La Spagna contro la Spagna

È ancora una squadra piena di talento, ha un possesso avvolgente, a tratti magico, che si basa su intuizioni geniali. E il problema sembra proprio questo: è ancora il mondo giusto per questa squadra?

In un pantheon immaginario dedicato alle Nazionali più forti e più influenti di tutti i tempi, la Spagna del quadriennio 2008-2012 occupa uno spazio enorme. Perché ha centrato la tripletta Europei-Mondiali-Europei, un unicum che resterà tale per moltissimi anni. Ma anche perché la Roja costruita da Aragonés e poi rifinita da Del Bosque è stata la prima rappresentativa contemporanea – dopo i fasti antichi dell’Ungheria degli anni Cinquanta, del Brasile del 1970 e dell’Olanda del Totaalvoetbal – che è riuscita a generare un impatto profondo nella storia evolutiva del gioco, grazie a degli automatismi così sofisticati e raffinati da ricordare quelli di una squadra di club. Se siamo alla vigilia dei Mondiali 2022 eppure ricordiamo e celebriamo ancora quella Spagna, per di più utilizzando termini e metafore piuttosto magniloquenti, non è per caso. È per via della Spagna di oggi, una Nazionale allestita e allenata e anche raccontata come se non avesse mai reciso il legame con il suo passato, come se fosse un club dall’identità radicale, radicata e perciò immutabile. Basta porsi un paio di domande – ovviamente retoriche – per capire cosa intendiamo. Ad esempio: Pedri e Gavi sono dei teenager e sono delle gemme di talento, questo è innegabile, ma in un’altra Nazionale sarebbero stati inseriti – e si sarebbero inseriti – con la stessa precocità, con la stessa naturalezza? E ancora: quale Nazionale pratica il possesso palla più percussivo e più stordente del pianeta Terra?

Jonathan Wilson, uno dei giornalisti sportivi più influenti al mondo, si è chiesto se la Spagna non fosse caduta nella «trappola di credere che il proprio modo di fare le cose sia quello giusto in ogni epoca, solo perché lo è stato davvero per un certo periodo». Anche questa è una domanda retorica, a dirlo è la storia: in tutti i grandi tornei giocati dopo il trionfo a Euro 2012 e fino all’arrivo di Luis Enrique, nel 2018, la Roja è sembrata sorpassata dal tempo e da squadre velocissime composte da giocatori con fisici scultorei, alti, spigolosi, ma anche molto tecnici; nel mentre i vari Del Bosque e Lopetegui e Hierro sono rimasti aggrappati al calcio euritmico e sinuoso dei soliti Fàbregas, Piqué, Sergio Ramos, Iniesta e Busquets, anche perché i nuovi talenti – Isco, Asensio, Morata, Saúl – non avevano tutto ciò che serviva per raccogliere l’eredità di chi li aveva preceduti, anche se all’inizio sembrava potessero riuscirci, ed è l’andamento delle loro carriere a confermarlo in modo inequivocabile. Questi stessi dubbi hanno ammantato anche la rivoluzione di Luis Enrique: certo, l’ex allenatore del Barcellona ha cancellato la vecchia generazione – a Euro 2020 c’erano nove giocatori sopra i 28 anni sui 26 convocati, e solo cinque over-30: Busquets, Jordi Alba, Azpilicueta, De Gea e Thiago Alcántara – e ha inserito tanti giovani di qualità, eppure la Spagna ha concluso la fase a gironi di Euro 2020 con una quota media di possesso palla superiore al 70%, e con soli 12 tiri in porta in 300 minuti di gioco. Per dirla brutalmente: era una squadra nuova che sapeva di vecchio.

Andrés Iniesta è l’eroe per eccellenza nella saga mondiale della Spagna. Uno dei giocatori più straordinari della sua generazione, ma soprattutto l’autore del gol che ha permesso alla Nazionale spagnola, nel 2010, di piegare le resistenze dell’Olanda e di conquistare per la prima volta il titolo di campioni del mondo.

E allora qualcuno ha iniziato a pensare che le decisioni tecniche e progettuali di Luis Enrique fossero ispirate dalla stessa credenza/imposizione di tipo fideistico che aveva già guidato i suoi predecessori, quella per cui la Spagna di oggi e di domani deve obbligatoriamente somigliare alla Spagna che fu. Un sospetto alimentato anche da alcune manifestazioni pubbliche del ct, tra cui: la frase pronunciata durante gli Europei 2021 sul fatto che i suoi calciatori «hanno bisogno del pallone, vogliono averlo»; l’installazione – nel centro federale di Las Rozas – di una piattaforma sopraelevata e l’acquisto di gps e walkie-talkie da mettere addosso ai giocatori, così da guardarli dall’alto e telecomandarli a voce durante gli allenamenti; la tendenza a convocare solo quei calciatori «che si adattano al suo sistema, non i migliori in assoluto», come scritto da ESPN dopo aver raccontato il caso di Iago Aspas, escluso sistematicamente dalla Nazionale anche se è l’attaccante spagnolo più prolifico degli ultimi anni.

Ecco, in tutte queste scelte l’ambizione – o meglio: l’ossessione – di voler ricreare un passato glorioso hanno avuto sicuramente un peso. Ma sarebbe sbagliato credere che il lavoro di Luis Enrique e della Federazione sia il frutto di una pulsione esclusivamente nostalgica, come se il ct e i dirigenti guardassero solo al passato. In realtà è il contrario: la Spagna sta cercando di riadattare il proprio modello calcistico, di proiettarlo nel futuro. Solo che una storia recente così ingombrante – una cultura e dei valori che hanno permesso al calcio iberico di toccare delle vette che gli altri, tutti gli altri, hanno potuto solo immaginare – non può essere rinnegato, se non in parte.

Lo stesso Luis Enrique, ripensandoci bene, non ha avuto e non avrà grossi margini di manovra. È un discorso antropometrico che diventa antropologico e poi metodologico, è la storia che si riverbera nel presente: in Spagna la statura media dei maschi (167 centimetri) è la terza più bassa tra tutti i Paesi europei, ed è praticamente certo che il dato del secolo scorso fosse ancora inferiore. Ecco perché Johan Cruijff, quando nel 1988 tornò al Barcellona come allenatore, decise – anzi: impose – che la prima squadra e tutte le formazioni della Masía avrebbero dovuto studiare e praticare un calcio di grande purezza tecnica, basato sul controllo del pallone e sull’idea di governare tutte le partite attraverso il possesso. Così è nata la generazione dorata degli Xavi e degli Iniesta e dei Busquets, poi questo modello si è espanso in tutto il Paese grazie alla Federazione, che già nel 1995 aveva già attivato un nuovo sistema formativo – per giocatori e tecnici – ispirato a quello di Cruijff e del Barça. Un sistema formativo che è in uso ancora oggi, anche perché ha portato dei risultati straordinari.

Luis Enrique è ct della Spagna dal 2018, ha guidato la Roja a un grande Europeo la scorsa estate, con una corsa interrotta soltanto in semifinale contro l’Italia. La sua è una Nazionale che guarda al futuro, con un deciso ricambio generazionale: a Euro 2020 c’erano nove giocatori sopra i 28 anni sui 26 convocati, e solo cinque over-30.

Insomma, la verità è che Luis Enrique non è un idealista. O comunque non lo è in misura superiore a tanti suoi colleghi. Semplicemente, i giocatori della sua Spagna – i già citati Pedri e Gavi, ma anche Yeremi Pino, Ferran Torres, Carlos Soler, Eric García, Dani Olmo, Ansu Fati, Nico Williams – hanno la stessa fisicità dei loro predecessori. E in fondo sono venuti fuori, come calciatori e come atleti, dallo stesso brodo primordiale. Il ct ha anche provato – e in realtà sta ancora provando – a ripetere il processo attuato ai tempi del Barça, quando riuscì a rendere un po’ più diretto il tiqui-taca di Guardiola, ma è chiaro che sarebbe davvero illogico provare a forzare il contesto oltre una certa soglia. E allora Luis Enrique ha finito per assecondare il flusso, ha fatto e sta facendo delle scelte di rottura solo dal punto di vista politico – la già citata epurazione di molti vecchi leader e soprattutto di Sergio Ramos, la lite a distanza con l’ex vice ed ex amico Robert Moreno – e non tattico e culturale. Anzi, il fatto che alla fine abbia insistito su un calcio fatto di passaggi manipolanti e di grande tecnica in velocità, con una spolverata di verticalità, ha portato i suoi frutti: la Spagna ha raggiunto la semifinale agli Europei e la final four di Nations League per due edizioni consecutive. E lui ha rivendicato questa continuità di rendimento in modo creativo e anche un po’ urticante, come suo solito: sul suo Twitter è comparso lo screen di un file Excel, presumibilmente compilato in prima persona, che evidenzia come la Spagna abbia avuto risultati migliori rispetto a tutte le altre Nazionali Uefa nei tornei disputati tra il 2020 e il 2022, comprese le qualificazioni ai Mondiali.

In virtù di tutto questo, la Roja plana in Qatar immersa in una situazione promettente ma anche un po’ annoiata, già vista e vissuta: nessuna squadra gioca in modo tanto avvolgente ed esteticamente appagante, la rosa è giovanissima ed è composta da centrocampisti e mezze punte e laterali offensivi dalla tecnica raffinatissima, da difensori e terzini abili in costruzione, ma al tempo stesso sembra priva di fisicità, di un grande realizzatore e di quel tipo di leadership che si esprime attraverso la rudezza, la cattiveria agonistica, la capacità di ribaltare le cose a livello tattico ma anche emotivo – non a caso Diego Torres ha scritto sul Guardian che Luis Enrique «si è circondato di giocatori obbedienti e disciplinati, esempi di virtù civica».

Così la vera star in potenza della squadra è proprio lui, il ct: Luis Enrique dovrà provare a lenire la monotonia, a cambiare un po’ le cose, visto che la Spagna gioca sempre allo stesso modo e non ci sono alternative, visto che il risultato dei Mondiali sembra dipendere dal modo in cui i giocatori della Roja riusciranno a capitalizzare il loro infinito possesso palla, se ci riusciranno. Il fatto è che potrebbero anche farcela, ed è proprio questo il punto: la rivoluzione a metà guidata dall’ex tecnico di Roma e Barcellona vive meravigliosamente e pericolosamente in bilico, cammina su un filo sottilissimo sospeso tra il ritorno al successo – e quindi il trionfo assoluto – di un modello che ha già vinto e la noia dell’ennesima sconfitta che arriverebbe perché la Spagna non è riuscita ad andare oltre se stessa, oltre certe visioni, oltre certe reminiscenze del passato, oltre certe immagini che ormai sono scolorite dal tempo anche se restano bellissime, anche se occupano uno spazio enorme, eterno, nel pantheon del gioco del calcio.

Da Undici n° 47