Gli equilibri geopolitici in gioco in Qatar

Oggi per esempio c'è Iran-Stati Uniti, ma non è stata e non sarà l'unica partita carica di tensione.

Oggi, 29 novembre 202, la linea di centrocampo dello stadio Al Thumama di Doha sarà un fascio di nervi geopolitico. È uno degli impianti, 40mila posti, progettato per somigliare dall’alto a una shashia, uno dei copricapi tipici del mondo islamico: da un lato del campo ci sarà la Nazionale degli Stati Uniti, dall’altro quella dell’Iran. Sarà la partita epicentro del gruppo B, uno dei più densi di tensioni, storia e storie nella lunga saga della Coppa del mondo di calcio, mai come quest’anno carica delle suggestioni dal mondo. Non sarà una sospensione delle ostilità verbali, politiche, diplomatiche e militari, ma una sua trasposizione in un’altra forma, quella del gioco. È la realizzazione di quello che scrive Cormac McCarthy in Meridiano di sangue: «Tutti i giochi aspirano alla condizione di guerra». E così nel gruppo B si contenderanno la qualificazione agli ottavi il “Grande Satana” (come l’Iran descrive gli Usa dal 1979), un terzo dell’asse del male (come George W. Bush descrisse il trio Iran, Iraq e Corea del Nord nel 2002), l’Inghilterra, che è il più grande alleato americano al mondo e che con l’Iran ha una storia di problemi lunga almeno un secolo, e il Galles, sudditi in perenne disagio della corona britannica.

Insomma, sei partite e nessuna banale, sempre per dirla con McCarthy, «in cui la posta inghiotte gioco, giocatore, tutto quanto». Se gli spareggi fossero andati diversamente, nel gruppo B ci sarebbe potuta addirittura stare anche l’Ucraina, ma i lettori di Limes non possono avere tutto dalla vita. E ricordiamo che il Qatar nel 2017 scontò la sua vicinanza all’Iran con un brusco isolamento diplomatico e logistico da parte di tutti i Paesi vicini, tra cui l’Arabia Saudita, il suo grande avversario regionale. Nemmeno per i padroni di casa Usa-Iran sarà una partita come tutte le altre.

Insomma, in Qatar, alle linee del gioco e alle sue narrazioni, si sovrapporranno quella della complicata forma che ha il mondo nel 2022, mai così fratturato e in conflitto da quando Francis Fukuyama ci aveva raccontato che la storia era finita. La frizione tra i due livelli – costruzione dal basso e diplomazia – sarà una forma di perverso piacere a sé stante per gli spettatori, e anche un modo per esorcizzare lo sconforto di assistere alla Coppa del Mondo più problematica della storia, un mese di partite nel quale ogni diritto consolidato e valore promosso dalla Fifa verrà sistematicamente messo da parte per il bene superiore di spettacolo e sponsor. Per il Qatar lo “sportswashing”, cioè la pratica di usare lo sport per nascondere i problemi, non è solo usare il calcio per far sospendere il giudizio sui diritti umani o sullo sfruttamento dei combustibili fossili, ma anche per rimuovere più velocemente la sua travagliata vicenda regionale dalla memoria del mondo. Tra il 5 e il 6 aprile del 2017, a Mondiale già assegnato, Arabia Saudita, Emirati, Bahrein, Egitto e Yemen cancellarono ogni relazione diplomatica con il Qatar, chiusero lo spazio aereo e marittimo ai mezzi qatarini, ne espulsero i cittadini, l’Arabia Saudita chiuse il confine di terra. La penisola dove si stanno giocando i Mondiali era diventata un’isola di guai.

Le ragioni erano il presunto sostegno del Qatar ai Fratelli Musulmani (vero) e all’Isis (probabilmente non vero) e la vicinanza all’Iran (verissimo, e senza il soccorso di Iran e Turchia il Qatar non ce l’avrebbe fatta a superare quel periodo con il suo costoso stile di vita intatto). La distensione non ci sarebbe mai stata se non fosse intervenuto l’interesse superiore del pallone. Prima di cedere al dialogo, i Paesi ostili al Qatar avevano anche provato a convincere la Fifa a cambiare sede. Un’anticipazione di quello che sarebbe potuto essere il Mondiale con l’embargo dei vicini ancora in corso era stata la Coppa d’Asia del 2019 negli Emirati, vinti proprio dal Qatar. In semifinale aveva sconfitto i padroni di casa, in una delle partite più tese nella storia recente del calcio internazionale. Pestaggi, bandiere bruciate, arresti. Per il Qatar il Mondiale 2022 è quindi anche un tassello decisivo nella propria promozione come Paese affidabile, degno di fiducia, non marginalizzabile. La gara inaugurale contro l’Ecuador è stata il punto d’arrivo di un lungo cammino, uno scontro di nervi e risorse che la dinastia al-Thani può considerare ormai vinto.

Tra i protagonisti dell’embargo 2017 al Mondiale ci sono solo il grande avversario, l’Arabia Saudita di Mohammad bin Salman (dinastia salda al comando di una delle autocrazie più dure e retrive al mondo), e il grande alleato, l’Iran, il cui regime invece da mesi vacilla per le proteste di piazza dopo la morte di Mahsa Amini. I sauditi stanno vivendo il Mondiale nel romantico girone dell’ultimo ballo di Messi, con Argentina, Messico e Polonia, dove l’unica tensione percepibile sarà tra populismi di destra e di sinistra. Altra storia, appunto, il girone dell’Iran, che prima ha affrontato un nemico di medio livello (l’Inghilterra), poi se l’è giocata contro un blando nemico del nemico (il Galles) e infine sta per chiudere col nemico assoluto, gli Stati Uniti, con tutta la storia di ostaggi, assedi, bombe, accordi firmati, accordi stracciati ed embarghi che si riverbererà sui novanta minuti. Iran-Stati Uniti è l’ultima partita del girone, è decisiva per entrambe: tutti gli elementi ideali per chi ama il drama geocalcistico, il livello massimo della frizione tra la forma del mondo e quella del gioco. Nel 1998, a Lione, vinse l’Iran: già allora fu definito «il match politicamente più carico della storia», e si giocava prima dell’11 settembre, della dottrina degli Stati canaglia, dell’asse del male, di Ahmadinejad e di Trump. E il contesto era la neutrale Francia, non il complicato Qatar.

La squadra ospite, l’Arabia Saudita, il groviglio del girone B saranno le storie chiave del mondiale più geopolitico di sempre. Poi ci sono vicende minori, come il gruppo E, con le sue vibrazioni anni ’30, Giappone, Germania e Spagna, praticamente un girone Alessandro Barbero, per appassionati di storia del ‘900. Interessante il girone D, con la Francia impegnata con la Tunisia nell’ennesimo capitolo della sua storia post-coloniale e nel derby degli armamenti con l’Australia, che un anno fa aveva cancellato l’acquisto multimiliardario di sottomarini transalpini, preferendo quelli americani in una chiave anti-cinese nelle politiche del Pacifico. Faccenda minore rispetto alle grandi tensioni del mondo, ma fu un grande imbarazzo tra alleati, Macron accusò l’allora primo ministro Morrison di essere un bugiardo, con tanto di ritiro dell’ambasciatore. La pace è stata siglata a giugno, oliata da una penale da mezzo miliardo, accordo che ha consentito a Socceroos e galletti di giocarsela con serenità.

E poi ovviamente al Mondiale, e in particolare a questo Mondiale, la geopolitica degli assenti sta contando quanto quella dei presenti. L’Ucraina è fuori per motivi di campo, anche se inevitabilmente influenzati dal trauma bellico, la Russia non ci sarà perché è stata esclusa d’ufficio dalle qualificazioni. Nel 2018 era il Paese ospitante, aveva da poco organizzato un’Olimpiade, era già il coacervo di ambizioni imperiali e tensioni che avrebbero portato all’aggressione del 2022. Era però nell’interesse di tutti che la manifestazione si svolgesse regolarmente. Oggi la stessa Fifa che aveva affidato alla Russia l’organizzazione di un Mondiale, quattro anni dopo l’ha esclusa dal successivo, come se fosse un Paese diverso in un tempo diverso da quello in cui avevano fatto affari. Nei convulsi giorni successivi all’invasione la Fifa sembrava optare per una strada più blanda: divieto di bandiera, uso del nome e dell’inno e di ospitare partite internazionali in patria. A inclinare il piano fu il rifiuto di Svezia, Repubblica Ceca e Polonia, che avrebbe dovuto affrontarla poco dopo nel playoff. Otto mesi dopo, la Russia è un paria dello sport internazionale in quasi ogni contesto, ma dal momento che il mondo è un posto complicato, in quel “quasi” va inserito anche il Qatar.

A ottobre, durante un vertice ad Astana, in Kazakistan, l’emiro del Qatar Hamad al-Thani ha incontrato Putin e lo ha ringraziato per il sostegno ricevuto nell’organizzare il Mondiale. «Dopo il grande successo che i russi hanno avuto nella Coppa del mondo nel 2018, ci sono stati di grande aiuto», ha detto, aggiungendo un nuovo motivo di imbarazzo alla dicitura Qatar 2022. «Noi vi ringraziamo e siamo orgogliosi della nostra relazione, che continuerà fino alla fine della Coppa del mondo». Prima del torneo gli organizzatori hanno ripetutamente confermato che non sarebbero state tollerate prese di posizione politiche da parte dei calciatori rispetto ai temi sensibili del torneo (o a qualsiasi tema). E lo stanno confermano. «Trasformare i Mondiali in una piattaforma per affermazioni politiche non è la cosa giusta per lo sport», ha dichiarato Nasser al-Khater, capo del comitato organizzatore. Evidentemente è una regola alla quale si possono però sottrarre i Paesi partecipanti e non, che saranno come sempre felici di usare il campo e le sue linee per prese di posizione geopolitiche. Non è mai solo calcio.

Da Undici n° 47
Foto di Dario de Mayda