Il dato più significativo sulle imprese della Croazia ai Mondiali è quello relativo alla sua popolazione: un Paese con meno di quattro milioni di abitanti, nato dalle ceneri di uno dei più sanguinosi conflitti del secondo dopoguerra, ha portato la propria Nazionale di calcio tra le migliori quattro del mondo per tre volte in 24 anni. Per trovare un precedente anche solo lontanamente comparabile bisogna risalire agli albori dei Mondiali, quindi del calcio stesso, e più precisamente all’Uruguay campione per due volte nel 1930 e nel 1950, nelle uniche due edizioni del torneo cui partecipò in quel ventennio: un unicum irripetuto e irripetibile per una nazione che oggi conta appena tre milioni e mezzo di abitanti, e che ha conosciuto un incremento significativo della popolazione solo a partire dagli anni Sessanta. Il parallelismo non è casuale neanche da un punto di vista strettamente narrativo e di percezione del movimento calcistico: esattamente come gli uruguagi, i giocatori croati devono convivere con il peso di una narrazione artefatta e stereotipata – quella riguardante gli slavi indolenti e di talento, che non fanno seguire i fatti alle promesse e premesse di grandezza – che non permette di individuare le vere chiavi di lettura di un percorso sorprendente solo fino a un certo punto. Non a caso, dopo la partita contro il Brasile, il ct Zlatko Dalic aveva sottolineato proprio questo aspetto, e cioè che la Croazia non fosse arrivata in semifinale per caso e che la sorpresa era lo stato d’animo tipico di chi aveva raccontato la sua squadra attraverso la retorica ridondante e superficiale dell’underdog: «Questa è la Croazia. Abbiamo eliminato la grande favorita di questo torneo. Abbiamo giocato al meglio quando contava di più e ancora una volta abbiamo confermato che nessuno dovrebbe mai sottovalutarci. Come sempre, abbiamo mostrato orgoglio, fede e coraggio».
Si potrebbe arrivare a dire che tutte le incredibili statistiche sulla capacità di andare oltre sé stessi e i propri limiti siano una risposta a quei luoghi comuni continuamente riproposti nonostante siano già stati smentiti dal campo e dai fatti: dal 1998 i croati hanno giocato dieci partite dei Mondiali a eliminazione diretta, cinque delle quali andate ai supplementari e quattro ai rigori, queste ultime tutte vinte con esecuzioni al limite della perfezione, e in certi casi persino oltre questo limite. Tuttavia anche l’iconografia di squadra resiliente rischia di essere sottostimante, visto che parliamo di un collettivo che ha già dimostrato di trovarsi a proprio agio sia nel ruolo di “giant killer” che in quello, molto meno comodo, di favorita di giornata – come accaduto agli ottavi contro il Giappone, quando è toccato a Dominik Livakovic esorcizzare i fantasmi di un’eliminazione precoce contro una Nazionale di livello inferiore, quantomeno sulla carta.
Dal punto di vista tecnico-tattico la Croazia 2022 è certamente una squadra reattiva, meno talentuosa rispetto a tante versioni ammirate nel passato anche recente, ma che è comunque in grado di giocarsela alla pari con chiunque grazie a un’identità di gioco netta, definita, riconoscibile e che non si sostanzia unicamente nella superiorità tattica, tecnica e psicologica che Modric è in grado di esercitare nei 90′ o 120′ di una partita senza domani. Proprio il capitano, diventato a 37 anni un’autentica icona di resistenza umana sulle orme dello splendido Zidane del 2006, è il giocatore più consapevole e decisivo, la guida anche spirituale di un gruppo che si è forgiato nell’unità di intenti e nella fiducia reciproca: «Noi abbiamo delle possibilità se ci esprimiamo come sappiamo. Abbiamo dimostrato tante volte che non sempre vincono i favoriti, quindi non dobbiamo farli giocare», aveva detto Modric alla vigilia dei quarti contro i verdeoro, anticipando a parole l’andamento di un match condizionato, anzi indirizzato, da una leadership tecnica ed emotiva senza eguali.
La miglior prestazione individuale di questo Mondiale?
In effetti è questo il dettaglio alla base di quell’idea di eternità che prescinde dal mero dato anagrafico dei giocatori simbolo e che siamo naturalmente portati ad associare a questa Croazia. Qualcosa che, stando alle parole di Dalic, permette a una squadra con ben 18 elementi nuovi rispetto al Mondiale in Russia di avere il diritto «di credere e sperare in altri grandi risultati» legittimando una volta di più quello status di prima grandezza che ormai gli appartiene di diritto, visto i risultati ottenuti. È come se la Croazia stesse cambiando senza cambiare mai fino in fondo, in una sorte di perenne congiunzione tra passato e futuro che si cristallizza nel presente attraverso la felice coesistenza tra vecchia guardia e nuove leve, tra Luka Modric e Josko Gvardiol: «Sembrano frasi fatte, ma noi siamo davvero un gruppo meraviglioso. Basta vedere un allenamento per capire: andiamo più forte che in partita, tutti, per consentire ai titolari di essere al top. E se poi qualcuno entra dalla panchina è prontissimo: contro il Brasile si è visto. I giocatori più esperti come Modric, Brozovic, Kovacic e Lovren trascinano i giovani, il mix è davvero perfetto», ha dichiarato Martin Erlic in un’intervista alla Gazzetta dello Sport.
A proposito di Gvardiol. Il difensore del Lipsia è il giocatore che più di tutti sembra destinato a raccogliere l’eredità dei grandi della “golden generation” all’ultimo grande giro di giostra, diventando il nuovo punto di riferimento di una squadra che si sta ricostruendo sui canoni della solidità, della compattezza, di attenzione ai dettagli che si annidano nelle pieghe delle partite – l’esatto contrario della narrazione stereotipata di cui sopra. E questo perché parliamo di un elemento che rappresenta già di suo il ponte tra antico e moderno, visto il suo modo di giocare: Gvardiol è un difensore vecchio e nuovo allo stesso tempo, perfettamente a suo agio sia in marcatura che in fase di impostazione e prima costruzione, in grado di giocare senza problemi in una linea a tre o a quattro, talvolta agendo anche da terzino sinistro, non per forza bloccato per bilanciare le avanzate del suo omologo sul lato opposto. L’aggressività nell’anticipo e la fisicità con cui interpreta il ruolo sono le caratteristiche più vistose di un atleta multidimensionale e al passo con i tempi; il suo playmaking – sia sul lungo che sul corto – e la sua capacità di uscire palla al piede sotto pressione, sono il vero motivo del successo della Croazia quando si tratta di supportare le lunghe fasi di difesa posizionale, garantendo alla squadra di Dalic un’uscita da dietro quasi sempre pulita, elemento essenziale per esaltare la tensione verticale di Perisic, Pasalic, Kramaric.
Gvardiol è, quindi, il primo supporto in fase di possesso della santissima trinità composta da Modric, Brozovic e Kovacic, ma anche la dimostrazione di come il successo dei singoli dipenda dall’aderenza della proprie caratteristiche di base a quelle del collettivo. La Croazia è una squadra che si esprime al meglio quando può mantenere alta l’intensità in entrambe le fasi, soprattutto quando ha la palla tra i piedi: la mancanza di un numero sufficiente di individualità in grado di deformare la dimensione spazio-temporale della partita attraverso il possesso impone perciò un’immediata ricerca della verticalità dopo il recupero palla, indipendentemente dalla zona di campo in cui questo avviene. Il 4-3-3 o 4-3-1-2 – se Pasalic agisce da trequartista ibrido negli ultimi 30 metri – di Dalic assomiglia a una grande fisarmonica che si stringe e si allarga in pochi secondi, che prima cerca di ridurre al minimo gli spazi attaccabili dagli avversari e poi “esplode” nell’attacco sistematico della profondità. Il gol di Petkovic contro il Brasile, arrivato a quattro minuti dalla fine del secondo tempo supplementare, nasce proprio dalla capacità di Modric di innescare l’azione che porta all’uno contro uno di Orsic in campo aperto dopo aver forzato l’errore dei brasiliani nella metà campo offensiva: non si tratta solo di un atletismo e di una fisicità fuori scala, ma del perseguimento sistematico di quei principi che permettono di riequilibrare le forze in campo nonostante il presunto dislivello iniziale.
Ciò che però rende la Croazia una squadra difficile da affrontare in assoluto è quella sorta di senso di ineluttabilità legato alla capacità di resistere e all’idea che possa sempre piazzare il colpo e la giocata decisiva, indipendentemente dal momento, dalle difficoltà, dalla differenza di valori tecnici e tattici con un avversario più quotato. Anche nella vittoria contro il Brasile sembrava che la Croazia avesse vinto un incontro come quello che Muhammad Ali disputò a Kinshasa nel 1974 contro il favoritissimo George Foreman, vinto quando ormai sembrava sul punto di crollare. E invece a cadere era stato il rivale fiaccato nel fisico e nell’anima da una resistenza ben più logorante e diabolica del gancio finale. Sapere cosa fare e quando farlo, semplicemente: «Dobbiamo fermare Messi, ma non con una marcatura a uomo. Sappiamo quanto corre, quanto gli piace giocare con la palla tra i piedi e la chiave della nostra fase difensiva sarà la disciplina. Se ripetiamo la stessa partita fatta contro il Brasile, cioè stando compatti non abbiamo nulla da temere», ha detto Dalic nella conferenza stampa prima della semifinale. L’Argentina e il suo numero 10 sono avvisati. In fondo l’eternità e la seconda semifinale mondiale consecutiva si guadagnano anche così, in attesa che si manifesti qualcosa ancora più grande, ancora più incredibile.