I bomber di provincia sono scomparsi per sempre?

È tutta colpa della subalternità economica della Serie A? Oppure c'entra anche l'evoluzione del gioco?

Il calcio è un ecosistema delicato dominato da leggi severe: la complementarietà delle parti, la compensazione interna, la convenienza del branco, il dominio del più forte, la selezione della specie. Come ogni ecosistema, vive di equilibri duraturi e di cambiamenti improvvisi: le circostanze del momento decidono chi prospera e i mutamenti storici ridisegnano le gerarchie. Per moltissimo tempo la Serie A è stato il più ricco degli ecosistemi calcistici, l’equivalente di un paradiso naturale la cui ricchezza di risorse generava il massimo della biodiversità: c’era spazio per tutti, tempo per tutti, talento per tutti, affetto per tutti, soldi per tutti.

La diversità nasce dall’abbondanza, vale per il calcio come per la natura. Seguendo la stessa logica, dalla scarsità viene impoverimento: se ha meno, poco o niente da offrire, un ecosistema produrrà meno, poco o niente. Che è una maniera abbastanza efficace e precisa di riassumere gli ultimi venti, ormai quasi venticinque anni del nostro calcio. Nell’impoverimento dell’ecosistema Serie A e nella conseguente perdita di biodiversità, ovviamente, ci sono state delle vittime: specie un tempo numerose e forti ridotte ore all’irrilevanza numerica e alla lotta per la sopravvivenza. Tra queste specie, ce n’è una in particolare che nel nostro campionato è ormai prossima all’estinzione, l’equivalente per il calcio italiano del rinoceronte di Giava: il cosiddetto bomber di provincia. 

Negli scorsi giorni, assieme al resto della redazione di Undici, discutevo di che cosa sia (fosse, a questo punto) il bomber di provincia per il calcio italiano. D’altronde, per raccontare la fine di una specie è indispensabile conoscerla dall’inizio. Ovviamente, tutti ci siamo un limite temporale che è quello della nostra vita vissuta e dei nostri ricordi personali: niente antecedente agli anni Novanta, quindi. Poi, nessun giocatore che in tutta la sua carriera non abbia avuto almeno una stagione da quindici gol segnati in Serie A: sotto questa cifra, la definizione di bomber non si addice. Ancora: nessun giocatore che sia stato convocato e abbia giocato con la maglia della Nazionale: la provincia è immobile, di sicuro non si trasferisce a Coverciano quattro volte l’anno e men che meno acconsente a trasferte che prevedono il superamento dei confini nazionali. Continuando: nessun giocatore che abbia giocato in una o più di una delle fu Sette Sorelle, regola senza la quale Batistuta o Enrico Chiesa o Marco Di Vaio sarebbero potuti tecnicamente rientrare nella definizione di bomber di provincia. Infine: nessun limite di nazionalità, il bomber di provincia può essere a chilometro zero oppure d’importazione globalizzata.

Stabiliti questi criteri, abbiamo potuto escludere potenziali contraddizioni (Batistuta e Chiesa, appunto), casi limite (Totò Di Natale, che è rimasto a Udine solo perché voleva rimanere a Udine, e comunque ha fatto troppo il titolare in Nazionale per essere considerato bomber di provincia), sopravvalutazioni (Daniele Cacia, Antonio Floro Flores, Emanuele Calaiò), passatismi. Quel che resta è una lista di giocatori che in un dato momento e per determinate ragioni si sono dimostrati rilevantissimi: Igor Protti e Dario Hubner, ovviamente, e poi Christian Riganò, Stefan Schwoch, Pasquale Luiso, Filippo Maniero, Ernesto Chevantòn, Cristiano Lucarelli, German Denis, Nick Amoruso, Sergio Pellissier, Ciccio Tavano, Rolando Bianchi, David Di Michele, Riccardo Zampagna. Fino ai nomi più recenti e, forse, ultimi di questa dinastia cadetta di marcatori: Fabio Quagliarella e Ciccio Caputo. 

Ma perché il bomber di provincia, nella Serie A di oggi, non esiste più? Sia chiaro, ovviamente l’attaccante che emerge segnando tanti gol in una squadra di piccola-media importanza esiste ancora ed esisterà sempre: Dusan Vlahovic è l’ultimo giocatore ad aver camminato proprio su questo sentiero, da Firenze in direzione Torino. A non esistere (quasi) più non è il giovane attaccante, di grande talento e belle speranze, che scelga la provincia come momento di formazione e fase di passaggio. Alle soglie dell’estinzione, in realtà, c’è quell’altro tipo di attaccante che a tutti noi viene in mente quando pensiamo al bomber di provincia: tendenzialmente italiano, spesso sottovalutato, refrattario alla metropoli calcistica. Questo tipo di attaccante non esiste (quasi) più, e capire quale sia il cambiamento dell’ecosistema-Serie A che abbia causato questa perdita è piuttosto difficile. È possibile che l’impoverimento dell’ambiente, la scarsità delle risorse abbia costretto la specie a una migrazione di massa verso oasi di ricchezza, benessere, abbondanza: tre parole che ovviamente in questa epoca sono in realtà due, ovvero Premier e League. Nel campionato inglese il bomber di provincia esiste e prospera. Deve essere una conseguenza del monopolio, dell’accentramento delle risorse, dell’assenza di un antitrust calcistico.

Come per la Serie A negli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila, in Premier League oggi la ricchezza è tale che anche le provinciali si possono permettere lo shopping nella boutique di lusso: questo porta a una redistribuzione dello stesso che fa sì che attaccanti come Gianluca Scamacca – che del bomber di provincia italiano poteva essere forse l’evoluzione della specie – ovviamente vada a giocare nel West Ham perché il Sassuolo ovviamente non può rifiutare trenta milioni di euro sull’unghia. È lo stesso identico meccanismo distributivo che in passato ha portato alla moltiplicazione dei bomber di provincia in Serie A: all’epoca, tutti volevano giocare in Italia, ma la selezione per entrare nella rosa di una delle Sette Sorelle era così dura che anche giocatori di grande talento rimanevano fuori. Ma comunque tutti volevano giocare in Serie A e, a quel punto, meglio la provincia che niente. Lo stesso identico ragionamento oggi lo fa un attaccante che vuole a tutti i costi giocare in Inghilterra e, a questo punto, meglio il West Ham che niente.  

Ciccio Caputo è l’ultimo attaccante nella storia della Serie A in grado di andare in doppia cifra con tre squadre diverse che non si sono qualificate alle coppe europee: Empoli, Sassuolo e Sampdoria (Gabriele Maltinti/Getty Images)

Certo il discorso non è solo economico: è vero che in Serie A non si può più spendere come ai tempi belli, ma è anche vero che il calcio italiano è da un pezzo che non produce attaccanti davvero rilevanti. Centravanti soprattutto. E qui il discorso si fa ancora più complicato, perché è difficile capire se si tratti di una sfortunata ma momentanea circostanza oppure del mutamento degli usi e costumi della nostra formazione calcistica. È possibile che ci sia una nuova generazione di attaccanti prossima all’avvento, un’abbondanza di talento che sarà impossibile concentrare tutto nelle grandi italiane e straniere e che porterà a una distribuzione più ampia dello stesso e quindi a una rinascita del bomber di provincia. È possibile ma, date le premesse e i precedenti, improbabile. È possibile anche che l’attaccante sia il fenotipo calcistico che più ha sofferto l’avvento dal calcio totalissimo di questi anni. L’attaccante è per definizione uno specialista che deve eccellere nel minimo indispensabile al gol. In questa fase storica del pallone, in cui la formazione dei giocatori è fondata sulla competenza in ogni fondamentale, sulla completezza in ogni situazione di gioco, sulla familiarità con ogni scenario della partita, è possibile – forse probabile – che quella al gol sia la propensione più difficile da scoprire, da coltivare, da proteggere. 

Ho un carissimo amico con il quale parlo praticamente solo di calcio: lui è un vero reazionario del pallone, chiacchierarci è per me appassionante come guardare me stesso nel riflesso trasfigurante di uno specchio rotto. Questo mio carissimo amico e vero reazionario del pallone ha la sua spiegazione alla penuria di centravanti che oggi piaga il calcio italiano e non solo (a parte Haaland, quanti autentici e rilevanti centravanti esistono oggi?). Secondo lui, certo, c’entra anche la formazione necessaria al calcio totalissimo che è lo spirito di questo tempo. Ma, soprattutto, è colpa di Lionel Messi e di Cristiano Ronaldo, che ci hanno convinto che per segnare tantissimi gol bisogna sapere fare, appunto, quello che sanno fare Lionel Messi e Cristiano Ronaldo. Che, però, lo sanno fare solo Lionel Messi e Cristiano Ronaldo. «Prima di loro, per essere un grande attaccante bastava saper stoppare il pallone e farlo finire in porta [c’è una descrizione migliore di Haaland e del perché ci fa tutta questa impressione? Ndr]. E se eri un attaccante davvero grande, della prima cosa potevi pure fare a meno».

Fare l’attaccante, prima di Messi e Ronaldo, era più semplice, insomma. Bastavano numeri più contenuti e capacità più umane: l’asticella era più bassa per tutti e questo consentiva un più facile e immediato accesso alla professione. So bene che indietro non si torna e che a calcio non si gioca – non si può più giocare – in quella maniera che il mio amico rimpiange. So che la nuova generazione di centravanti non nascerà dal ritorno allo stop e tiro. Ma quando penso ai bomber di provincia, e alla loro scomparsa, penso che un po’ di ragione ce l’abbia anche lui, il mio amico carissimo e vero reazionario del pallone: ogni progresso richiede un sacrificio equivalente, ogni futuro si costruisce nello spazio liberato rimuovendo quel che si può del passato. E che il calcio in cui gli attaccanti stoppavano e tiravano non esiste più. E che, forse, è per questo che gli attaccanti di provincia non esistono più.