Una volta i club di calcio non dovevano andare molto lontano: il loro pubblico era quello dei dintorni, di chi apparteneva al medesimo tessuto sociale. L’identificazione del calcio con il territorio era totale: anche nella loro identità visiva, i club raccontavano le proprie radici, la propria tradizione. Poi sono arrivate le televisioni, quindi Internet e i social, il consumo stesso del calcio è cambiato, diventando un fenomeno globale e trasportando quelle singole identità altrove, a distanze siderali e imprevedibili. I club hanno vissuto e continuano a vivere questa trasformazione con interesse e sospetto, allo stesso tempo: da una parte c’è l’idea di aprirsi a nuovi mondi, nuove audience, nuove possibilità. Dall’altra rimanere fedeli a se stessi, alla propria storia, è una condizione non barattabile. L’industria del calcio, in questo senso, è unica: i suoi consumatori sono tifosi, che è qualcosa di più di semplici clienti. Anche le più pronunciate logiche di business non possono ignorare questo aspetto.
Così oggi la “modernizzazione” dei club di calcio viaggia su binari di eccitazione e prudenza, contemporaneamente. Nella corsa a intrecciarsi con il mondo della moda, degli esports, delle opportunità commerciali nel senso più lato del termine, i club devono pur sempre ricordarsi di quello che sono: squadre di calcio fondate per offrire partite di calcio. Come si fa a tenere tutto questo insieme, è qualcosa che viene spiegato molto bene da come i club, oggi, aggiornano la propria identità visiva. Che si tratti di rebranding in profondità o piccoli ritocchi dei propri crest, negli ultimi anni quasi tutte le società hanno lavorato sul restyling della propria brand identity, pur cercando di mantenere un legame diretto con il passato e la tradizione. È un segnale di come i club di calcio oggi si comportano da aziende: hanno bisogno di visibilità e di riconoscibilità su più livelli, e il loro “marchio” è un veicolo necessario, se non il primo in assoluto, per porsi in maniera credibile e accattivante.
Bureau Borsche è lo studio grafico che ha rinnovato, nel corso degli ultimi due anni, l’identità di due club italiani: Inter e Venezia. Per il prestigioso studio tedesco, che ha all’attivo numerose collaborazioni con importanti realtà della moda, dell’arte e della cultura, come Nike, Balenciaga, Supreme, la Biennale di Venezia, Spazio Maiocchi, Bayerische Staatsoper, si è trattato di una prima volta assoluta nel mondo del calcio. Un debutto che spiega in maniera evidente come il calcio stia cambiando adesso, sotto i nostri occhi, dietro l’impulso di trasformazioni sempre più repentine. Perché il calcio deve cambiare? «Il logo di un club dev’essere caratteristico e riconoscibile. Ma non deve assomigliare a nient’altro», spiega a Undici Mirko Borsche, il fondatore dello studio. «Deve funzionare sul digital, lo devi riconoscere anche in piccolo, per esempio scorrendo la classifica sul tuo telefono. Per esempio, se guardi i club di Serie A, quali risaltano? Juventus, Inter, Napoli… basta. Ed è così perché hanno un senso digital. Al tempo stesso, dev’essere chiaro anche sulla maglia. Oggi i club hanno quattro, cinque maglie all’anno, e non è più facile distinguere i club se non sei pienamente informato».
La storia del legame con Bureau Borsche e il calcio comincia all’inizio del 2020. Quasi parallelamente, lo studio lavora alla realizzazione di una nuova interfaccia grafica per il sito del Venezia e al rebranding dell’Inter. «Nel caso dell’Inter», spiega Borsche, «eravamo in una situazione in cui eravamo in “competizione” con altre agenzie. Qualcuno ha pensato a noi perché avevamo già lavorato con varie realtà e protagonisti di Milano, da Slam Jam a Kaleidoscope, con Marcelo Burlon, con Virgil Abloh. Abbiamo creato abbastanza rapidamente un’idea per l’Inter e ci siamo focalizzati sul concetto di I M, Inter Milano ma anche “I am”. È un messaggio facile, inclusivo, racconta l’essere parte di un club di calcio, di un heritage. Un messaggio importante in un sistema democratico come il calcio, dove uomini, donne, giovani, vecchi, ricchi, poveri, tutti sono fan allo stesso livello. È stato questo il modo in cui li abbiamo convinti».
Nella lunghissima lista di club che hanno riaggiornato i propri crest, si può rintracciare un trend comune: la tendenza a semplificare, a ripulire di eccessivi dettagli. Probabilmente niente più del rebranding della Juventus, nel 2017, racconta la direzione in cui vuole andare la maggior parte del club: nel caso dei bianconeri, il cambiamento è stato drastico, con lo smaltimento del vecchio scudo in favore di un logo dinamico e immediato. Una rivoluzione che è stata, anche in modalità più “soft”, accolta sempre più spesso negli ultimi anni: «Per i club di calcio, è troppo importante che i loro loghi possano essere replicati», sottolinea Borsche. Ma anche se le premesse di restyling degli stemmi possono essere le stesse, gli approcci si differenziano di caso in caso. «Per l’Inter l’obiettivo era cercare di interpretare visivamente un club che non fosse solo centrato sul calcio, ma anche aperto ad altre cose. Il nuovo logo ha il cinquanta per cento di informazioni in meno rispetto al precedente, pur cercando di mantenere lo stesso look and feel. Nel caso del Venezia, invece, siamo andati indietro congiungendoci alla tradizione del club. Il crest precedente, secondo la società, non era ideale per varie cose, era simile a un’illustrazione. Noi abbiamo ricreato qualcosa che si legasse alla città, lo vedi nel leone, un elemento che c’è sempre stato, nelle prue delle gondole. Hai varie cose che si combinano insieme in una V, che è anche simbolo di vittoria».
Con il Venezia, il lavoro di Bureau Borsche non si è fermato al rebranding ma si è esteso alle maglie da gioco: «Era una grande sfida, e a me piacciono le sfide. Non avevamo una traccia da seguire, ma volevamo realizzare delle maglie eleganti, delle maglie che io stesso indosserei. Ci sono molti elementi legati alla città, il nome di Venezia sul petto, le maniche lunghe, anche questo per dare un effetto “di classe”. Per la maglia da trasferta, ci siamo ispirati a un’away jersey della Francia del passato, bianca con righe blu orizzontali».
In fondo, fa parte tutto di uno stesso percorso che il calcio ha deciso di seguire da qualche tempo: unire le forze con realtà esterne, della moda, dello stile, del design, per portare il proprio “marchio” – rieccoci di nuovo – in direzioni sempre più varie. È un processo che ha inondato il lifestyle ma che è entrato direttamente in campo: lo si vede nelle maglie da gioco, appunto, considerato che Bureau Borsche non è stato negli ultimi anni il solo player “estraneo” a giocare un ruolo primario nel mondo delle jersey, ma la lista comprende Palace/Juventus, Daily Paper/Ajax, Nemen/Milan, Marcelo Burlon/Napoli, Yohji Yamamoto/Real Madrid, e così via. «Penso che questo sia un nuovo mercato per i club, un mercato importante per gli appassionati e per la stessa cultura calcistica», per Mirko Borsche. «E anche una nuova via per le società di costruire nuove entrate commerciali. So quanto i tifosi siano tradizionalisti e conservatori, per questo è molto coraggioso da parte di molti club italiani aver fatto questo passo importante. Ma penso che il calcio debba andare in questa direzione, per modernizzarsi. Alcuni club hanno la percezione di poter essere un marchio: non saranno mai dei fashion brand, ma possiamo definirli dei lifestyle brand».
Ridisegnare se stessi, negli ultimi anni, è diventata una tappa obbligata per un lunghissimo elenco di squadre: da restyling profondi (la già citata Juventus, Modena, Nantes) a piccoli ritocchi (come nel caso di Genoa o Betis, per stare ai più recenti), l’imperativo è sempre lo stesso – aggiornarsi. È l’epoca del cambiamento, ma non aspettiamoci che possa durare a lungo: siamo proprio nel momento in cui la trasformazione dei club – più propensi ad andare verso una forma di “intrattenimento”, per così dire, tenendo insieme quello che succede sul campo con tutto il resto – è più pronunciata, più rimarcata. Per questo i cambiamenti non per forza saranno sempre così frequenti come ci appaiono adesso: «Oggi l’obiettivo è integrare queste identità tanto sulle maglie quanto nella comunicazione», dice Borsche. «Non penso ci saranno grossi cambiamenti nei prossimi anni, anche perché operazioni del genere sono costose, arrivano a costare centinaia di migliaia di euro, soprattutto quando bisogna sostituire tutti i touchpoint fisici. Crest come quelli di Juventus, Inter o Venezia rimarranno a lungo».
Questa idea di svecchiamento racconta, al tempo stesso, come i club italiani siano molto più sensibili a questo processo: in nessun altro Paese c’è questa spiccata volontà, così diffusa, anche nelle categorie minori, ad abbracciare un nuovo approccio estetico. In fondo, anche da questo passa una migliore idea di calcio, in un momento in cui la fruizione si sta segmentando in varie forme – c’è la partita allo stadio, ma poi ci sono gli highlights su Youtube, ci sono i contenuti pubblicati sui social, le live su Twitch e tanto altro ancora. Arrivare pronti, con un’immagine nuova e vincente, è la nuova sfida che ogni club deve affrontare al meglio.