Il Mondiale dei giovani centrocampisti

Da Musiala a Tchouaméni, in Qatar abbiamo visto una nuova generazione e un nuovo modo di interpretare il ruolo.

Nel corso della partita Spagna-Germania dei Mondiali 2022, è stata scattata una foto che tra vent’anni, forse, riguarderemo nel modo in cui oggi ammiriamo l’iconica immagine di Maldini e Cannavaro che, nell’anno 1997, scivolano insieme nel tentativo di frenare Ronaldo Nazário durante un match tra Italia e Brasile: è quella in cui il 19enne Jamal Musiala sfila – appena dopo aver fatto una croqueta – in mezzo agli agli spagnoli Pedri e Gavi, 20 e 18 anni, che sono costretti a stenderlo pur di fermarlo. Si tratta di una foto potenzialmente storica perché ritrae tre centrocampisti giovanissimi che hanno un ruolo centrale nelle rispettive Nazionali e quindi per i movimenti calcistici del loro Paese: Gavi e Pedri sono fondamentali per il gioco di possesso della Spagna, e hanno iniziato da titolari tutte le partite della fase finale; Musiala, fino a quando la Germania è rimasta in corsa, era la stella polare a cui tutti i compagni guardavano per combinare qualcosa.

Musiala, Pedri e Gavi non sono gli unici centrocampisti giovani che hanno segnato o stanno segnando questo Mondiale: Jude Bellingham, classe 2003 come Musiala, ha dimostrato di essere uno dei leader di una Nazionale pur ricca di talento come l’Inghilterra; nella Francia privata di Pogba e Kanté, Aurélien Tchouaméni ci ha messo poco a diventare il riferimento in mezzo al campo; l’Argentina si è arrampicata fino alla finale anche grazie all’intuizione – forse anche un po’ tardiva – del ct Scaloni, che dopo la prima partita ha capito di non poter rinunciare al talento e al dinamismo di Enzo Fernández.

A pensarci  bene, tutti gli ultimi Mondiali sono stati vinti dalla Nazionale con il miglior centrocampo in quel momento. In rapida successione: l’Italia di Pirlo e Gattuso, la Spagna  di Busquets, Iniesta e Xavi, la Germania di Khedira, Kroos e Schweinsteiger, la Francia di Pogba e Kanté. E nella Croazia finalista nel 2018 c’erano Modric, Brozovic, Rakitic, Kovacic. Tutti questi giocatori erano all’apice delle rispettive carriere, mentre in questa Coppa del Mondo i migliori talenti in mezzo al campo sono appena all’inizio del loro percorso, sono tutti al loro primo torneo iridato. Prendiamo Musiala: nell’infausta avventura qatarina della Germania, il classe 2003 del Bayern Monaco è stato quello che nel basket chiameremmo go-to-guy, il giocatore da cui andare nei momenti caldi. Perché ha un’enorme personalità, perché sa attrarre e giocare il pallone in tutte le zone del campo, perché ha un talento cristallino. Contro Giappone, Spagna e Costa Rica, Musiala ha mostrato tutta la sua classe nello stretto con delicati controlli orientati, ha manifestato la sua bravura nel ricevere tra le linee, e allo stesso tempo non ha avuto nessun problema a caricarsi sulle spalle il peso creativo e offensivo della Germania. Anche se parte largo a sinistra o al centro della trequarti, a Musiala basta una frazione di secondo per mettersi nelle condizioni di puntare la porta e azionare il suo dribbling in velocità: nonostante le sue lunghe leve, il fantasista del Bayern muove in modo rapidissimo le gambe e tocca molte volte il pallone, per poi spostarlo all’ultimo istante ed eludere gli avversari. Musiala è elegante ma pure un po’ dinoccolato nei movimenti, e quindi nel momento in cui supera i difensori sembra quasi un incrocio tra Zidane e Rafa Leão, però allo stesso tempo gioca con l’intensità di chi sta crescendo nel calcio frenetico di Julian Nagelsmann e Hansi Flick.

Jude Bellingham ha diverse cose in comune con Musiala: l’anno di nascita, e l’avevamo già detto; il percorso nelle Nazionali giovanili inglesi, prima che Musiala decidesse – anche per via di Brexit – di accettare la convocazione della Germania; la rara abilità di saper creare superiorità numerica nella trequarti avversaria. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, c’è da dire che Bellingham ci riesce in modo diverso, grazie a una forza straripante e a un’intelligenza incredibile per la sua età, più che attraverso una tecnica zidanesca – una dote che pure possiede. Su The Athletic, Yaya Touré ha usato parole piuttosto impegnative per parlare di Bellingham: «È il protagonista di tutte le partite dell’Inghilterra. Sa segnare, sa passare la palla e il tempismo delle sue corse box-to-box è perfetto». Difficile dare torto a Touré: Jude Bellingham può davvero fare tutto. Ciò che lo rende unico, però, non è la quantità delle cose che fa su un campo da calcio, piuttosto la qualità con cui le fa: ha solo 19 anni, eppure vederlo giocare è come assistere alle partite di un giocatore creato con l’editor di PES o di FIFA, di quelli a cui hai dato 90/100 nella maggior parte dei parametri. E da tempo offre certe sensazioni: quando aveva 14 anni e giocava nell’academy del Birmingham, il giovane Jude voleva indossare la maglia numero 10, ma il suo allenatore Mike Dodds gli ha risposto che lui poteva essere un regista, quindi un numero 4, un centrocampista box-to-box, quindi un 8, e un trequartista, un 10, tutto insieme. Da quel giorno, Bellingham ha scelto il numero 22. E se vogliamo parlare di Jude come di un giocatore davvero completo, la prestazione accecante contro il Senegal ha fornito delle conferme piuttosto importanti:

C’è tanto Bellingham nei due gol che hanno indirizzato Inghilterra-Senegal. Guardate come Henderson, di 13 anni più grande, lo indica dopo il gol: non lo sta solo ringraziando per l’assist, gli sta dicendo che è lui il centro di questa Inghilterra.

Alla fine di Inghilterra-Senegal, non a caso, Phil Foden ha detto che Bellingham «diventerà il miglior centrocampista del mondo», mentre il suo allenatore al Borussia Dortmund Terzic una volta lo ha chiamato «il 19enne più vecchio mai visto», per sottolineare la sua maturità calcistica e il suo carisma – non a caso ha già indossato la fascia di capitano del Borussia Dortmund, anche se non ha ancora compiuto vent’anni. Per qualcuno, tipo i giornalisti di The Athletic (sì, in Inghilterra c’è un discreto hype intorno a Bellingham), l’impatto di Bellingham è paragonabile a quello di Rooney agli Europei del 2004 o di Owen ai Mondiali del 1998. Come se non bastasse tutto questo, al decimo minuto della sfida contro la Francia, dopo aver rincorso Griezmann fino alla linea di fondo e avergli sporcato il pallone in corner con una scivolata dal tempismo perfetto, Bellingham ha agitato in alto le braccia guardando la tribuna, in pratica ha cercato di trascinare in partita i suoi tifosi. Più di un 19enne impulsivo, in quel momento è sembrato un leader carismatico che carica il suo popolo.

Quando l’Inghilterra era in possesso palla e Bellingham si muoveva nelle zone centrali, a seguirlo c’era quasi sempre Aurélien Tchouaméni, classe 2000, in un duello tra due centrocampisti destinati a incendiare il calcio mondiale per i prossimi dieci o quindici anni. La scorsa estate il Real Madrid ha acquistato Tchouaméni progettando di inserirlo con calma nelle rotazioni, alle spalle di Casemiro, un po’ come era già avvenuto al suo connazionale Camavinga – altra aspirante stella globale che gioca a centrocampo. Negli ultimi giorni di mercato, però, Casemiro è stato ceduto al Manchester United e Tchouaméni è diventato immediatamente l’equilibratore della mediana di Ancelotti: una situazione simile a quella vissuta con la Francia, dove gli infortuni di Kanté e Pogba lo hanno messo al centro della scena. 

In Qatar, più o meno come avviene nel Real Madrid, Tchouaméni è l’elemento che mette ordine nel gioco della sua squadra. È il calciatore che garantisce equilibrio prima e dopo le sgroppate di Mbappé, le percussioni a rientrare di Dembélé, i movimenti intelligenti di Griezmann – il giocatore più influente nella fase offensiva della Francia – e gli inserimenti di Rabiot. Per riuscirci, l’ex Monaco fa da schermo davanti alla difesa con la sua fisicità, detta i tempi della distribuzione e del pressing, costruisce il gioco con lucidità e intelligenza, il tutto mostrando la personalità di chi è nato per fare proprio quello che fa e ne è consapevole. La stessa personalità con cui si è aggiustato il pallone e ha scaricato in porta il gol dell’1-0 contro l’Inghilterra. Il tiro, scoccato da fermo, è schizzato verso la porta a 108 chilometri orari.

In effetti è un tiro davvero potente

Mentre Tchouaméni ha dovuto – e ha saputo – adeguarsi a nuovi contesti, per poi personalizzarli con le sue qualità, Pedri e Gavi sono stati scelti – da Luis Enrique – perché si prestavano perfettamente al gioco della Spagna. Più di tutti gli altri ct del Mondiale, l’ex allenatore della Roma e del Barcellona ha provato ad allenare la sua Nazionale come se fosse un club, cercando di darle un gioco codificato, identitario (con risultati alterni). Pedri e Gavi sono cruciali per mantenere alta la qualità del palleggio spagnolo e soprattutto per dare delle variazioni al possesso orizzontale; il primo con la sua qualità palla al piede e le sue doti in distribuzione, il secondo con la sua energia e i suoi inserimenti, alzandosi fino alla linea degli attaccanti. La traversa colpita da Dani Olmo contro la Germania nasce proprio dalle intuizioni dei due giovani del Barça, e dalla loro naturalezza nell’associarsi in campo:

Controllo orientato e filtrante di Pedri per Gavi, che riceve tra le linee e rifinisce l’azione

Pedri ha chiuso la Coppa del Mondo ai primissimi posti – tra tutti i centrocampisti – per numero di palloni giocati, appoggi completati e distanza progressiva compiuta con i passaggi. In Qatar, per schierare i due centrocampisti del Barcellona (tre, con Busquets in regia), Luis Enrique non ha esitato a spostare Rodri al centro della difesa, e ha anche lasciato a casa un top mondiale come Thiago Alcántara. Insomma, il ct spagnolo ha dato loro una fiducia incondizionata, così come Flick con Musiala, Southgate con Bellingham, Deschamps con Tchouaméni e, anche Scaloni con Enzo Fernandéz, un altro centrocampista moderno e di grande personalità, protagonista del bellissimo avvio di stagione del Benfica e del Mondiale finora magico dell’Argentina. Per lui parlano i risultati della Selección, prima ancora che i numeri e le sensazioni determinate dal suo gioco: era in panchina all’esordio contro l’Arabia Saudita, poi Scaloni gli ha dato le chiavi del centrocampo fin dalla seconda gara, quella contro il Messico, e da lì Messi ha iniziato ad avere la protezione, il sostegno e anche i rifornimenti giusti. In più, proprio contro il Messico, è anche arrivato un gol d’autore. Un’altra conferma, anche se non serviva, che Qatar 2022 è stato il Mondiale dei centrocampisti. Quelli del presente, ma soprattutto quelli del futuro.