Adrien Rabiot, meglio tardi che mai

Il centrocampista francese ha riscoperto se stesso dopo anni difficili e contraddittori. E così, finalmente, si è preso la Juventus.

Pochi giorni fa Adrien Rabiot ha compiuto 28 anni. Nel video circolato sui social dove lui ringrazia i compagni per gli auguri lo si vede alzarsi in piedi e tenere un piccolo discorso. Sulle prime il tono è timido come quello di un introverso chiamato appunto a parlare in pubblico, ma poi prende confidenza: «Ci sono ancora due trofei da vincere», dice ai compagni guardando in basso. E lui, aggiunge, sarebbe davvero felice di vincerli. Per lasciare un bel ricordo è la parte che lascia sottintesa, e che la sua postura tradisce. Non è la prima volta che le sue parole, le parole di uno che non sembra avere problemi ad abbracciare la retorica dei leader o a fare polemica, stridono in relazione al suo linguaggio del corpo, alla percezione che l’insieme trasmette. Come quando l’anno scorso, dopo la sconfitta per 1-0 contro l’Inter, si era lamentato che fosse difficile giocare in undici contro dodici, accusando l’arbitro Irrati di aver favorito i nerazzurri.  Quell’intervista era stata velocemente parodiata addizionandogli la versione strumentale della “Sigma Male Theme Song“, un sottofondo musicale usato spesso in modo ironico in quei video in cui il protagonista di turno mostra caratteristiche da maschio alfa, pur non incarnandone i tratti.  

Se però la Juventus di questa stagione somiglia meno degli scorsi anni a un impero in dissesto, dilaniato da una crisi del proprio potere centrale e contingenze nefaste, tra risultati non all’altezza, penalizzazioni in classifica e gli infortuni dei suoi giocatori chiave, forse, un pochino, il merito è anche di Adrien Rabiot. Massimiliano Allegri, mai come in questi mesi chiamato a incarnare quell’elemento di continuità tra un passato vincente e un futuro incerto – quando, ironia del destino, sembrava il primo a doversene andare, in autunno – per superare la crisi di inizio stagione si era aggrappato alle proprie convinzioni e ai suoi uomini di fiducia, tra cui il francese.

La stagione 2022/23 di Rabiot era iniziata e prosegue nel segno di una precisa narrativa: a meno di ripensamenti, sarà il suo ultimo ballo in bianconero. Un addio lungo un anno che probabilmente si sarebbe consumato entro i chiaroscuri che hanno sempre caratterizzato l’avventura italiana di Rabiot, per poi arrivare a una di quelle separazioni che si superano nel giro di una sessione di mercato, una volta trovato un rimpiazzo accettabile. Vuoi perché Rabiot, da un punto di vista tattico, a settembre era ancora considerato un oggetto misterioso – tendente alla cianfrusaglia, per i più critici. Vuoi perché sembrava aver raggiunto il massimo del suo potenziale, lasciando insoddisfatte le aspettative di tutti. Non solo dei tifosi juventini, ma anche di chi, agli inizi della sua carriera, vedeva in lui un potenziale fuoriclasse. 

Il primo Rabiot visto a Parigi era un giocatore incasellabile nell’eugenetica applicata al calcio: era un Marco Verratti di un metro e novanta, capace dunque di coniugare una raffinata sensibilità tecnica a qualità atletiche già importanti, che si muoveva etereo e con coraggio, cercando spesso la giocata in grado di scardinare le difese. Alla Juventus, però, la sua evoluzione fisica ha finito col divorarsi l’eleganza dei movimenti. Il suo rapporto con la palla è divenuto più incerto. I passaggi si sono fatti via via meno audaci, i controlli più legnosi, e persino il modo di correre ha iniziato a essere più sgraziato, come se Rabiot si fosse a poco a poco ritrovato in un corpo che non riconosceva più.

Prima di quest’anno la sua avventura a Torino sembrava destinata a essere archiviata da tutti come una lunga e infruttuosa parentesi, mentre Rabiot stesso rischiava di divenire il simbolo di quella fase di transizione in cui la Juventus, anche lei vittima del suo roseo passato recente, ristagna da tempo. Invece, inaspettatamente, giunto al cosiddetto contract year, Rabiot pare essersi svegliato. Se si desse retta soltanto alla sopracitata narrativa, il miglioramento delle sue prestazioni sarebbe frutto esclusivamente di tale circostanza. Niente più di una risposta a uno stimolo, da unire a una veniale voglia di mettersi in mostra, in vista di entrare nel novero dei parametri zero e strappare il contratto più remunerativo possibile. Un atteggiamento che denoterebbe un impegno selettivo che gli appassionati italiani, severi come non mai quando si tratta di calcio e calciatori con stipendi faraonici, disprezzano apertamente – quando in altre realtà, vedi negli Stati Uniti, è una prassi così consolidata da non destare l’indignazione popolare. Al di là di questo fattore, che riveste comunque un’innegabile importanza nel ventaglio di motivazioni che un giocatore può far sue, la rinascita di Rabiot potrebbe coincidere, più banalmente ma neanche troppo, con il fisiologico raggiungimento di una maturità fisica e tecnica che, sorte ha voluto, è giunta in un momento talmente particolare che, invece di meravigliare e rincuorare, pone ulteriori dubbi e domande. Tra cui: qual è il vero Adrien Rabiot? Il trattore scostante e macchinoso delle stagioni passate o quello di oggi, un insperato e talismanico incursore?  

Per quanto sia vero che con il duro lavoro si possano forzare certi processi, è altresì provato che alcuni di questi siano al soldo di tempistiche che sfuggono alla volontà dell’individuo. Senza tirare in ballo banali similitudini, come quella del bruco che diventa farfalla, si può pacificamente affermare che il talento di Rabiot sia sbocciato quando ormai non ce l’aspettavamo più. E che in un momento così instabile per la Juventus, esso appaia sia come croce che come delizia. Croce perché arrivato tardi, delizia perché questo è il Rabiot che tutti aspettavano. Anche se è un Rabiot innegabilmente diverso. Non è un discorso che riguarda solo il fisico, un corpo portato virtualmente al miglior rapporto possibile tra robustezza e agilità, e che ora sembra aver capito come funzionare, né riguarda soltanto la sua versatilità in campo, quell’adattabilità che alla Juve lo ha portato a ricoprire più posizioni a centrocampo, trovando una inaspettata comfort-zone sulla fascia sinistra, come esterno, in una zona dove Rabiot, prima di rifiorire, ha perduto se stesso – e quel che rimaneva del suo estro – calandosi completamente nel ruolo che l’allenatore esigeva da lui. Allegri ha trovato in Rabiot un pretoriano fidato, un gregario di lusso in grado di diluirsi, fin quasi a svanire, in compiti ingrati ma tatticamente importanti – manovre di raccordo e coperture difensive fondamentali ai fini degli equilibri della squadra.

Ma tale relegazione, invece di stroncare definitivamente il talento di Rabiot, sembra anzi avergli fornito respiro in un momento di smarrimento che durava da troppo tempo. Esentato dal dovere di essere il centrocampista di fantasia che ci si immaginava potesse diventare, e spostato di nuovo in una zona più interna del suo reparto, Rabiot ha riscoperto in sé una nuova leggerezza, poi paradossalmente codificatasi in un approccio più ruvido alle partite, fatto di corsa, quantità e inserimenti. E gol. Molti gol, rispetto ai suoi standard. 

La testimonianza video di quella che è stata una grande stagione, per Adrien Rabiot

Rabiot è tra i primi cinque giocatori in Serie A per numero di palloni intercettati e tra i primi dieci nei duelli uno-contro-uno vinti, ma ciò che più salta all’occhio, dicevamo, è che in 23 partite di campionato egli abbia segnato otto reti e fornito tre assist, realizzando tra l’altro due doppiette, contro Empoli e Sampdoria. Se il numero di assist è in linea con le precedenti stagioni, il numero di gol lascia sorpresi, specie alla luce delle zero marcature nel 2021/22, la sua peggior annata in termine di contributi offensivi statisticamente tangibili. Sono reti arrivate anche in momenti delicati per la Juventus, che hanno contribuito a risolvere partite importanti, insinuando l’idea che Rabiot abbia raggiunto la sua maturità calcistica dopo anni di incertezze. Perché nel calcio nulla è più concreto di un gol. E talvolta, per raggiungere questo tipo di concretezza, bisogna saper rinunciare a ciò che prima ci definiva, reale o attribuito che fosse. Perciò via i boccoli, meglio un più austero chignon. Via la leggiadria, meglio due spalle larghe. Via le velleità da regista, meglio concentrarsi su fin dove la gamba – e non il pallone – può arrivare. Ci sono chilometri da percorrere, zone da coprire e altezze da conquistare, sebbene le reti che ha segnato di testa non siano figli di stacchi perentori, volti a stabilire un certo tipo di dominanza sugli avversari, ma il risultato di un posizionamento corretto, dell’occupazione del giusto spazio nel giusto momento. In due di questi casi Rabiot, più che impattare il pallone di potenza, sembra limitarsi a creare le condizioni minime affinché esso si tramuti in gol. Dunque, via anche la bellezza della rete che si gonfia, sembrano dirci le sue reti segnate contro Terracciano e Vicario, entrambe respinte dai portieri con un attimo di ritardo di troppo, a linea ormai varcata. Via, insomma, tutto ciò che non è strettamente necessario. Per far ricredere tutti, per essere il colpo di scena nel suo stesso dramma, un Aspettando Rabiot dove sono i suoi gol a impersonare l’assurdità e a ribaltarla.  

All’alto livello delle sue prestazioni concorre l’impressione che mai come quest’anno Rabiot sembri aver abbracciato la responsabilità di essere uno dei giocatori di riferimento di questa Juventus, anche in virtù delle forzate assenze di compagni di reparto più talentuosi. A gettare però un’ombra sulla bontà di questi miglioramenti c’è la sensazione, oltre a quella per cui quest’ultimi siano in sé un apice estemporaneo, che essi non bastino a cancellare i numerosi passaggi a vuoto che ha avuto. E che, per quanto funzionali, tali prestazioni non possano arrivare a giustificare lo stipendio che chiede per rinnovare il contratto: una cifra spropositata per la posizione che Rabiot, parlando in termini di valore assoluto, ricopre nelle gerarchie della Juventus, nonché decisamente fuori scala per una realtà economicamente debole come la Serie A. Perché in Italia, molto banalmente, da un giocatore che domanda dagli otto ai dieci milioni stagionali si pretende una continuità di rendimento che il francese non ha mai dimostrato. Ciò inficia fortemente la possibilità che Rabiot, anche questo Rabiot, diventi un perno della Juventus del futuro, dove sarebbe un grandissimo valore aggiunto, un collante perfetto tra i fortissimi ma fragili Di María, Pogba e Chiesa e i giovani Fagioli, Miretti e Rovella.  

 Le sirene inglesi sono alla sua porta da tempo, e un trasferimento in Premier League sarebbe un passo perfettamente in linea con le scelte di carriera finora compiute. Certamente potrebbe rivelarsi un azzardo, dato che Rabiot sembra finalmente essersi adattato non solo al calcio italiano, ma anche a se stesso, al calciatore che qui gli è richiesto di essere, e che forse gli è più facile essere. Andarsene proprio ora cha ha trovato la sua dimensione, dover ricominciare da capo in un campionato con altri ritmi, potrebbe rivelarsi una mossa controproducente, capace di gettarlo di nuovo in un limbo. Tuttavia, è anche vero che Rabiot non ha mai dubitato dei propri mezzi. E se crede, come pare, di valere davvero i soldi che chiede, a maggior ragione non avrà problemi a calarsi con la stessa professionalità – e la stessa efficacia – in un contesto più difficoltoso. Magari abbraccerà definitivamente la miglior versione di sé stesso, quella che qui stiamo ammirando soltanto adesso, dopo anni di alti e bassi, e che forse – ora che si avvicina la mezzanotte – vorremmo goderci ancora. Sempre che tutto questo non sia, come detto, un fuoco di paglia.