona –, Cengiz Ünder e Gerson, mentre il ruolo di equilibratore spetta a Mattéo Guendouzi. La scelta di Tudor di alzare di venti metri il raggio d’azione del centrocampista francese, ridimensionando la centralità tecnica ed emotiva di Payet, è stata la mossa che ha permesso al Marsiglia di guadagnare solidità in fase di non possesso garantendosi comunque un’ulteriore soluzione in rifinitura e conclusione. Nella stessa azione, la sola presenza di Guendouzi permette al Marsiglia di avere, allo stesso tempo, un uomo in più nella trequarti offensiva e la scorciatoia per passare rapidamente al 3-5-2 in caso di perdita del pallone. Al resto ci sta pensando il redivivo Alexis Sánchez, autore di sei gol nelle sue prime 11 partite, dieci delle quali disputate da titolare.
In non possesso, se possibile, le peculiarità del Marsiglia di Tudor sono ancora più nette e segnano la differenza più evidente – dal punto di vista visivo prima ancora che tattico – rispetto alla passata stagione. Al di là di quella che può essere la sostenibilità a lungo termine di una fase di riaggressione e di pressing così dispendiosa, la vera scelta i rottura da parte di Tudor è stata quella di costruire una squadra che fosse corta, compatta, aggressiva, naturalmente portata a difendere in avanti e a concedere il minor numero di tocchi possibili agli avversari nella propria metà campo. Fondamentale è, perciò, il lavoro svolto dalla cerniera Veretout-Rongier e la qualità delle letture di Mbemba, il leader difensivo che spinge la linea dei tre ad accorciare sistematicamente, evitando che si creino gli spazi in cui possano agire con e senza palla le mezzali e i trequartisti avversari. «Mbemba è un leader silenzioso, è davvero molto importante nello spogliatoio ed è fondamentale nel nostro sistema: ci dà esperienza, sa guidare la palla e muovere la difesa in avanti» ha detto recentemente Tudor commentando le prestazioni dell’unico vero giocatore insostituibile della sua rosa – 13 partite su 13, 1.082 minuti disputati sui 1.170 disponibili. Come spesso accade, poi, anche la scelta più radicale risponde alle necessità imposte dalle contingenze: nel caso del Marsiglia gli addii di Luan, Saliba e Kamara – gli ultimi due per fine prestito – hanno costretto Tudor a ripensare la squadra dal punto di vista difensivo e della prima costruzione, optando per la ricerca immediata e sistematica della verticalizzazione per provare a limitare i rischi connessi alla perdita del possesso nella metà campo difensiva con la squadra in uscita.
La sconfitta con il Psg, la seconda consecutiva in campionato, ha rallentato l’incedere dei marsigliesi e posto probabilmente fine a un testa a testa che avrebbe dato un senso all’intera stagione di entrambe. Eppure la sensazione è comunque quella di una sconfitta necessaria, di una delle tante tappe di avvicinamento su una strada che può e deve essere «lunga, fertile in avventure e in esperienze», come nell’incipit di una celebre poesia di Konstantinos Kavafis. Il poeta greco utilizzò Ulisse e il suo viaggio di ritorno verso Itaca come metafora di una vita consacrata alla scoperta e alla conquista della conoscenza attraverso l’esperienza: la stessa che Igor Tudor e il suo Marsiglia stanno facendo per poter tornare, un giorno, sul trono di Francia. In fondo Messi, Neymar e Mbappé non potranno mai essere peggio dei Lestrigoni, dei Ciclopi o della furia di Nettuno.