Tutto quello che non dimenticheremo dei Mondiali in Qatar

Dieci momenti che hanno fatto la storia di questa Coppa del Mondo.

Ci sono sempre tante storie in un Mondiale. Forse pure troppe. Persino scegliere quale raccontare diventa complicato, vista la mole di partite e di avvenimenti extracampo che meriterebbero attenzione, approfondimento. Poi c’è anche da dire che Qatar 2022 è stato un Mondiale davvero pieno e pure divertente, da un punto di vista tecnico e prima ancora politico. Per questa nostra piccola antologia di cose interessanti e indimenticabili, abbiamo deciso di mettere insieme un po’ di cose di campo, di calcio: non per forza tecnica o tattica, ma comunque degli eventi avvenuti sul terreno di gioco, che hanno indirizzato e/o caratterizzato questo torneo così contraddittorio, così elettrizzante, così affascinante. Del resto è sempre così: un Mondiale fa la storia se le sue storie sono significative. E in questo caso ci sono pochi dubbi al riguardo: parleremo di ciò che è successo in Qatar, nel bene e nel male, ancora per molto tempo.

La complessità del gioco per ribaltare i pronostici, con il Marocco

Quarti di finale, primo tempo di una partita molto equilibrata, il Marocco controlla il pallone, sceglie come organizzare l’assalto all’area del Portogallo, sposta le pedine sul terreno, alza i terzini e cerca gli spazi con i movimenti senza palla, evita il pressing troppo morbido dei portoghesi, allarga il gioco sull’esterno e cerca una testa dentro l’area. È quella di En-Nesyri, che anticipa il portiere a un’altezza impossibile e fa uno a zero. Il gol è dell’attaccante del Siviglia, ma con lui ci sono altri tre giocatori in area che avrebbero potuto segnare. Il gol vittoria del Marocco sul Portogallo è storico e indimenticabile perché è quello che vale la prima qualificazione di una Nazionale africana alle semifinali dei Mondiali. Ma è anche il gol in cui illusione e disillusione si sovrappongono e si scartano a vicenda, è l’istantanea che diluisce la retorica della sorpresa nella consapevolezza di una squadra che manda in campo Ziyech e Boufal, Hakimi e Amrabat, Mazraoui e Ounahi.

È vero che i Mondiali sono episodici per natura e la casualità è una componente non irrilevante, ma il Marocco di Walid Regragui è stato una delle squadre più forti complessivamente di questi Mondiali: ha dimostrato di poter alternare diversi registri tattici, passare dal gioco più speculativo visto contro Belgio e Spagna a uno più proattivo con cui ha messo in difficoltà il Portogallo. Il gol di En-Nesyri è uno dei momenti più belli dei Mondiali in Qatar perché premia chi sa sfruttare la complessità del gioco per ribaltare i pronostici. (Alessandro Cappelli)

Da rivedere con la camera tattica

Quel girone assurdo in cui tutte si sono qualificate agli ottavi, almeno per un istante

C’è stato un momento in cui il Gruppo E qualificava Giappone e Costa Rica e mandava a casa Spxagna e Germania. Mancavano venti minuti alla fine delle partite e il Giappone aveva ribaltato il vantaggio della Spagna; sull’altro campo un rimpallo fisicamente difficile da spiegare portava in vantaggio la Costa Rica sulla Germania. I Mondiali erano entrati in una specie di realtà alternativa in cui la supremazia del calcio europeo – che in Qatar non si è vista poi tanto – andava a farsi benedire. Era l’ultima combinazione immaginabile, e anche l’unica che mancava in un girone in cui tutti sono stati qualificati almeno per un momento. È durato poco: la Germania l’avrebbe risolta in tre minuti con Havertz, e poi avrebbe vinto 4-2. Tutto inutile: da quella partita sarebbero uscite due squadre eliminate. (AC)

L’inganno di Weghorst

L’Argentina ha un talento speciale nel dare vita a psicodrammi – e forse è per questo che le celebrazioni della vittoria sono state così impertinenti, così sopra le righe, come si fa dopo un pericolo scampato. Il Mondiale dell’Albiceleste è cominciato con uno di questi – l’Arabia Saudita designata vittima sacrificale troppo presto – ed è terminato con un altro, nel modo che sappiamo. In mezzo, il quarto contro l’Olanda ha assunto contorni bellici, nella solita altalena emotiva che solo gli argentini sono in grado di vivere e far vivere, culminata in quello che è successo al minuto 100: il pareggio dell’Olanda a firma Wout Weghorst.

Come solo certi gol crudeli sanno fare, arrivano quando sono più inaspettati. Non bastasse questo, l’Olanda ha escogitato il modo di segnare un gol crudele in una forma assolutamente crudele: con l’inganno. Il fallo fischiato all’ultimissimo momento di un quarto di finale, al limite dell’area di rigore, può far pensare a un unico, possibile, esito: la battuta diretta a rete, la prodezza che per significato e per bellezza del gesto entra di diritto nella storia dei Mondiali. L’Olanda ha ribaltato il paradigma, prediligendo l’assunto contrario: sacrificare la bellezza in forza dell’utilità, come solo loro sanno fare – se c’è un popolo che ha fatto delle ristrettezze territoriali e degli ostacoli naturali un punto di forza, sono proprio loro. Come Johan Cruijff aveva inventato il calcio di rigore “a due”, per entrare in porta direttamente con il pallone, così Teun Koopmeiners e Wout Weghorst colgono di sorpresa l’Argentina: il primo serve in area di rigore il secondo, che protegge il pallone dall’assalto del difensore e incrocia per il gol del 2-2. (Francesco Paolo Giordano)

Diabolico

La Tite dance

Una sensazione di onnipotenza, come quella manifestata dal Brasile contro la Corea del Sud, non si è mai percepita altrove nel Mondiale. Demeriti della Corea? Forse, ma mai quanto il peso insostenibile di un Brasile debordante. Non sapremo mai cosa sarebbe potuto essere di questa Seleçao – e dell’intero Mondiale – se Bruno Petkovic non si fosse messo di traverso. Quella contro la Corea rimane un’esibizione di bellezza e potenza distruttrice in purezza, con quattro reti segnate in poco più di mezzora. Qualsiasi rete o azione scintillante potrebbe spiegare alla perfezione il controllo emotivo, ancor prima che tecnico, del Brasile, ma forse niente supera il balletto di Tite dopo il 3-0 di Richarlison – il ct serioso e tutto d’un pezzo che sbraca festoso, coinvolto da una sbornia calcistica a cui non può restare indifferente nemmeno lui. (FPG)

Il minuto che stava cambiando la storia

C’è stato un minuto, quello a cavallo tra l’80esimo e l’81esimo della finale, in cui Kylian Mbappé stava per cancellare tutti i discorsi su Messi, Maradona, classifiche, confronti. E lo stava facendo dal nulla e nel nulla di una Francia messa improvvisamente di fronte a tutta quell’inadeguatezza che da teorica era diventata reale. Il fatto che, alla fine, la storia sia poi andata come doveva andare e come tutti, in fondo, speravamo che andasse, non cancella quella sensazione di sgomento che condiziona il giudizio su chi ha dimostrato di avere i mezzi e l’onnipotenza  per opporsi a quella storia e a tante altre storie. E di farlo come e quando vuole, nello spazio di 60 secondi, chiudendo con un gesto atletico che è il manifesto stesso di ciò che pensiamo sia il calcio a questo livello.

Nel 1970 in Messico fu un tap-in volante, anche piuttosto casuale di Schnellinger, a regalare a un’intera generazione una partita di cui ancora oggi si difende strenuamente il primato di bellezza; Mbappé con quel colpo in quel minuto ci permetterà di fare altrettanto tra cinquant’anni. Magari non consolerà lui ma noi sì. (Claudio Pellecchia)

Il contropiede perfetto, e Di María ha dovuto solo correre

In un video pubblicato sul canale YouTube di The Players’ Tribune poco più di una settimana fa, Ángel Di María ha detto che, quando gioca con Messi, l’unica cosa che deve realmente fare è correre. Così quando Messi, durante la finale e con l’Argentina avanti di un gol, riceve spalle alla porta nella sua metà campo, dalla parte opposta El Fideo ha già cominciato a correre: al resto ci pensa il capitano della Selección che con un tocco d’esterno guadagna i due tempi di gioco che permettono ad Álvarez e Mac Allister di confezionare il contropiede perfetto, di recapitare all’uomo delle finali un pallone che doveva solo essere spinto in rete. Tutto velocissimo, tutto accecante. (CP)

Il gol collettivo più bello dei Mondiali

Arabia Saudita, un pizzico di follia

Ora, nel tripudio generale di strisce bianche e celesti, sono in pochi a ricordare che la prima Argentina di questi Mondiali, quella scesa in campo contro l’Arabia Saudita, era una squadra molto diversa: non c’erano Álvarez e MacAllister, gli uomini del contropiede perfetto in finale; non c’era nemmeno Enzo Fernández, il cuore del centrocampo di Scaloni. C’era Lautaro Martínez, che però si era fatto annullare due gol per fuorigioco, e con quello di Messi fanno tre nel solo primo tempo. Non è stato un caso, non è stata fortuna: basta riguardare la partita per accorgersi che l’Arabia Saudita di Hervé Renard, ct globetrotter dei nostri tempi, tiene la difesa perennemente a centrocampo e a volte anche oltre, quasi come se volesse isolare volutamente il suo portiere in una landa verde, grande, desolata. All’intervallo, gli offside fischiati all’Argentina sono addirittura sette. Il tabellone luminoso dice 1-0, ma Messi ha segnato solo su rigore. Per il resto, i tiri validi della Selección sono appen quattro.

Comincia la ripresa, l’Arabia continua ad applicare il suo piano partita strutturato, creativo, ambizioso per non dire rischiosissimo. I giocatori in maglia verde arrivano sempre primi sulle seconde palle, sembrano poter incendiare e divorare il campo, iniziano a farlo sul serio. L’Argentina tiene il possesso poco e male, perde sicurezza, barcolla, va al tappeto: arrivano due gol belli in rapida successione, in cinque minuti Al-Shehri e Al Dawsari riscrivono la storia; e la seconda rete è davvero preziosa, il controllo, il dribbling e il tiro sono rapidissimi, incontenibili. Il resto della partita è confuso, Scaloni pesca Álvarez e Fernández dalla panchina, sembra l’inizio del solito psicodramma argentino e invece è l’inizio di una nuova Selección, più solida e concreta, è qui che nasce una squadra capace di reagire alla tempesta, è così che si vincono i Mondiali. L’Arabia Saudita svanirà nelle gare successive, per qualche ora è stata la storia più clamorosa del Mondiale, ma solo per chi pensa a quella partita col senno di poi, o di prima: nel corso della gara vera e propria contro l’Argentina, Renard e i suoi giocatori hanno vinto in modo solo apparentemente folle, in realtà era tutto giusto, tutto meritato, per quanto potesse sembrare assurdo. (Alfonso Fasano)

Quel poco che resta, ma è sempre molto, di Cristiano Ronaldo

Ci hanno scritto degli articoli sul fatto che moltissimi fotografi accreditati per Portogallo-Svizzera e per Marocco-Portogallo abbiano inquadrato la panchina lusitana, e non il campo, durante l’esecuzione degli inni nazionali. Niente di eccessivo o di sbagliato: Cristiano Ronaldo era lì, il suo Mondiale era e poteva essere solo lì. Sì vabbè, c’è stato un gol su rigore all’esordio e poi quel pallone toccato o forse no con il ciuffo, contro l’Uruguay, ma niente di clamoroso. Niente di veramente interessante. La realtà è che Ronaldo sta diventando un calciatore sempre meno centrale: il Portogallo ha vinto – agli ottavi, benissimo, contro la Svizzera – e poi ha perso contro il Marocco senza di lui, o utilizzandolo come comparsa. La realtà è che la vera carriera del vero Ronaldo è finita con l’intervista a Morgan di un mese fa. Certo, le sue manifestazioni continueranno a essere seguite, inquadrate, raccontate, a fare rumore e colore. Ma è un discorso puramente mediatico. Il fatto che a vincere sia stato Messi rende tutto ancora più definitivo, e più malinconico, per quel che resta del vecchio CR7. (AF)

Un Giappone memorabile

Al Giappone mi sono appassionato nel momento in cui ho visto il mangaka Muneyuki Kaneshiro, autore del manga a tema calcistico Blue Lock, tra i più popolari fumetti nipponici di questo momento, realizzare illustrazioni dei personaggi del suo fumetto con addosso il kit della Nazionale (Blue Lock è un manga che tutti gli amanti del pallone dovrebbero leggere). Certo, visti i precedenti al Mondiale del Giappone, visto il livello dei giocatori convocati (non altissimo, per usare un eufemismo) mai mi sarei immaginato che questa squadra sarebbe stata protagonista non di uno ma addirittura di due dei momenti memorabili di questo Mondiale: la vittoria con la Germania e quella con la Spagna. Alla fine, quando si è trattato di scegliere un momento per riassumere il miglior Mondiale della storia del Giappone, ho scelto il gol di Asano contro la Germania, quello del 2-1, quello della vittoria. Anche perché, assieme alla vittoria dell’Arabia Saudita contro l’Argentina nel primo turno della competizione, me lo ricorderò sempre come uno dei momenti più surreali del Mondiale più surreale di sempre. (Francesco Gerardi)

Que miras, bobo?

Al di là della finale – la più bella che io abbia visto nella mia vita – c’è solo un’altra partita di questo Mondiale per la quale rischierei l’uso dell’aggettivo epico: il quarto di finale tra Argentina e Olanda. Certamente per tutto quello che si è visto in campo e che è successo durante la partita, ma anche (forse soprattutto) per tutto ciò che si è detto prima, durante e dopo. Per me, Olanda vs Argentina è stata la prova che del calcio non esisterà mai quella versione sanificata, niente gestacci/provocazioni/scorrettezze che in tanti sembrano augurarsi. Di Olanda vs Argentina si può fare un racconto parallelo fatto solo di trascorsi tra i protagonisti, di torti antichi che esigevano vendetta, di parole avvelenate che chiamano risposte sguaiate. Di Olanda vs Argentina si potrebbe fare un racconto parallelo fatto solo di volti e di mani, di parole e di parolacce, di gesti e di gestacci. L’Olanda nelle espressioni da villain bondiano di Van Gaal. L’Argentina nella mani alle orecchie di Messi, nel suo pollice-indice-medio stretti in quell’idea triangolo mobile che significa chiacchiere. Il nervosismo nell’onnipresenza di Emiliano Martinez, poliglotta dell’insulto, protagonista assoluto di ogni scambio basato sul reciproco disprezzo. La tensione – forse la disperazione – nell’accerchiamento dei giocatori olandesi ai danni di Lautaro Martinez, in cammino verso il dischetto del rigore. La liberazione della vittoria festeggiata sotto i volti piegati verso il basso degli sconfitti, ultima distrazione canzonatoria prima della corsa festante. Di Olanda vs Argentina si potrebbe fare un riassunto in una frase, quel «Que miras, bobo? Anda pa’alla, bobo», catch phrase di un Messi stradaiolo e rissaiolo come non lo abbiamo visto mai (e oggetto di forse il miglior meme del mondiale: Mbappé che sfila davanti alla coppa del mondo appena persa e la coppa del mondo ha la faccia di Messi e mentre Mbappé passa la coppa gli urla « Que miras, bobo? Anda pa’alla, bobo»). Olanda vs Argentina, sono sicuro, nel racconto di questo Mondiale resterà come la partita in cui abbiamo capito davvero che questa Argentina era un squadra diversa. Superiore non solo con i piedi, ma anche in tutte le altre cose con le quali si gioca a pallone: con i volti, con le mani, con le parole, con le parolacce, con i gesti, con i gestacci, con le emozioni. (FG)