Romanzesco e tragico, Fabián O’Neill era l’ultimo dei nostalgici

Eccessi, genio, indolenza, fantasia: un calciatore fuori dagli schemi, in un calcio che, di schemi, cominciava ad averne troppi. Un ricordo del fantasista uruguagio, scomparso di recente.

«Che brutto dover scrivere di un amico morto. Perché lo stesso fatto di scrivere vuol dire compiacenza di essere vivi, mentre lui è morto. Morto per sempre e mai più si muoverà». Così scriveva Dino Buzzati molti anni prima che inventassero Facebook e che tutti, chi più chi meno, diventassimo necrologisti presso noi stessi. Tutto in questi giorni è stato scritto sull’incredibile vita e la dolorosissima morte, a 49 anni, di Fabián Alberto O’Neill Dominguez, uruguaiano di origini irlandesi, già calciatore professionista, portatore di bellezza, animo fragile. È stato detto e bene della sua classe, del suo darsi agli altri, della sua indole gentile di gigante buono, dei suoi tremendissimi abissi interiori.

«E quanto più ci commuoviamo – aggiungeva Buzzati – e riusciamo a dire cose patetiche in modo che il lettore si senta preso dal rimpianto, tanto più questa è vita, vita nostra, di noi che viviamo e respiriamo, e ci piace fumare e mangiare e alla vista delle ragazze ci sentiamo ancora vivi e uomini». Ma come schivare quel po’ di retorica che ci serve di tanto in tanto? Come mettere a tacere quel sommovimento di budella, quella punta di malinconia che assomiglia al taglietto sul labbro che non facciamo altro che stuzzicare? Semplicemente, certe volte, non possiamo.

Il giorno di Natale ho ricevuto messaggi che assomigliano in tutto e per tutto a veri attestati di cordoglio. Come se fosse morto un cugino, uno di famiglia. Cosa che non è nemmeno troppo distante dal vero se, come dice un amico che qui chiameremo N. per far sì che abbia salva la vita, «ho solo uno zio a cui voglio più bene che a Claudio Ranieri». E N. ha davvero molti, molti zii. Ci siamo capiti? No? Allora facciamo un esempio: Luciano Gonini. Luciano Gonini è stato un attore italiano. Ha avuto dei ruoli in Accattone e in Mamma Roma. Ha giocato a pallone sui set di Pasolini, che appena possibile si trasformavano in terreno di scontro per l’esercizio della partitella. «Nel calcio – diceva Gonini – [Pasolini] ci scopriva nell’intimità, più che ai provini».

E così facciamo noi sugli spalti. Notiamo quel gesto, quel calzettone abbassato, quel loro muoversi nervosi o scattanti o nel caso di O’Neill: sornioni e caracollanti. Capiamo chi è generoso o trattenuto, chi ha cuore, voglia, pensieri, distrazioni. Noi vediamo tutto. Come certe madri a tavola la domenica. È così che i calciatori diventano gente di casa. Specie quando abbiamo quindici o sedici anni e indossano la maglia numero dieci della nostra squadra del cuore e il loro folle talento si accende a strappi, come in un Cagliari-Milan disgraziato della primavera del 1999, partita maledetta di pali e traverse, miracoli di Abbiati e bestemmie e malasorte, anno sciagurato di retrocessione.

O’Neill si ritrova la palla tra i piedi sugli sviluppi di un corner avversario, ma non ha fretta. Né di innescare un contropiede, né di liberare l’aria di rigore. Ha davanti Andrij Ševčenko che invece ha fretta eccome, e gli si avventa addosso con quel suo fare predatorio. O’Neill, che sul serio quel giorno non ha nessuna fretta, aspetta ancora. Sino all’ultimo momento aspetta, per spostare poi la palla e liberarsi con un tunnel che viene accolto dallo stupore del boato di uno stadio colmo di gente. «E la penna corre parlando di lui che non esiste più e ogni riga che scriviamo di lui, ogni riga in più è un ignobile sfruttamento della morte di lui che giace chissà dove e non può reagire e così noi gli caviamo, per desiderio di gloria nostra, noi gli caviamo il sangue dalle vene che di sangue non ne hanno più».

Ma no, Dino, giuro, non è desiderio di gloria. Non credo. È piuttosto la segreta capacità del calcio di conservare una prodigiosa memoria collettiva. Ognuno ne restituisce un pezzetto, al costo di farsi male stuzzicando quel taglietto in punta di labbra. Riaprire quel taglietto provoca un dolore che ci aiuta a trattenerlo ancora un poco, quel ragazzone uruguagio con le pile sempre mezze scariche, lo sguardo spesso triste. Ci permette di vederlo lì, a ciondolare ancora per noi sulla linea mediana. Del resto la morte è sempre e più di ogni cosa un problema dei vivi. Di quelli che hanno versato le lacrime allo stadio, nel giorno di santo Stefano, prima di una partita di serie B con un Cagliari male in arnese che naviga in torbide acque.

Sarà stato il 2010, lavoravo per un quotidiano free press. Prima di un Cagliari-Bari chiamo al telefono Giampiero Ventura, ex di turno. Noto nella sua voce una specie di nostalgia per quel finire di anni ’90, per quel suo Cagliari capace di brillare, per quel suo numero dieci che non «ho mai più visto nulla del genere». Ventura gli mandava ogni sera il fisioterapista a casa e con la scusa dei massaggi, il fisioterapista, gli svuotava il frigo. Birra, vino, superalcolici. Tutto. Com’è tipico della categoria, vedere alla voce fuoriclasse indolente, O’Neill si allenava con poca voglia lamentando sempre qualche problema di natura fisica. Sino a che Ventura non ha perso la pazienza. Adesso basta. Adesso corri come tutti gli altri. Ma quel giorno aveva davvero un guaio muscolare.

C’è un libro di Paolo Sorrentino che si chiama Tony Pagoda e i suoi amici. Immaginate il Pisapia de L’uomo in più. Ecco. Immaginatelo a bordo campo durante un allenamento del Napoli. Lo sentirete esclamare «Non me ne frega un cazzo se i giocatori sono viziati o arroganti, superbi o tronfi.  Sono ragazzi. Sanno fare senza sforzo le cose difficili. Un fatto che non la smette di commuovermi e meravigliarmi». Fabián O’Neill è stato un uomo romanzesco. «Sai cosa me ha rovinato, amigo? Donne veloci e cavalli lenti». Qualche anno fa, mentre faticavo a trovare il modo giusto per raccontare le cose, ho preso questa battuta e l’ho mischiata a quanto detto da Ventura. È venuta fuori una storia che ha preso la forma di un libro. C’è dentro un personaggio che parte da O’Neill e arriva chissà dove, sino a salvarsi la vita. Anche questo gli devo, oltre alla bellezza, il fatto di avermi tirato fuori un romanzo, di avermi reso in qualche modo felice. Solo che a troppo poco servono i libri se per noi tutto continua a scorrere, e per lui no. «Noi ci sediamo al ristorante – per dirla con Buzzati – tocchiamo la gamba di lei, guardiamo l’orologio, ci affrettiamo sul marciapiedi lucido di pioggia e dentro una febbre, una voglia, un desiderio. Che schifo».