No hubo desunión, non c’erano problemi di unione. Lionel Scaloni ha dato una risposta da pompiere, o da ministro della Prima Repubblica, quando il Clarín gli ha chiesto conto dell’ultimo grande disastro della Nazionale argentina, vale a dire la spedizione al Mondiale del 2018. Ci sono varie versioni su ciò che è accaduto nel ritiro in Russia mentre in Argentina – qualificata al torneo grazie a una serata particolarmente buona di Lionel Messi e andata a un passo dall’eliminazione ai gironi – molte voci convergono sull’ammutinamento: Messi e Mascherano, secondo alcune ricostruzioni, avrebbero avuto alcune divergenze con Jorge Sampaoli, ma ciò che era più triste era la sensazione desolante che trasmetteva sul campo quella squadra. Dopo il Mondiale, Messi si sarebbe preso una pausa e Sampaoli se ne sarebbe andato. In quello spogliatoio, a fianco del ct, c’erano altre due figure che hanno visto il Titanic affondare dall’interno: Sebastian Beccacece, il vice, un allenatore con una proposta forte e abbastanza sampaolista che nel giro di pochi mesi avrebbe sfiorato una delle più grandi imprese degli ultimi anni di calcio argentino, con il Defensa y Justicia. E Lionel Scaloni, il collaboratore che si occupava dello studio degli avversari e mediava i rapporti con i giocatori.
Quando l’AFA decise di affidare a Scaloni la panchina della Selección, Diego Armando Maradona non usò gli stessi toni da Pentapartito: «Lionel? Un ragazzo straordinario, ma non può dirigere nemmeno il traffico». Allora, in effetti, sembrava una decisione un po’ rischiosa. O meglio: un po’ scoraggiante. All’indomani dell’apocalisse, dopo un Mondiale che aveva evidenziato la fine di un ciclo che sembrava trascinarsi emotivamente prima ancora che tecnicamente, Scaloni – un allenatore che tra i professionisti contava solo un breve passaggio alla guida della Sub-20 – somigliava più a un burocrate della Federazione, a un uomo di Partito mandato disarmato in mezzo alla tempesta, per cercare di sedarla.
E invece Lionel Scaloni ha vinto il Mondiale successivo, quello finito da poche ore, il terzo della storia della Selección. E lo ha fatto dopo quattro anni di lavoro intenso, fatto in profondità, così che a ogni caduta seguisse una pronta reazione basata su una soluzione ingegnosa. In questo modo ha trasformato la sua oggettiva mancanza di esperienza in un’unione di ferro con i suoi calciatori, un’unione che poi si è riflessa tutta su Messi, il miglior Messi mai visto con indosso la maglia Albiceleste. Nel momento in cui chiunque invocava un nuovo corso sotto la guida di Gallardo, Simeone, Pochettino o di altri grandi condottieri che avrebbero avuto di certo più da perdere che da guadagnare accettando l’incarico, Scaloni si insediava in silenzio, convinto di essere di passaggio, e che il lavoro dei mesi seguenti sarebbe stato propedeutico a quello di qualcun altro. Alla fine sarebbe rimasto e avrebbe chiuso da vincente un percorso di pazienza, adattamento e finissima intelligenza.
La sua prima decisione è stata quella più logica, anche se nessuno l’aveva messa in pratica prima di lui: un ricambio generazionale forte, che includesse quella serie di giocatori nati intorno alla metà degli anni Novanta, se non oltre, che ormai erano entrati nel loro prime, che godevano di una certa rilevanza nei rispettivi club, ma non erano ancora entrati realmente nella Selección. Il centrocampo dell’Argentina di Scaloni nasce così: Leandro Paredes vertice basso con compiti di regia, di prima distribuzione e di rottura delle linee di pressing con il suo gioco verticale e sul lungo; Giovani Lo Celso, il giocatore con la connessione più naturale e istintiva con Messi, oltre che il cuore della versione migliore, dal punto di vista del palleggio, della Scaloneta; Rodrigo De Paul, che in Serie A è esploso come centrocampista creativo, ma nell’Argentina ha giocato praticamente sempre da mezzala di quantità.
Le convocazioni di Scaloni sono state un flusso continuo: ad oggi, a Mondiale terminato da poche ore, si contano 92 chiamate e 75 giocatori diversi ad essere scesi in campo: ha dato la porta al Dibu Martinez, ha sfruttato l’esplosione del Cuti Romero, ha pescato Nico González nella seconda divisione tedesca. Il suo primo torneo da allenatore è stata la Copa América 2019. In un’intervista al Clarín, poco prima dell’inizio del torneo, Scaloni aveva chiesto apertamente per quale motivo avrebbe dovuto vincere l’Argentina, che era nel pieno della ricostruzione. In effetti, il torneo della Selección è stato comprensibilmente deludente, ma nel corso della competizione la squadra era cresciuta in modo evidente a livello di gioco, ed era stata eliminata dopo una semifinale stoica contro i futuri campioni del Brasile: la capacità di progredire ed evolversi durante il torneo, di intervenire prima che l’edificio crollasse, sarebbero diventate una costante della gestione Scaloni. O meglio: del modo di Scaloni di allenare, e ritorneranno molto utili sia in occasione della Copa América vinta al Maracanã due anni più tardi, sia al Mondiale del Qatar. Un Mondiale vinto meritatamente, ma non senza sfiorare un’infinità di finali alternativi e molto meno trionfali.
Prima della Copa, Scaloni ha dichiarato di non avere preferenze per un sistema di gioco particolare, ma di immaginare una squadra piuttosto verticale. Con il passare del tempo ha spiegato a La Nación di aver cambiato idea e di aver deciso di adattarsi maggiormente alle caratteristiche dei suoi giocatori, costruendo un sistema di possesso più ragionato, più a misura dei suoi centrocampisti: «Alla fine, ti arricchisci come giocatore, perché non ti chiudi e ne beneficia la squadra». Anche di recente, in un’intervista al Guardian prima dell’inizio del Mondiale, ha ribadito la sua visione del calcio e del ruolo di allenatore: «Ancelotti ha raccontato che, prima di vincere l’ultima Champions League, ha dialogato con i suoi giocatori per cercare la miglior soluzione per attaccare. Quando un giocatore scende in campo deve essere convinto di quello che fa. L’autoritarismo, il si fa questo o nient’altro, non mi piace. Io sono uno di quegli allenatore che cercano di avere il giocatore dalla propria parte, di sapere se si trova bene e perché».
Lionel Scaloni, dunque, sembra modellare strada facendo la sue convinzioni. Sicuramente passerà alla storia come un eroe nazionale, difficilmente verrà ricordato come un innovatore alla stregua degli altri due argentini vincitori della Coppa del Mondo, César Luis Menotti (che tutt’ora è nel gruppo di lavoro della Selección) e Carlos Bilardo, i due tecnici più influenti del calcio argentino pre-Bielsa. Se si vuole cercare a tutti i costi una matrice, nella breve, fulminante e camaleontica carriera di Lionel Scaloni, è impossibile non guardare a José Pekerman, l’allenatore della Selección del 2006. Non soltanto perché lui e il suo staff, da Samuel ad Aimar, sono figli della sua gestione delle giovanili negli anni Novanta e hanno partecipato con lui al Mondiale di Germania, sedici anni fa, ma anche perché era ed è un tecnico che ha sempre lasciato una certa libertà ai propri giocatori di talento, primo tra tutti Juan Román Riquelme. Questo aspetto e la gestione impeccabile del gruppo dal punto di vista umano, una dote che Scaloni gli ha più volte riconosciuto, sono probabilmente le due eredità più grandi lasciate ai suoi successori, oltre che le più decisive per la vittoria del Mondiale. Il che non significa che le doti strettamente tattiche siano secondarie: Scaloni ha saputo rimettere in piedi la Selección quando l’assenza di Lo Celso ha smantellato completamente la fluidità di palleggio dell’ultimo anno e mezzo; ha azzeccato la preparazione di tutte le partite della fase a eliminazione diretta cambiando anche assetto con successo a seconda dell’avversario; ha saputo rimodellare la squadra su Julian Álvarez ed Enzo Fernández – quest’ultimo impiegato praticamente in ogni ruolo del centrocampo. Insomma, l’Argentina che ha vinto il Mondiale non si era mai vista. E quindi non sarebbe esistita se Scaloni non fosse riuscito a costruirla in modo diverso da quelli che erano i presupposti della vigilia.
In questo nuovo contesto tecnico-tattico, Messi si è ritrovato a essere un leader emotivo, a volte anche rabbioso, quasi senza accorgersene. Fin dall’inizio del suo ciclo, Scaloni ha detto di voler cercare una squadra, non un salvatore, e di aver chiaro il rischio di ritrovarsi con un collettivo che non funziona, se non fosse riuscito a sfruttare al meglio l’enorme volume di gioco che Messi genera da solo. Questo è stato il vero cuore del suo lavoro: nessuno, prima di Scaloni, ha mai avuto un Messi così decisivo individualmente, né ha saputo creare un sistema in cui lui e il suo supporting cast si responsabilizzassero e migliorassero a vicenda. Non sarebbe stato possibile neanche immaginare questo successo, se non avesse trovato quel perfetto equilibrio tecnico tra il 10 e i suoi compagni, un equilibrio che ha rischiato di deragliare nelle prime due partite, in una squadra sinistramente simile a quelle dei grandi psicodrammi, ma che ha subito ripreso la forma degli ultimi tre anni, crescendo di continuo fino a esplodere in una finale dominata, che ha nell’azione del gol di Di Maria, e nelle sue connessioni pure, tecniche e istintive, il manifesto e il punto più alto di questa Argentina. Una squadra che è entrata nell’Olimpo, accompagnata silenziosamente dal suo allenatore.