La Danimarca è la prima grande delusione di Qatar 2022

Dopo la semifinale agli Europei, era lecito aspettarsi qualcosa di meglio.

La decrittazione di quello che è successo in Qatar, per la Danimarca, è stata piuttosto semplice: la squadra di Hjulmand si è concentrata troppo su aspetti che non riguardano il campo, sulle proteste per le discriminazioni perpetrate nell’emirato, sulla maglia senza simboli disegnata da Hummel per le gare del torneo iridato, su quella che era a tutti gli effetti una battaglia di militanza politica. Questa lettura è trasversale, nel senso che è condivisa: la pensano in questo modo i giornalisti del Berlingske, il giornale più antico del Paese, che hanno pubblicato un editoriale dal titolo “Ora lasciate che la Nazionale di calcio giochi a calcio e che i politici facciano politica”; la pensano così anche al Guardian, su cui Paul MacInnes ha scritto che «la Danimarca è stata influenzata dal fatto che la Fifa abbia impedito ai giocatori di veicolare messaggi politici». Persino il commissario tecnico Hjulmand, dopo il primo pareggio contro la Tunisia, ha detto che il suo gruppo «è rimasto sconcertato dai divieti imposti dalla Fifa».

La realtà, però, è decisamente più complessa. E quindi anche più negativa, per la Nazionale danese. La verità è che la squadra ipercinetica e moderna vista agli Europei di un anno fa, e anche nel meraviglioso percorso di qualificazione ai Mondiali, non si è mai manifestata in Qatar. È come se fosse scomparsa, ed è un discorso di valori tecnico-tattici che non possono essere stati azzerati dalla condizione emotiva dei calciatori, almeno non completamente. E quindi c’è stato anche qualcosa che non ha funzionato, come dimostra il numero dei gol segnati: uno solo in tre partite, come il Qatar, come il Galles. Per altro la rete di Christensen contro la Francia è arrivata solo su calcio d’angolo, quindi i giocatori di Hjulmand hanno realizzato zero gol su azioni in tre partite. Due delle quali contro Australia e Tunisia, ovvero due Nazionali universalmente ritenute inferiori a quella danese.

L’involuzione rispetto agli Europei di un anno e mezzo fa è stata evidente: è vero che la Danimarca aveva perso contro la Finlandia – al termine di una partita che doveva essere interrotta, visto quanto era successo a Eriksen – e il Belgio prima di eliminare, una dopo l’altra, Russia, Galles e Repubblica Ceca, ma è vero anche che l’intensità del pressing ultraoffensivo e la capacità di attaccare in campo aperto, così come di creare azioni sofisticate palla al piede, avevano destato sensazione lungo tutto l’Europeo. Anche nelle gare perse, soprattutto quella contro il Belgio – risolta da due gol bellissimi ma improvvisi firmati dai Diavoli Rossi. E in fondo anche la semifinale con l’Inghilterra era stata equilibrata e si era risolta anche in maniera controversa. Insomma, il cammino degli uomini di Hjulmand era stato certamente agevolato dal tabellone, ma era stato pure scintillante, grazie ad alcuni giocatori in grado di rendere ben al di sopra delle loro qualità teoriche: si trattava di Maehle, della diga centrale Højbjerg-Delaney, di Damsgaard, di Dolberg, ovviamente anche di Simon Kjaer e Christensen, i riferimenti tecnici ed emotivi della difesa a tre.

C’erano grandi aspettative nei confronti della Danimarca per via della continuità impressa al progetto, per il fatto che Eriksen avesse recuperato e fosse tornato a gestire il traffico e il gioco, perché in ogni caso una squadra che arriva in semifinale agli Europei ha un bel po’ di credito da spendere. E invece, come detto, in Qatar è andato tutto male. Quei meccanismi che avevano reso forte la squadra di Hjulmand sono risultati inefficaci, al punto che il ct ha deciso di rinnegare la difesa a tre – e quindi gli esterni a tutta fascia, una caratteristica distintiva del suo modello di gioco – per la gara decisiva contro l’Australia. L’obiettivo, ovviamente, era rianimare un attacco apparso privo di incisività, al netto dei vari tentativi fatti per invertire il trend attraverso le sostituzioni: come scritto anche da Andrew Das sul New York Times, «la Danimarca ha utilizzato un’opzione offensiva dopo l’altra, i vari Braithwaite, Dolberg, Lindstrom, Damsgaard, Skov Olsen, per inseguire il gol e la qualificazione agli ottavi, ma nessuna di queste ha funzionato». Ovviamente il fallimento in attacco va condiviso anche con tutti i componenti degli altri reparti, e non solo per l’incapacità di costruire occasioni da gol importanti: in occasione del gol decisivo di Leckie, quello che ha sancito la qualificazione dell’Australia nel confronto diretto, Maehle si è ritrovato solo contro il suo avversario, e poi si è fatto aggirare in maniera fin troppo semplice, se consideriamo la differenza di qualità teorica tra i due.

Il gol decisivo dell’Australia

È proprio questo il punto: sembrava che il sorteggio avesse riservato un trattamento benevolo alla Danimarca, opponendole due avversarie di qualità inferiore – oltre alla Francia, che però aveva perso due volte su due contro i danesi nell’ultimo girone di Nations League. E invece la squadra di Hjulmand è regredita in modo netto e inaspettato, nelle individualità – Damsgaard, su tutti, è sembrato un giocatore davvero lontanissimo da quello visto un anno e mezzo fa, anche per via degli infortuni che ha patito – ma anche nell’espressione di gioco collettiva. Vale a dire, in ciò che l’aveva resa unica e l’aveva proiettata alle semifinali degli Europei, a rappresentare un benchmark per tutte le Nazionali medio-borghesi che non possono contare su un vasto serbatoio di talento, e allora devono mettere i propri calciatori in condizioni di praticare un calcio brillante, ricercato, moderno, come quello di un club. È questo che è mancato alla Danimarca vista in Qatar, ancora prima che la capacità di rispondere alle avversità emotive legate alla Fifa, alla politica, a tutto ciò che non riguarda il campo da gioco.