Lautaro Martínez non ha più limiti

Il suo talento e la sua completezza facevano presagire un futuro da attaccante d'élite e da leader dell'Inter. Ora quel futuro è realtà.

Al minuto 63′ di Barcellona-Inter, quando si appresta a controllare di petto il pallone calciato da Cahlanoglu, Lautaro Martínez si  si trova nel bel mezzo di uno di quei loop negativi che hanno contribuito ad alimentare l’idea che ci siamo fatti di lui in questi anni: quella  di un attaccante fin troppo emotivo e che tende a subire gli eventi invece di dominarli, controllarli, farli accadere. In quel momento, il momento più difficile della sua stagione ma anche dalla stagione dell’Inter – Lautaro non segnava in maglia nerazzurra dal 30 agosto, e da quel giorno la squadra di Simone Inzaghi aveva inaugurato una striscia negativa di quattro sconfitte in sei partite che avevano indebolito non poco la posizione del tecnico – è perciò perfettamente normale, anzi naturale, che le difficoltà della sua prestazioni siano il riflesso delle difficoltà di un collettivo che sembra non poter andare oltre quei limiti psicologici che sembrano appartenergli.

Per via di tutto questo, quello che accade nello spazio di due secondi – stop, aggiramento di Eric García e destro a incrociare sul primo palo che coglie in controtempo Ter Stegen – può essere considerato l’attimo che può cambiare per sempre lo status di Lautaro, il modo in cui verrà raccontato nella fase centrale della carriera, il momento che verrà richiamato ogni qualvolta si dovrà individuare quando e come El Toro abbia fatto lo switch che ci attendevamo fin da quando sembrava a un passo dal raggiungere l’eccellenza assoluta. Il gol al Camp Nou – ma anche il successivo assist per il provvisorio 3-2 di Gosens – realizzato praticamente alla prima occasione utile rappresenta perciò quello che tutti stavamo aspettando, quello che Lautaro stesso stava aspettando, il momento di definizione di un giocatore fortissimo e decisivo non più in potenza o in proiezione futura, ma in maniera oggettiva, tangibile, reale, nel qui e ora imposto da una partita fondamentale per il passaggio di un girone di Champions in cui l’Inter sembrava non avere speranze.

Il gol al Camp Nou

Fin da quando ha compiuto il grande salto in Europa, l’immagine di Lautaro Martínez attaccante di flusso, cioè un attaccante dall’istintività e volubilità talmente marcate da risultare dominante nelle giornate di grazia collettiva e irritante quando la squadra soffriva di improvvise amnesie, ha costituito il punto di partenza della discussione intorno a lui. Di un dibattito infinito che poi si è progressivamente sviluppato intorno a concetti dai confini di difficile definizione, per esempio il valore assoluto, il peso specifico dei gol, il rapporto tra efficacia e efficienza in relazione al volume delle giocate, la capacità di fare la differenza contro avversari di altissimo livello; una circostanza legata all’interpretazione del ruolo, e all’impatto che questa ha nell’economia di una squadra a seconda della natura della stessa.

Fino alla scorsa stagione, anzi fino al derby del 5 febbraio – convenzionalmente indicato come il punto di non ritorno della prima Inter di Inzaghi – Lautaro era considerato un attaccante che segnava tanto nel momento in cui la squadra riusciva a creare un volume e un numero di occasioni tale per cui i limiti connessi alla sua irruenza, alla sua frenesia e alla troppa fretta in area di rigore riuscivano a essere mascherati dietro una continuità realizzativa che in realtà non gli ha mai fatto difetto. Questi limiti, però, sono riemersi in tutta la loro evidenza nel momento in cui l’Inter è piombata in una crisi di gioco, identità e risultati e ha drasticamente diminuito la sua produzione offensiva, evidenziando la necessità di un finalizzatore da “one shot one kill” che Lautaro non è mai stato e che forse non è ancora – nonostante i dati raccontino che per realizzare gli ultimi quattro gol, in tre gare, abbia avuto bisogno di appena sei tiri nello specchio della porta. Anche nelle partite in cui segna una doppietta o una tripletta si può notare come ci siano almeno un paio di occasioni sprecate in maniera inspiegabile, tipo quella contro lo Shaktar nell’ottobre di due anni fa in una partita che compromise fin da subito il cammino europeo dei nerazzurri.

E se fino a due stagioni fa tutto poteva essere ricondotto alla scarsa lucidità causata dal grande lavoro che Antonio Conte chiedeva alle sue due punte in fase di risalita del campo, il passaggio a al sistema di Simone Inzaghi, ancor più immediato, diretto e verticale, ha imposto un cambio di paradigma e interpretazione che Lautaro ha faticato ad assimilare nonostante i numeri: il 2021/2022 è stata la sua miglior stagione dal punto di vista statistico – 25 gol complessivi in 49 presenze, 21 in 35 gare di campionato – eppure a un certo punto era diventato persino lecito chiedersi se potesse essere lui il principale terminale offensivo di una squadra che doveva capitalizzare al massimo le occasioni create per poter avere successo: «Io sono tranquillo, perché lavoro sempre per la squadra, per dare una mano ai miei compagni. Sono concentrato, anche se all’esterno tanti parlano. Io non ascolto, penso alla mia famiglia, a chi mi vuole bene e all’Inter» disse ad aprile, quando la rete allo Spezia diventò la quarta in 14 partite. Anche Simone Inzaghi è d’accordo con lui: al termine della crisi realizzativa dell’ultimo periodo ha detto che «non ero preoccupato del Toro anche quando non stava segnando, perché fa sempre quello che deve fare in allenamento e in partita, al di là dei gol».

Lautaro Martínez ha perciò dovuto imparare ad andare oltre sé stesso, a esplorare nuovamente i suoi limiti per uscire dall’ingombrante cono d’ombra di Lukaku, dimostrare di poter essere il leader tecnico ed emotivo di una squadra da titolo senza che ci sia Conte a dirgli cosa fare e come e quando farlo, dimostrarsi autonomo in un processo di crescita e sviluppo che lo portasse ad alzare il suo livello indipendentemente da quello dei suoi compagni. Non è stato facile e neppure immediato, eppure oggi El Toro riesce comunque a incidere in un’Inter ancora in cerca della brillantezza perduta, tanto da diventare l’insostituibile per eccellenza, l’uomo di cui non si può fare a meno, quello da preservare anche a costo di costringere Inzaghi a compiere scelte impopolari, come quella di sostituirlo con Bellanova a cinque minuti dalla fine della partita contro la Fiorentina. Lautaro aveva segnato una doppietta e servito l’assist del primo gol a Barella eppure, con il risultato ancora in bilico, il pensiero del tecnico sembrava già essere proiettato in avanti, alle sei partite che definiranno sul serio la stagione dell’Inter e nelle quali il suo centravanti non potrà permettersi di non essere al top della condizione fisica e mentale: «Sta giocando 90’ a partita da più di un mese e per questo ho preferito cambiarlo», ha detto Inzaghi nel post gara, giustificando una decisione che gli si stava per ritorcere contro e che pure, a un certo punto, gli era apparsa inevitabile.

Questo cambiamento è però stato imposto anche dal contesto: Lautaro ha dovuto rimodulare il suo gioco per imparare a sopravvivere e a fare la differenza in un sistema che quasi gli impone di toccare meno palloni ma di toccarli bene, soprattutto nell’ultimo terzo di campo, riducendo al minimo la componente di rischio e aumentando l’efficacia. Si tratta di un dettaglio che emerge nel fondamentale che più di tutti ha definito Lautaro in questi anni: il tiro in porta. All’inizio l’argentino traduceva tutta la sua esuberanza fisica nella necessità di calciare con tutta la forza possibile sempre e comunque, anche quando non era necessario, subordinando a una brutalità superflua il buon esito della conclusione. I gol contro Lazio e Cremonese, ma anche il primo dei due realizzati a Firenze – sinistro in controtempo senza aggiustarsi il pallone dopo il dribbling su Martínez Quarta – raccontano invece di un nuovo Lautaro, un Lautaro essenziale e per certi versi persino minimalista negli ultimi venti metri, mentalizzato a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, un finalizzatore nel senso più puro e più vero del termine. Tutto questi senza dimenticare chi è, da dove viene e cosa lo ha portato fin qui, cioè quel costante bisogno di sopraffazione fisica dell’avversario che da limite si è trasformato in risorsa di un bagaglio tecnico finalmente più completo e credibile. In questo modo anche un gol come quello contro lo Spezia – sinistro affilatissimo di controbalzo con la palla che viaggia a pelo d’erba – assume un valore simbolico rilevante in quanto espressione di una potenza tenuta sotto controllo e che esplode solo quando è necessario, solo quando è il momento, senza sprechi di energie fisiche e mentali che toglierebbero lucidità nei momenti chiave delle partite e delle stagioni:

La rete contro lo Spezia

Questo nuovo modo di stare in campo, meno vistoso ma molto più funzionale alle esigenze della squadra, ha aiutato Lautaro Martínez ad affrancarsi da un’iconografia, quella dell’attaccante generoso ed eccessivamente dinamico, che per troppo tempo ha alterato il giudizio sulle sue qualità. Oggi, da leader riconosciuto di un’Inter che si sta rialzando con e grazie a lui, possiamo finalmente inquadrarlo per ciò che forse è sempre stato: uno degli attaccanti più forti e decisivi d’Europa, un giocatore che è stato in grado di alzare il suo livello e quello della sua squadra, determinando da solo il destino invece di subirlo. Non era scontato facesse questo passaggio di stato, e ora lo ha fatto. E si vede.