Thiago Motta fa sul serio

Dopo la salvezza allo Spezia, il suo Bologna è una delle squadre più efficaci e sofisticate della Serie A: ritratto di un tecnico che sta cancellando gli stereotipi sul suo conto.

La storia di Thiago Motta da allenatore del Bologna non era cominciata nel migliore dei modi. Naturalmente hanno pesato i risultati di un primo mese da incubo, tre sconfitte e un pareggio in quattro partite tra settembre e ottobre, che seguivano un avvio da sei punti nelle prime sei giornate di campionato. Ma c’entrava soprattutto il fatto di aver preso il posto di Sinisa Mihajlovic per motivi di campo, quando invece il campo sembrava essere l’ultima cosa che importasse quando si parlava di Mihajlovic. Persino il comunicato con cui, il 6 settembre, la dirigenza rossoblu aveva annunciato l’interruzione del rapporto con il tecnico serbo raccontava della «decisione più difficile che ho preso da quando sono qui» da parte del presidente Joey Saputo, oltre che di un rapporto «che va molto al di là dell’aspetto professionale»; tutto questo, però, non aveva potuto impedire di fare una «scelta dolorosa per il bene di una squadra che è prima di tutto patrimonio dell’intera città e dei tifosi», come sottolineato dall’amministratore delegato Claudio Fenucci. Insomma, certe parole erano una giustificazione in piena regola, un tentativo per provare a legittimare una decisione che forse era stata rimandata troppo a lungo.

Una settimana dopo Thiago Motta si presentava a Casteldebole. Nella sua prima conferenza stampa, dopo aver dribblato l’ennesima e prevedibile domanda sul suo predecessore – «Non l’ho sentito in questi giorni ma ho grande rispetto per l’uomo e per l’allenatore, uno che fa parte della storia di questo club» –, aveva deciso di parlare solo di campo, di gioco, di come il suo Bologna avrebbe dovuto stare in campo e di come la risalita sarebbe dovuta passare attraverso la costruzione e la definizione di un’identità chiara, netta, perciò riconoscibile: «Ho in mente come vorrei che il Bologna giocasse e proveremo a farlo. Ma non voglio parlare di moduli. Mi piacciono le squadre che giocano in maniera offensiva, ma con equilibrio, vorrei una squadra che attacchi l’avversario non appena perde palla e che reagisca, in cui l’attaccante è il primo difensore. Abbiamo iniziato un lavoro diverso di cui vedrete i frutti sul campo, durante le partite».  

Cinque mesi dopo il Bologna è arrivato al settimo posto in classifica e, ancora una volta, i risultati – nove vittorie, un pareggio, e quattro sconfitte in 14 partite di Serie A dal 23 ottobre in poi – rappresentano un dettaglio marginale o comunque secondario rispetto al modo in cui sono arrivati, all’autorevolezza della squadra rossoblu, alla sua freschezza fisica, tecnica e mentale, alla fiducia consolidata nel proprio sistema. La vittoria contro l’Inter va inquadrata e raccontata proprio in funzione di tutte queste cose, di come le idee e le intuizioni di Thiago Motta si siano tradotte in fatti di campo, misurabili, tangibili, reali: «I giocatori hanno fiducia e sentono di poter rischiare le giocate. Questo Bologna è una squadra che è divertente da vedere e che gioca col sorriso, ma niente sarebbe possibile senza l’impegno che tutti stanno dimostrando ogni giorno. I risultati sono frutto di tante ore di lavoro in allenamento, sul campo, ma anche in sala davanti al video. Per lo staff ricevere questa disponibilità dai ragazzi è bellissimo, la strada è quella giusta». 

Il gol decisivo realizzato da Orsolini, uno dei giocatori rivitalizzati da Thiago Motta

Fin da quando ha iniziato la sua carriera di allenatore Thiago Motta ha dovuto lottare per scrollarsi di dosso etichette e pregiudizi, proprio come era accaduto nei suoi ultimi anni da calciatore professionista: quando andava in campo, la sua – presunta – lentezza, di piede e di pensiero erano in evidente contrapposizione a un calcio che stava diventando sempre più dinamico, ipercinetico e condizionato dal progressivo restringimento di spazi e tempi di reazione; da tecnico è sempre stato considerato lo stereotipo di un laptop trainer fin troppo visionario e avanguardista per un campionato cinico e conservatore come quello italiano. In realtà Thiago Motta è un allenatore molto più lineare e pragmatico di ciò che si possa pensare, è un professionista consapevole della realtà che lo circonda, degli obiettivi da raggiungere, di ciò che può – o non può – fare con il materiale tecnico e umano a disposizione. Per questo il suo 4-2-3-1 non è la rivoluzione copernicana che ci aspetteremmo in una giungla di 3-5-2 schematici e quasi standardizzati, piuttosto è la risposta più semplice e immediata che il suo Bologna – una squadra «forte e con tanti giocatori di qualità», secondo il suo stesso allenatore – può dare nei momenti di difficoltà. 

In fase di possesso il Bologna è una squadra moderna e ambiziosa, che tende a far partire l’azione dal basso attraverso l’interazione tra i due centrali e il terzino che si trova in zona palla – Posch più di Cambiaso o Lykogiannis che, però, si fanno preferire nelle progressioni palla al piede o quando si tratta di attaccare lo spazio in verticale. La manovra poi progredisce attraverso le combinazioni tra i due esterni e il mediano di riferimento: si tratta di una tendenza che si è acuita a causa dei recenti problemi fisici di Marko Arnautovic, cioè l’unico elemento su cui appoggiarsi per bypassare direttamente le prime due linee di pressione avversaria, magari con un lancio lungo. In questo nuovo contesto, si è determinata l’assoluta centralità di Jerdy Schouten e Nicolás Domínguez, soprattutto quando si tratta di consolidare il possesso prima di cambiare il lato e permettere ai due esterni offensivi di giocarsi le proprie carte in situazioni di uno contro uno.  

Da questo punto di vista la migliore stagione in carriera di Riccardo Orsolini (sette gol e tre assist in 21 partite, quattro gol e due assist nelle ultime cinque) ha permesso al Bologna di trovare un problem solver di assoluto livello, una sorta di generatore automatico di occasioni e superiorità numerica e posizionale cui rivolgersi quando si affronta una difesa organizzata per blocchi bassi e che non permette una rifinitura efficace per vie centrali. Ovvero quella zona di campo in cui opera Lewis Ferguson, il giocatore che permette materialmente lo sviluppo dell’azione in verticale attraverso l’occupazione preventiva degli spazi che si aprono alle spalle del centrocampo avversario. Thiago Motta tende a utilizzare lo scozzese prevalentemente come trequartista atipico, ma non è stato raro vederlo agire anche da secondo mediano o, addirittura, da punta centrale: «Ferguson è un ragazzo interessantissimo. Non è egoista, sa fare gol, sa inserirsi. In fase difensiva è molto attento. Guarda sempre cosa fanno i compagni in campo per adattarsi», ha detto l’allenatore del Bologna dopo il 3-0 nel derby con il Sassuolo, illuminato da un gol fantascientifico del numero 19. 

Niente male questo tiro a giro

In fase passiva la ricerca del controllo sull’andamento della partita e sulle singole situazioni è ancora più accentuata, se possibile. E si traduce in un’attenzione maniacale ai dettagli. La partita chiave fu proprio contro l’Inter, ma nel girone d’andata: il 9 novembre, a San Siro, finì 6-1 per i nerazzurri. Da allora uno dei concetti su cui Thiago Motta ha sempre insistito, anche a mezzo stampa, è stato quello del controllo, dell’equilibrio da mantenere anche dopo l’episodio potenzialmente negativo e in grado di condizionare il resto della gara: «Dopo quella gara siamo migliorati tantissimo, cercando di guardare al perché di quella sconfitta e al modo con cui è arrivata, visto che per 25-30 minuti avevamo fatto molto bene e giocato alla pari. Abbiamo perso il filo della gara dopo un episodio negativo e poi tutto è andato nel verso sbagliato. Ma è anche grazie a sconfitte così che la squadra ha alzato il livello», ha dichiarato Thiago Motta poco prima di prendersi la rivincita al Dall’Ara.      

Il fattore decisivo è l’intensità che, però, non si estrinseca necessariamente in un pressing ossessivo e feroce, piuttosto nell’accettazione di un prolungato e sistematico uno contro uno a tutto campo che permette di ovviare a uno dei limiti strutturali del Bologna, vale a dire la copertura preventiva dell’uomo che si inserisce senza palla dal lato debole. Con il passare delle partite, Thiago Motta ha finito per costruire un 4-5-1 in cui i due esterni offensivi diventano a tutti gli effetti dei quinti che hanno il compito di proteggere lo spazio lasciato libero dal terzino che è scalato accanto al secondo centrale mentre il primo è uscito a fronteggiare il giocatore in possesso fronte porta; quando, invece, i rossoblù scelgono di alzare il baricentro della pressione, si dispongono con un 4-4-2 lineare, in cui le prime due linee si occupano di fare densità, mentre punta e sottopunta si occupano di schermare le linee di passaggio a disposizione del centrale di costruzione e del mediano. In ogni caso la scelta dell’uno o dell’altro atteggiamento è demandata ai giocatori, ed è un modo per testare la loro capacità di reazione ai problemi che la partita oppone loro di volta in volta: non a caso, Thiago Motta ha detto che «la squadra deve avere dei punti di forza ben definiti, ma se si vuole competere ad alti livelli deve essere equilibrata e saper fare più cose. Dobbiamo gestire bene i momenti con la palla, ma anche trovare il modo di recuperarla quando è degli avversari. C’è chi pressa alto e chi temporeggia, sta ai ragazzi capire quando fare una cosa e quando l’altra ma l’importante è la comunicazione e decidere cosa fare insieme».  

Fino a qualche tempo fa, neanche troppo a dire il vero, googlare “Thiago Motta allenatore” significava imbattersi nella ciclica ripetizione di quell’intervista alla Gazzetta dello Sport che generò l’equivoco da universo memetico sul 2-7-2, e questo anche dopo la salvezza della scorsa stagione, ottenuta con una giornata d’anticipo alla guida dello Spezia. Oggi, finalmente, i fatti stanno dando un’altra faccia al racconto, stanno definendo Thiago Motta per quello che è realmente: un tecnico preparato che ha saputo spegnere pregiudizi e stereotipi sul suo conto. Lo ha fatto grazie ai risultati del suo Bologna, ma anche al modo con cui arrivano: oggi la sua squadra scende in campo per giocare proprio come vuole lui. Spesso riesce anche a vincere. E tutto questo avviene contro Inter o Fiorentina o Sampdoria, non c’è alcuna differenza. In fondo, non è che si possa chiedere molto di più, a un allenatore.