Perché il successo del Napoli parte dal mercato

Rinunciare ai debiti sentimentali, con innesti coraggiosi, in controtendenza: così il Napoli, in estate, ha posto le basi di un campionato clamoroso.

Il 18 luglio scorso, nel corso della conferenza stampa che chiuse il ritiro del Napoli a Dimaro, Cristiano Giuntoli disse che la rinuncia a Paulo Dybala non era stata solo una questione legata all’ingaggio e alle pretese economiche del calciatore argentino. Si trattava, piuttosto, di una mancata aderenza tra le prospettive individuali e quelle collettive del progetto sportivo: «Abbiamo parlato più volte di Dybala come di un’opportunità. Ma dopo esserci confrontati con i suoi agenti abbiamo capito che non lo era, così come lui ha capito che noi non eravamo un’opportunità per lui».

In quella stessa conferenza stampa Giuntoli toccò praticamente tutti gli argomenti sensibili legati al calciomercato degli azzurri, dall’addio di Koulibaly – «Per noi era incedibile, noi abbiamo provato a trattenerlo fino alla fine ma non è stato possibile» – a quello che poi sarebbe stato il mancato rinnovo di Dries Mertens – «Dries ha un rapporto diretto De Laurentiis. Quello che succede non si può sapere, è un capitolo che fa parte della storia del Napoli, Mertens non è un calciatore normale». La considerazione più importante, però, Giuntoli la riservò alla fine quando spiegò che le ambizioni del Napoli non erano per forza legate al mercato o al numero dei calciatori in rosa a disposizione di Luciano Spalletti: «Le entrate sono subordinate alle uscite, in ogni caso non siamo intenzionati a tenere giocatori che non hanno voglia di restare. Lo scudetto resta comunque un sogno che va cullato perché abbiamo una squadra di valore e che va completata con elementi dello stesso livello di chi è andato via».

Quella frase detta in quel preciso momento storico, e cioè con il mercato del Napoli ancora in una fase embrionale, sembrò essere una sorta di anticamera del ridimensionamento tecnico ed economico, l’annuncio ufficiale di come il Napoli, ad esempio, non fosse abbastanza per uno del livello di Dybala anche perché non era stato in grado di trattenere i giocatori che avevano permesso di mantenere costantemente alto il rapporto tra aspettative e risultati nelle ultime otto stagioni. E cioè da quando l’arrivo di Rafa Benitez aveva proiettato definitivamente i partenopei in una dimensione diversa e ulteriore della propria storia calcistica.

Da quella conferenza stampa sono passati poco meno di sei mesi, in cui tutti i retropensieri negativi sulla reale competitività del Napoli nel breve periodo sono stati spazzati via dai fatti, dai risultati ottenuti sul campo, da una classifica che sembra comunque non riuscire a restituire del tutto la distanza che c’è attualmente tra gli azzurri e il resto della Serie A. In tutto questo c’entra, ovviamente, il mercato: misurabile nell’impatto mostruoso avuto da Kvaratskhelia e Kim Min-Jae o nella capacità di Raspadori, Simeone e Matias Oliveira di farsi trovare sempre pronti quando è il loro momento, ma da intendersi soprattutto come elemento cardine di una rivoluzione di sistema culturale e filosofica, prima ancora che tecnica e tattica. Arrivati a metà stagione e con un numero di partite più che sufficiente a fornire un riscontro pratico e realistico, si può dire che il Napoli sia stata l’unica big italiana a fare il mercato che doveva fare, per di più andando contro quelle che si pensava dovessero essere le logiche di una squadra alla ricerca dei pezzi mancanti per diventare una contender seria e credibile allo scudetto.

Sedici partite, 7 gol e 8 assist, praticamente un “bonus” ogni 90 minuti in media: l’impatto di Kvara sulla Serie A è stato devastante (Tiziana FABI / AFP)

La stessa rinuncia a Dybala può perciò essere considerato come il punto di svolta in positivo della stagione del Napoli, il momento in cui Giuntoli, ma anche De Laurentiis, hanno deciso di rompere definitivamente con il passato, inteso come una condizione di eccessiva dipendenza tecnica ed emotiva da un giocatore o da un gruppo di giocatori in grado di condizionare scelte e programmazione. Forse per la prima volta da quando è a Napoli, complice anche una congiuntura spazio-temporale che ha visto gli azzurri mancare per due stagioni di fila la qualificazione in Champions League, il dirigente toscano ha avuto sul serio carta bianca, ha potuto operare davvero come piace a lui, libero dal vincolo di non poter fare a meno dei vari Insigne, Mertens e Koulibaly, finalmente parte attiva di una ricostruzione che il Napoli aveva rimandato per troppo tempo a causa del timore di perdere uno status che si era faticosamente costruito e consolidato nel tempo. E invece, nell’estate che poteva segnare il ritorno nell’oblio di metà classifica, Giuntoli è riuscito nell’impresa di aumentare la competitività abbattendo i costi di gestione, trovando il punto di equilibrio tra la necessità – del Napoli, ma non solo – del player trading e la ricerca dell’ultimo e definitivo salto di qualità.

Nell’epoca in cui il Bournemouth terz’ultimo in Premier League può permettersi di presentare un’offerta più che congrua per uno dei maggiori talenti della Serie A, Giuntoli ha fornito alle squadre italiane le linee guida per programmare un futuro povero di risorse ma non per questo e non per forza avaro di risultati e soddisfazioni. E lo ha fatto tornando alle origini, al modus operandi del primo Napoli di De Laurentiis, quello che acquistava a poco e rivendeva a tanto – talvolta tantissimo – in un circuito virtuoso di costruzione e valorizzazione del talento. Qualcosa che non cambierà nemmeno dopo l’eventuale vittoria dello scudetto, almeno fin quando la politica di Giuntoli, costruita sul player trading selvaggio, sullo scouting aggressivo e più in generale su un progressivo accentramento dei poteri decisionali all’interno del club, darà i suoi frutti.

E finché questi frutti dipenderanno anche dal lavoro di semina – e, a breve, di raccolto – che Luciano Spalletti sta portando avanti fin dal giorno del suo insediamento. Perché se il calciomercato non è, non può essere la soluzione semplice a problemi endemici e strutturali ben più complessi, può almeno aiutare i direttori sportivi a mettere gli allenatori nelle condizioni di provare a risolvere quei problemi. Ed è proprio questo che è accaduto con Giuntoli e Spalletti, con il primo che ha fornito al secondo il materiale umano perfetto su cui lavorare per crescere, migliorare, esaltare i pregi, limitare i difetti. Il tecnico di Certaldo non si è limitato a creare – o, come nel caso di Mario Rui, Lobotka, Meret e Rrhamani, a ricostruire – valore, ma ha dimostrato la capacità di saper lavorare per step, prima ricostruendo sulle macerie ereditate dal quadriennio segnato dal cortocircuito tecnico ed emotivo delle gestioni Ancelotti e Gattuso, poi edificando la propria cattedrale su una base talmente solida da poter fare a meno sia degli ultimi superstiti della prima età dell’oro sarriana che di coloro i quali – Fabian Ruiz e Ospina su tutti – erano comunque riusciti a diventare dei punti fermi della squadra nonostante l’evidente discontinuità tecnica e progettuale.

Sono 17 i giocatori del Napoli andati a segno in questa stagione: tutti gli attaccanti, da Raspadori a Lozano e soprattutto buona parte dei difensori, compresi Rrahmani, Jesus, Ostigard e Olivera.

Nella sua prima stagione Spalletti ha lavorato su tutte quelle sovrastrutture tattiche che avevano reso il Napoli un ibrido senza capo né coda, costruendo un campionato di vertice sull’inamovibilità della verticale Koulibaly-Anguissa-Osimhen e restituendo a Insigne e Ruiz quella centralità nella dimensione creativa che sembrava essere andata smarrita tra le pieghe del 4-2-3-1 di Gattuso. Questa fusione tra passato e presente è stata prodromica al lavoro di ricostruzione della rosa che Giuntoli ha condotto in estate, seguendo le indicazioni del tecnico e svincolandosi dal peso e dall’incidenza dei nomi più ingombranti. Tutte le scelte che sono state prese sono state, perciò, frutto di valutazioni che contemplassero il primato delle indicazioni di campo in funzione della costruzione di un’identità riconosciuta e riconoscibile, per quanto brutali e draconiane sembrassero all’occhio del tifoso: «Spalletti partecipa in maniera attiva alla costruzione della squadra. Lui guarda, dà l’assenso oppure no, lascia che Simone Beccaccioli assieme a tutti gli altri dello staff osservino e studino. C’è una sintonia totale. Non si è mai soli in queste scelte», disse Giuntoli a novembre in un’intervista al Corriere dello Sport.

Scegliere Kim per sostituire un Koulibaly di cui stiamo constatando il declino al Chelsea, individuare in Giovanni Simeone un complemento, prima ancora che un sostituito, per Osimhen migliore di quanto non lo sarebbe mai stato Petagna, liberare Meret dal peso emotivo di un ballottaggio con Ospina che lo stava logorando ben oltre quello che si intuiva dalle sue prestazioni, puntare con decisione su Kvaratskhelia per assorbire il contraccolpo dell’addio di Insigne, la cessione di Fabian Ruiz, sono tutte decisioni che hanno seguito la logica di un mercato necessario, che poteva essere fatto solo così e solo in questo momento dopo anni di conservatorismo controproducente. Persino le operazioni di secondo piano – Ndombélé, Östigard, più recentemente Gollini che va a sostituire Sirigu come secondo di Meret – si inseriscono in una visione d’insieme più ampia in cui azzardare, sperimentare, scoprire, sul campo e nel mercato, diventano il discrimine tra una normale stagione di vertice e una in cui l’intera Serie A viene demolita nello spazio di un girone.

Per questo il secondo Napoli di Spalletti non può essere considerato un miracolo sportivo, un unicum che si inserisce in un contesto da “vuoto di potere” lasciato da Milan, Inter e Juventus; c’è anche quella componente, certo, ma c’è soprattutto un progetto costruito per arrivare all’obiettivo per gradi – «sin prisa pero sin pausa» disse Benitez quasi dieci anni fa –, dopo anni in cui si è provato senza successo a saltare le tappe, forzando una realtà che invece andava modellata progressivamente. Non è un caso, quindi, che il Napoli sia già a gennaio a un passo dallo scudetto nel momento in cui ha smesso di cercare una scorciatoia per arrivarci, quando ha smesso di cercare di diventare ciò che non è, con tutta la freschezza e l’entusiasmo di un progetto nuovo, ma nuovo sul serio, cominciato sul mercato e proseguito sul campo. Con chi, a questo punto, è un dettaglio.