Perché ha vinto il modello De Laurentiis

Società snella per non dire scarna, retta da una monarchia assoluta. E tante grandi intuizioni, soprattutto sul mercato.

«Io impiego pochi minuti a inquadrare una persona. E raramente sbaglio». È la formula segreta di Aurelio De Laurentiis. È grazie a questa sua innata capacità che ha potuto rilevare il Napoli e condurlo, in diciannove anni, dalla Serie C allo scudetto. Senza peraltro – almeno inizialmente – neanche conoscere le regole del calcio. Si è tuffato in un settore a lui estraneo e ha reso la sua impresa un gioiellino (nessun riferimento, ovviamente, al titolo del film dedicato alla Parmalat di Tanzi). De Laurentiis non ha vinto solo sul campo, riportando a Napoli lo scudetto dopo 33 anni e trascinandolo dopo 22 anni fuori dall’asse Torino-Milano (l’ultimo fu quello della Roma nel 2001). Ha stravinto nel settore della strategia aziendale, del management. Con una politica virtuosa ha reso il Napoli il club più solido del calcio italiano. Dal Sud Italia ha impartito lezioni di imprenditoria e ha fatto marameo ai grandi club del Nord che hanno invece imboccato la strada dell’indebitamento e oggi annaspano in situazioni contabili poco chiare. De Laurentiis ha lavorato applicando i suoi criteri di gestione d’impresa, il suo modello di business. Il merito è sotto gli occhi di tutti. Quel che è più interessante è il metodo. È l’aspetto che proveremo ad approfondire.

È il metodo che ha adottato in ogni settore. A partire ovviamente dal cinema. La sua società di produzione (la Filmauro di Luigi e Aurelio De Laurentiis) si è sempre basata sul concetto less is more. E sul suo talento con le persone. Nasce tutto da lì. Dal primo incontro. De Laurentiis le guarda negli occhi, le scruta, le lascia parlare, ne coglie immediatamente ambizioni e debolezze. Ama giocare con l’animo umano. Gode (l’uso del verbo è ponderato) nel comprendere fin dove può spingersi con le sue richieste. Nell’individuare fino a che punto il suo interlocutore è disposto a cedere. Qual è il suo punto debole, perché tutti ne abbiamo almeno uno. È come se lo sottoponesse a un test. Che termina quando tutte le lampadine si sono accese e il profilo psicologico è completo. È un seduttore. Nelle trattative è pressoché irresistibile. Proprio perché capisce molto rapidamente quali tasti premere. E una volta ammaliato l’interlocutore, lo blinda con contratti che sono passati alla storia. Contratti d’acciaio che non ammettono vie di fuga. Perché, altra caratteristica fondamentale, Aurelio De Laurentiis detesta essere abbandonato. Vive ogni separazione come una ferita personale. Soprattutto se la subisce. Si infuria, di una furia pressoché irrefrenabile. Poi magari gli passa. Ma sul momento diventa intrattabile e comincia l’opera di demolizione del traditore. È un classico, un film visto parecchie volte a Napoli sia con gli allenatori che con i giocatori.

L’altro aspetto fondamentale del metodo De Laurentiis è l’azienda snella. Snellissima. Per alcuni terribilmente sotto peso. Ma tremendamente efficace. Lo dimostrano i fatti. Poche persone e di assoluta fiducia. Nel cinema una di queste è stata la storica segretaria. Nel Napoli c’è la sua ombra: Andrea Chiavelli, l’uomo dei conti e dei contratti. Non è il solo. Estranei in azienda ce ne sono sempre stati pochi. Inizialmente si affidò a Pierpaolo Marino. il direttore generale che lo trascinò fuori dalle secche della Serie C e gli insegnò i primi rudimenti del calcio. Il rapporto finì nell’ormai lontanissimo 2009. Da allora le chiavi del Napoli sono sempre state saldamente nelle sue mani. Assunse Fassone che di fatto non toccò mai palla. E presto andò via. Oggi Cristiano Giuntoli e il suo staff gestiscono – benissimo – il mercato, ma tutte le decisioni, persino quella sull’acquisto di una cassa d’acqua, passano da De Laurentiis o al massimo da Chiavelli. Quindi, in ogni caso da De Laurentiis.

L’idea aziendale è quella scarna, la stessa del cinema. Produttore-regista-primattore. Si ragiona in termini di locandina, sempre. E nel calcio il regista è l’allenatore. Ne ha sbagliati pochi. Il primo, Ventura, forse per sfortuna o per destino. Certamente Donadoni. E infine Gattuso (ma per Ringhio c’è una ragione e ve la spiegheremo tra poco). Fece bingo con Mazzarri che lontano da Napoli è naufragato. Ha riportato in Serie A Benítez e Ancelotti, facendo del Napoli la seconda società nella storia del campionato ad aver assunto due tecnici campioni d’Europa per club all’estero – l’altra è stata l’Inter ai tempi di Moratti. Si inventò Sarri in una di quelle rarissime operazioni nel calcio italiano (bisogna tornare a Sacchi al Milan per un possibile paragone) comunque frutto di visione cinematografica: la versione pallonara di Rocky Balboa cui la generosa America diede l’occasione di sfidare il campione del mondo Apollo Creed. Con Sarri il successo è stato più o meno lo stesso. E infine Spalletti. Il copione è sempre lo stesso. Grandi infatuazioni. Grandi fiammate. Uomini ricoperti di elogi e di attenzioni. Promesse di amore eterno. Poi, relazioni spesso diventate tumultuose. Il gelo. L’isolamento. L’addio.

Azienda snella, dicevamo. E nessun ancoraggio ideologico. Aurelio De Laurentiis non può essere annoverato tra i grandi strateghi. Men che meno tra gli idealisti. Non si impiccherebbe mai alle proprie idee. È però un formidabile tattico, un fuoriclasse tra i tattici. Un numero uno. Annusa il vento come nessun altro e punta dritto in quella direzione. Andare controcorrente non è il suo forte. In genere non gli interessa, tranne rare eccezioni. La considera una perdita di tempo. Quando è stato con le spalle al muro e si è ritrovato – direbbe lui – con la merda fino al collo, non ha esitato a scaricare Ancelotti per Gattuso. Perché in quel momento, fu il momento peggiore del suo Napoli, si vide sul ciglio del burrone. Si spaventò. Nonostante sapesse benissimo che la colpa era sua. Aveva voluto tenere insieme capre e cavoli. Ancelotti e i calciatori dei 91 punti di Sarri, nonostante il signor Carlo gli avesse caldamente consigliato di far circolare aria nuova nello spogliatoio. La situazione finì per esplodergli in mano. Arrivò l’ammutinamento: la pagina più nera della sua gestione. Licenziò il leader calmo e si convertì immediatamente al veleno. Non sempre le strambate riescono. Quella gli andò male. Ma, attenzione, De Laurentiis (sulla cui straordinaria intelligenza è inutile dilungarsi) quella lezione l’ha fatta fruttare eccome. Tre anni dopo, ha compreso che Ancelotti tutti i torti non li aveva. E ha avviato quella rivoluzione che lo ha condotto allo scudetto. E dovrà ringraziare in eterno Insigne e Mertens che la scorsa estate rifiutarono sdegnati le sue offerte di segno decisamente opposto rispetto a quelle di Vito Corleone. Erano offerte che si potevano rifiutare (anche se a Insigne propose tre milioni di ingaggio, non proprio una sciocchezza). E per fortuna furono rifiutate.

Non è tipo che ama le rivoluzioni. Ha il passo lungo. Non ha fretta. È solo apparentemente un impulsivo. Perché lo è a parole. In realtà non lo è per niente. È un giudizioso. Medita a lungo prima di rompere un rapporto di lavoro. Ed è adottando questa politica, un passo alla volta, crescita graduale e costante, che ha portato il Napoli dov’è adesso. La sua esperienza imprenditoriale calcistica è quanto di più lontana dall’accezione del miracolo che ogni tanto fa capolino quando si parla di Napoli. San Gennaro non c’entra proprio niente.

Aurelio De Laurentiis ha fondato il Napoli Soccer nel 2004 dopo il fallimento della SSC Napoli, di cui in seguito ha riacquistato il nome storico; nel 2012 è arrivato il primo trofeo, la Coppa Italia; durante la sua presidenza, il Napoli ha conquistato per altre due volte la coppa nazionale (2014 e 2020), la Supercoppa 2014 e ora il terzo scudetto della sua storia (Filippo Monteforte/AFP via Getty Images)

Non può mancare il rapporto con tifosi, con la città. A Napoli lo hanno messo in croce e detestato per anni. Anche perché lui ha sempre detto che il calcio è business e come tale andrebbe considerato. E, si sa, ai tifosi la verità non va detta. Non c’era anima viva a Napoli che non sapesse chi fosse il pappone, suo soprannome in città da oltre un decennio. Anche quest’anno abbiamo vinto lo scudetto del bilancio era il refrain che univa le presunte élite alla tifoseria organizzata. È stato avversato (diciamo anche detestato, per non dire odiato) senza distinzioni di ceto e reddito. Ogni estate striscioni in città contro di lui. Proteste tanto ingenerose quanto endemiche. È stato un perenne muro contro muro. Ne ha sofferto. Molto. Anche se ha sempre ostentato indifferenza. E quando il rapporto è diventato ingestibile e persino preoccupante (gli avevano assegnato la scorta), è arrivata la strambata o se volete il colpo di teatro. Un mese fa, nel volgere di una sera, è passato dal metodo Thatcher – sbandierato a ogni dichiarazione – alla fotografia con gli ultras che lo hanno poi omaggiato del primo striscione in suo favore in Curva B. Ha detto pure che scherzava quando dichiarava che la pizza romana era più buona di quella napoletana. Si è proclamato vincitore del campionato dell’onestà, frase che a Napoli ti fa conquistare mille punti, guadagnandosi la tessera ad honorem dei CinqueStelle. Ora è tutto pucci pucci con la città. Quanto durerà, ovviamente, non è dato sapere. I bookmakers ci credono poco. La realtà è che nessuno dei suoi detrattori ha realmente cambiato idea. La tregua è solo frutto del balsamo dello scudetto.

Anche perché De Laurentiis non riuscirà mai a smettere i panni dell’uomo divisivo. È nella sua natura. Si diverte a portare ogni situazione al limite. A modo suo è persino ingenuo, se pensiamo alla battaglia donchisciottesca contro Uefa e Fifa (una di quelle eccezioni del pensiero controcorrente). Si possono elencare mille difetti dell’uomo, sta di fatto che è riuscito – da solo – laddove Corrado Ferlaino è arrivato col calciatore più forte di tutti i tempi, con la forza economica del Banco di Napoli e una classe politica che allora contava eccome in Italia. Perché senza quella Democrazia Cristiana, Maradona a Napoli non sarebbe mai arrivato.

De Laurentiis invece non ha potuto contare sull’appoggio di nessuno. Solo di sé stesso. Del suo fiuto per gli affari. E della sua capacità di conoscere le persone. Dicono di lui che non sappia delegare. È vero. Il Napoli è una monarchia assoluta. Ma è così che ha sconfitto i colossi del Nord. È in questo modo che il Napoli è diventato il club più solido della Serie A. Senza un euro di debito. E con una vagonata di contanti che tornano sempre utili quando ci sono da avviare trattative. Piazza sul tavolo i sacchi pieni di monete d’oro. Non si trova mai con l’acqua alla gola. Non è costretto ad alcun compromesso. Così come non c’è mai stato un ritardo che fosse uno nel pagamento degli stipendi.

Come tutti i veri leader, non lavora per la successione. Non può avere un erede, per quanto il figlio Luigi abbia dimostrato notevoli abilità nella gestione del Bari. Ma il Napoli di e con Aurelio De Laurentiis può funzionare solo così, come ogni monarchia assoluta che si rispetti. E i risultati dicono che funziona benissimo. In fin dei conti, pur essendo quanto di più lontano dall’essere comunista, De Laurentiis incarna alla perfezione il motto di Deng Xiaoping: non è importante che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che acchiappi il topo. Se non l’avesse detta Deng, sarebbe stata senz’altro una frase di De Laurentiis. È la sua fotografia.