Il caso Alex Schwazer e la violenza della gogna

La nuova serie Netflix racconta un’odissea giudiziaria e sportiva, ma soprattutto come si può deteriorare il rapporto tra un grande atleta e i media, il pubblico, il mondo intorno a lui.

A primo impatto Il caso Alex Schwazer ‒ la miniserie diretta da Massimo Cappello sulla vicenda di Alex Schwazer, da poco disponibile su Netflix ‒ somiglia a un thriller, a un racconto di una storia vera di crimine e mistero. A una specie di incrocio tra SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano e Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi. Non ha l’aura epica di un The Last Dance, per citare un altro prodotto della piattaforma, e lo sport, cioè la marcia e il senso di prendere parte alle Olimpiadi, viene lasciato da parte, con tutti i valori e sentimenti che si porta dietro. È solo un mezzo, lo scenario in cui si consuma il dramma dell’atleta altoatesino, medaglia d’oro a Pechino 2008 eppure mai neanche interessato a raccontare il senso di una disciplina per la quale, evidentemente, ha perso l’amore e l’incanto. In primo piano, dicevamo, ci sono gli elementi tipici di un film di spionaggio: presunti villain in giacca e cravatta, magari doppiogiochisti, il ruolo romantico e avversario del “Palazzo”, poi ipotesi di complotto, omissioni, depistaggi vari.

E del resto non poteva essere altrimenti, visto che è la storia di Schwazer stessa a essere segnata dal mistero più che dalla gloria. Squalificato per doping nel 2012, all’apice della carriera, per l’uso dell’eritropoietina (la famigerata “EPO”), era ripartito con un’ammissione di colpa e un percorso di recupero fisico e personale, eppure non appena è tornato a gareggiare, nel 2016, è stato dichiarato positivo al testosterone ed escluso dalle competizioni fino al 2024. Quella volta però non si è presentato in lacrime alle telecamere come nel caso precedente, ma ha giurato ‒ e giura ancora ‒ d’essere innocente. Troppi aspetti non tornavano e non sono effettivamente tornati, tra campioni di urine raccolti in giorni insoliti, strane intercettazioni, accuse di omertà e manomissioni delle provette e un accanimento dell’Agenzia mondiale antidoping (WADA). Sarebbe, secondo la difesa, un tentativo per fare fuori lui e il suo allenatore, Sandro Donati, paladino dell’antidoping già ampiamente ritenuto scomodo in Italia. Schwazer l’aveva scelto per ritrovarsi, ma è possibile che uno così abbia smosso una tale cospirazione internazionale? La domanda è lecita e senza risposta, come succede alle altre piccole e grandi incongruenze del racconto, tra cui il fatto che alla fine, in sede penale, il tribunale di Bolzano abbia scagionato l’atleta, mentre quello sportivo contesti ancora la sentenza.

Questo genere di storie irrisolte sono perfette per le serie true crime, e visto da qui Il caso Alex Schwazer scorre a meraviglia ‒ quattro episodi da tre quarti d’ora l’uno, bel ritmo e ottima regia, tra pause, silenzi, sguardi. Tra le testimonianze raccolte da Netflix, la latitanza degli organi internazionali non fa che privarlo di un contraddittorio, rendendolo un racconto più che una specie di indagine vera e propria. Parlano lui, la sua famiglia, Donati, giornalisti e diretti interessati, e va bene così. C’è poco pietismo e discreto rigore, sembra la parabola del protagonista delle tragedie dell’Antica Grecia, l’eroe che senza veri motivi il destino metteva davanti a prove talmente assurde, a situazioni drammatiche talmente improbabili ed esagerate, che servivano solo a giocare con gli archetipi, ad estremizzarli, per farne un martire che esorcizzasse quelle stesse paure negli spettatori. Schwazer, ecco, vittima sacrificale di un qualcosa di più grande di lui. Forse è davvero così, forse no: non ci importa capirlo in questa sede.

Sotto la superficie, infatti, il lavoro di Cappello non serve tanto a far luce e rendere giustizia (una conclusione non c’è e non può esserci ancora) quanto a parlare di noi, di come raccontiamo lo sport e gli atleti, di come emettiamo sentenze dai nostri tribunali personali, di come giudichiamo. Più che la cospirazione, c’è il rapporto tra Schwazer e l’opinione pubblica, i media, gli appassionati, la gente comune. Si capisce, per esempio, da come il regista faccia cominciare effettivamente la vicenda da dopo Pechino, sorvolando sulla gloria e concentrandosi sul peso delle aspettative che ne derivano, le stesse a cui il protagonista non riesce a reagire. Lasciato da solo e alienato, finisce in depressione: quando fallisce ai Mondiali del 2009 dice ai giornalisti che «oggi mi sono ritirato perché ero vuoto», ed è una frase che buca lo schermo perché usa un lessico e degli argomenti che non siamo abituati a sentire; un atleta può sentirsi vuoto? Gli è concesso? E quindi la crisi, l’invidia per i colleghi russi forse dopati e la frustrazione, gli errori. Si dopa ‒ il sottotesto è che se fosse stato meglio sul piano psicologico non l’avrebbe fatto, ma è un terreno scivoloso ‒ e viene scoperto, piange in conferenza stampa, chiede scusa e qualcuno dice comunque che sta solo recitando. Va bene, ciò che ha fatto è gravissimo, ma ha senso spingersi a tanto? E poi il lento ritorno, gli allenamenti da diseredato a Rio de Janeiro, il sogno di partecipare alle Olimpiadi del 2016 che s’infrange con la recidività al doping. In quei giorni è un gioco al massacro, tra chi si dice schifato e chi ne chiede la radiazione, salvo poi ritrattare tutto con la stessa rapidità. Negli ultimi anni, ancor prima dell’uscita di questa serie e delle sentenze, l’opinione comune propendeva già per l’ipotesi che fosse stato incastrato. Approssimativa pure quella, s’intende.

Il trailer ufficiale della serie

Non è questione di giustizialismo, ma di empatia. Il caso Alex Schwazer non fa politica e non predica morale, non invita a cambiare atteggiamento, ma spiega come funzionano in questi casi le dinamiche con stampa e gente. È impossibile, probabilmente, restare freddi e indifferenti davanti a casi del genere, però l’idea di fondo è che ci vorrebbe più misura. Più pazienza prima di scagliare la prima pietra, più umanità e comprensione per chi sbaglia, più cura nell’esprimere giudizi e riguardo nel riempire di aspettative gli atleti stessi. Piuttosto che una presunta cospirazione, Schwazer ha sofferto soprattutto il linciaggio collettivo, l’abuso della parola “scandalo”, le difficoltà di potersi redimere e costruirsi un altro futuro. Ha sofferto, soprattutto, l’essere “lasciato solo”: un’espressione oggi molto in voga, ma che prima che venisse riabilitato nascondeva una prassi diffusa e poco discussa; “lasciato solo” quando ha vinto, “lasciato solo” quando ha perso, “lasciato solo” quando ha dovuto combattere.

Ora che un altro futuro, Schwazer, se l’è costruito davvero ‒ ha una moglie e due figli, allena solo degli amatori ‒ si dice contento ma consapevole che non riavrà indietro niente di ciò che ha perso e che certe ferite resteranno aperte per sempre. C’è ovviamente anche altro in questi episodi, dal ruolo del potere nello sport a come lo sport stesso può diventare qualcosa di più grande e malato. L’errore, però, sarebbe vederli come un tributo al suo protagonista, un tentativo collettivo di pulirsi la coscienza nei suoi confronti, e non come un modo per evitare che certe cose succedano ancora. Perlomeno per quanto ci riguarda.