Quando lo scorso 10 maggio il Manchester City annunciò l’acquisto di Erling Braut Haaland, furono in molti a storcere il naso. Anch’io ero uno di quelli. Pensavo che quel tipo di finalizzatore istintivo e cingolato fosse piuttosto in antitesi con l’idea di calcio di Pep Guardiola, che solo qualche anno prima aveva sintetizzato così il suo tiqui-taca: «Non abbiamo un centravanti, perché il nostro centravanti è lo spazio». A distanza di dieci mesi, possiamo già dire che avevamo torto ma anche ragione, allo stesso tempo. Avevamo torto perché i risultati parlano chiaro: 42 gol in 37 partite tra tutte le competizioni con la maglia del City sono numeri fuori scala per qualsiasi attaccante europeo in questo momento. Ed è evidente che Haaland sia proprio ciò che mancava ai Citizens per puntare alla Champions League quest’anno. Ma avevamo anche ragione, perché è come se dal punto di vista estetico i suoi gol, tanto efficaci quanto brutali nella loro essenzialità, fossero in netto contrasto con la leggerezza fluida e barocca del sistema tecnico-tattico di Guardiola. Ed è proprio questo il punto. Haaland fa quasi sempre gol brutti.
Prendiamo quello che è successo prima della sosta per le nazionali. In cinque giorni Haaland ha segnato otto gol: ben cinque contro il Lipsia nel ritorno degli ottavi di Champions (eguagliando il record di Messi) e tre contro il Burnley nei quarti di finale di FA Cup. Ora, nessuno di questi è un bel gol. Mentre Gundogan, KDB e Alvarez hanno realizzato delle reti splendide, lui si è solamente limitato a farli. Tanti, in qualsiasi modo, in maniera compulsiva. Quello che contraddistingue la maggior parte dei gol di Haaland, e che li rende così brutti ai nostri occhi, è la mancanza di umanità. Sono troppo essenziali. Da questo punto di vista, è come se Haaland ci rimandasse costantemente, gol dopo gol, a una semplicità pre-umana o post-umana. Non a caso la mitologia di cui è oggetto negli ultimi anni poggia su due grandi immaginari. Da un lato, si ricorre a paragoni animaleschi, a una forma di immediatezza istintiva e bestiale che credevamo di esserci lasciati alle spalle, parlando di calcio e prime punte. Dall’altro, le figure retoriche ci proiettano verso la fantascienza, la robotica, l’elementarità binaria delle stringhe di codice.
Fin dagli esordi, Haaland ha usato innanzitutto il suo corpo per fare gol brutti, o essenziali. Un corpo che è un paradosso, un equivoco, sempre in bilico tra il bestiario medievale e i romanzi di Philip K. Dick. A cinque anni stabiliva il record di salto in lungo da fermo e quindici anni dopo, nonostante il suo metro e novantacinque per novantaquattro chili di peso, è in grado di correre 60 metri in 6”64 (il record del mondo è 6”34).
Da una porta all’altra
In questo gol contro il Brighton, per esempio, possiamo apprezzare tutta la sua brutale essenzialità realizzativa. Sul rinvio telecomandato di Ederson Moraes, Haaland è così veloce e ben orientato col corpo che, pur trovandosi defilato rispetto al diretto marcatore e al portiere avversario, passa davanti a tutti e due con lo slancio di un meteorite. Nel preciso momento in cui la palla tocca terra, entrambi sanno di aver sottovalutato le doti fisiche di Haaland. Chi invece ancora non lo sa è l’altro difensore, che accorre dalla parte opposta. Dopo aver controllato col “pube”, ad Haaland basta una spallata scazzata, con l’aria di un quarterback che chiude l’armadietto del college, per farlo rovinare a terra e insaccare indisturbato.
L’apparente facilità con cui Haaland va in gol non è però solo una questione fisica, ma anche e soprattutto mentale. Si sveglia presto, medita, segue una dieta biohacking, usa occhiali che filtrano la luce blu degli schermi per migliorare la qualità del sonno. Per la stessa ragione, di notte spegne il wi-fi del telefono: «Dormo meglio e per questo segno», ha raccontato. Un’attenzione all’aspetto psicologico che si traduce in un’autostima fuori dal comune. Alla domanda: «Se la tua vita dipendesse da un calcio di rigore, a chi lo faresti tirare?», ha risposto: «Beh, probabilmente dovrei dire me stesso, perché mi fido molto di me». E in effetti su 34 rigori tirati ne ha sbagliati solo due.
Il primo gol con la maglia del City, manco a dirlo, è arrivato dagli undici metri. Un rigore minimalista. Rincorsa dritta, senza interruzioni, col piattone sinistro che manda la palla forte e precisa da una parte e il portiere dall’altra. E poi giù ad accartocciare quasi due metri di scheletro nella posizione del loto, un’esultanza che è anche un memento in scala uno a uno, a ribadire la superiorità della mente sul corpo. Notate però durante il replay la reazione di Guardiola in panchina: il fremito lungo il corpo che lo obbliga a cambiare posizione, la mano davanti alla bocca per nascondere l’urletto di piacere, gli occhi che sbattono più volte come velati dall’emozione. Il tutto per un gol così semplice, normale rispetto ai suoi standard virtuosistici. Perché? Non c’è altra spiegazione: l’essenzialità dei gol di Haaland rappresenta in qualche modo la perversione segreta di Pep Guardiola.
Tra i gol più esteticamente discutibili di Haaland c’è il cosiddetto “focaccina”. Quando giocavamo a PES, da ragazzi, lo chiamavamo così. Non ho mai capito perché. Si tratta del più classico degli appoggini a due passi dalla porta. Sono gol di questo tipo a suggerire che forse, in realtà, Guardiola non è il solo a godere perversamente nel vedere Haaland segnare gol semplici semplici. Altrimenti come spiegare questo assist di Thorgan Hazard?
Questo lo segnavo anch’io, sul serio
Haaland e Hazard fanno lo stesso movimento sul lancio in profondità di Witsel. La palla però è stata calciata con un effetto a rientrare. Non appena impatta il terreno, la traiettoria devia sulla corsa del belga, che se la porta avanti con tre tocchi morbidi di esterno ed evita l’uscita del portiere. Dopo un altro paio di controlli, a quel punto chiunque ne avrebbe fatto un terzo per mettere fuori tempo il difensore sulla linea, e poi calciare. Invece Hazard la passa inspiegabilmente al compagno. Tutto quello che deve fare Haaland, cavallo annoiato che per non finire in fuorigioco ha seguito l’azione al piccolo trotto, è spingerla in porta con un calcetto distratto.
Del gol focaccina ci sono anche altre tre varianti: quella scivolata, quella saltata e quella ad avvoltoio. Ma non devono trarre in inganno. Il concetto fondamentale è lo stesso: un gol facile facile a porta vuota. E per quanto potesse sembrarci strano solo qualche mese fa, dobbiamo prendere atto del fatto che Guardiola gode anche per questi gol. Anzi, sembra godere per tutti i gol di Haaland. Sono il solo a pensare che in questa occasione si sia sfiorata l’effusione, con evidente imbarazzo e fastidio del norvegese?
Meritano invece una categoria a sé i gol-destino di Haaland, quelli in cui semplicemente doveva andare così. I grandi attaccanti hanno questo dono, una specie di strano magnetismo in area di rigore che sembra orientare tutti i palloni sui loro piedi. Nel caso di Haaland è difficile non pensare che sia la sua stessa massa fisica a piegare lo spazio-tempo, in una sorta di attrazione gravitazionale. Alcuni, più prosaicamente, lo chiamano “senso della posizione”. Qualunque cosa sia, Haaland unisce questa forza oscura a una inesorabilità distruttiva sotto porta senza precedenti. Per dirla con Marracash: “Calamita e un po’ calamità”.
I suoi gol-destino vanno dal doppio rimpallo tra i difensori avversari all’autorimpallo. Sicuramente c’è una prontezza viscerale, inzaghesca, nel coordinarsi in una frazione di secondo per convertire ogni minima occasione. Haaland è cresciuto con una dedizione innaturale alla religione del gol, usando la canzoncina della Champions League come sveglia e osservando i video degli altri attaccanti per studiarne i movimenti. «Da Zlatan a Van Persie, da Vardy ad Aguero, a Messi», dice in un’intervista. «E poi Negredo, Edin Dzeko, Balotelli…».
Nel posto giusto, ma a volte non basta
In questo gol però emerge anche un altro tratto notevole, comune agli attaccanti di razza. La capacità di scomparire e riapparire. Non solo all’interno delle partite, ma anche nella singola azione. Sul tiro-cross di Hazard, il suo movimento è perfetto: scivola alle spalle dei difensori e si nasconde in un angolo cieco, per ricomparire come un fantasma non appena il rimpallo lo favorisce. Poi calcia il pallone come fosse una lattina di coca-cola vuota, e segna.
Ma non è solo questo. Come dicevamo, è proprio un approccio mentale. «Cerco di essere un po’ più sveglio, scaltro e in anticipo rispetto alle persone contro cui gioco», dice. «Se trovo la giusta concentrazione, guadagno un secondo, riesco a mettermi nella condizione di concludere e non mi possono bloccare. Pensano che io vada da una parte, invece corro dall’altra». Prendete il famoso gol contro il Borussia:
Come si chiama questo modo di colpire la palla
Se ci fate caso, un secondo prima che Cancelo metta questo cross di esterno splendido, morbidissimo, Haaland fa un contro-movimento quasi impercettibile. Finta di andare incontro al pallone e invece va lungo sul secondo palo. È questo a permettergli di arrivare per primo sul pallone. Certo, poi succedono altre cose. E di sicuro a questo punto qualcuno penserà che si tratta di un gol tutt’altro che brutto. Ne approfitto allora per chiarire una cosa. Intendiamoci: Haaland non fa solo gol brutti. Ma io sono convinto che anche quelli potenzialmente belli finiscano per avere qualcosa di perverso. Il più bel trucco del Diavolo – ma potremmo dire lo stesso della Perversione – sta nel convincerci che non esiste.
Non c’è nulla di armonico o esteticamente piacevole nel modo in cui Haaland si contorce in aria per andare a impattare questa palla con la parte esterna dello stinco (o è il malleolo?) a due metri d’altezza. Guardiola l’ha paragonato al gol di Crujff contro l’Atletico, ma non era lucido, parlava con gli occhi della cupidigia. Non è una cosa prevista dal suo sistema di gioco, né da quello di nessun altro. È un’aberrazione, come un agnello a due teste o un sesto dito della mano.
Ma soprattutto sono convinto che siano proprio i gol brutti a dirci qualcosa in più su Haaland. Perché sono quelli che vanno a costruire l’anomalia statistica che ogni settimana ci fa cliccare sui link dei video dopo che ha messo a segno una tripletta o una cinquina. Sono sempre quei gol sporchi, brutti e cattivi ad aver fatto lievitare il suo valore di mercato fino ai 170 milioni attuali, e ad aver attratto il lato oscuro di Guardiola. La verità è che ad Haaland non interessa il modo più bello per segnare, e forse nemmeno quello più semplice. Interessa segnare e basta. Il suo corpo è un prolungamento della sua fame di gol. Prendete questo gol di tacco.
Non proprio Bettega o Crespo, bisogna dirlo senza vergognarsi troppo
Sul cross teso dalla trequarti non si capisce se inciampa o cerca di impattare di testa (potrebbe essere la prospettiva a ingannarci). Fatto sta che cade sull’erba e scivola di schiena per un paio di metri come una tartaruga su un lago ghiacciato. La palla però sfila sull’esterno e arriva tra i piedi di un compagno, che la addomestica e la ributta in mezzo all’area. Haaland se ne accorge, si tira su con un movimento ragnesco ma è leggermente in controtempo. L’unico modo per buttarla dentro è questo tacco che assomiglia tanto a un autosgambetto. Risultato: palla dentro, Haaland di nuovo a terra. Lo stesso discorso vale per il gol a cavatappi di testa o la zampata ferina. Sono gol molto belli e molto brutti allo stesso tempo, ma a lui non frega nulla. Basta farli. Insomma, a prescindere da come andrà a finire questa stagione, lo strano matrimonio tra Guardiola e Haaland sembra aver già dato i suoi frutti, per quanto anomali sotto molti aspetti. Vedremo se si ripeterà l’anno prossimo. Perché la prima volta è perversione, la seconda è filosofia.