È una dolcissima rivincita per Luciano Spalletti

Un grande allenatore considerato perdente ha vinto lo scudetto in una squadra considerata perdente. E l'ha fatto a modo suo: giubilando capitani e uomini-simbolo, costruendo un capolavoro tattico.

I matrimoni tra gli alberi sono riti ancestrali che si svolgono nel sud Italia in primavera. I celebranti tagliano dal bosco un cerro (il maggio), dritto e alto, e lo trascinano a valle, e poi fanno la stessa cosa con un agrifoglio (la cima), nel bosco opposto, e nel giorno del rito li uniscono in un solo, altissimo albero che i più temerari proveranno a scalare. Sono riti pagani legati alla fertilità, unire due fonti di vitalità in qualcosa di nuovo, più grande e forte. Quello tra Luciano Spalletti e il Napoli è stato un formidabile rituale di fertilità, un matrimonio tra due alberi che ha dato luogo a una cosmogonia, alla creazione di un mondo nuovo. Il punto è che, nell’estate del 2021, nessuno se ne era accorto.   

Con Spalletti e il Napoli sembravano unirsi solo due cattive reputazioni molto affini e fatte per incontrarsi, l’allenatore che non vince mai, e che non vinceva un trofeo da oltre dieci anni, nella città dove è impossibile vincere. I due alberi in apparenza avevano in comune soprattutto una cosa: sapevano come ci si sente ad arrivare secondi in Serie A. E invece sono arrivati primi. Da un punto di vista storico, questa sarà ricordata come la grande festa di Napoli, ma da quello calcistico è soprattutto la rivincita di Luciano Spalletti da Certaldo: quando due entità perdenti provano a ribaltare questa condizione, serve che almeno uno dei due smetta di sentirsi così, quasi per partito preso, senza aspettare o immaginare controprove. E quel compito se lo è preso, come giusto che sia, l’allenatore.   

Il gioco del calcio è un continuo esperimento pieno di conoscenza ma privo di scienza, perché non esiste un gruppo di controllo dove verificare la veridicità delle ipotesi. Qui non sapremo mai se Kim Min-jae avrebbe capito all’istante il grande calcio europeo, con un’altra guida in panchina, o se Kvaratskhelia avesse comunque, a prescindere dal mister, dentro di sé quell’impatto da supernova sulla Serie A o se in un’altra squadra avrebbe fatto più fatica. La parabola di Osimhen era destinata così presto a fare di lui un attaccante d’élite? Con quanti altri allenatori Di Lorenzo sarebbe diventato un terzino così evoluto e contemporaneo? Di sicuro, questa è una dote che a Spalletti il perdente era difficile non riconoscere, anche prima della festa del 2023: costruttore di giocatori, capace di plasmarli con la mano di uno scultore, di inventarseli. E quindi, dato che parliamo di Spalletti, andiamo subito verso l’indicibile della sua vita sportiva, la T-word. Totti. Dicono tanti, a Roma, che Spalletti ne abbia indirizzato e guastato l’addio al calcio, ma che carriera avrebbe avuto Totti senza Spalletti, quanto della sua immensità è stata dovuta alla creatività di metà anni 2000 dell’uomo che avrebbe finito col detestare? Ancora: non abbiamo un gruppo di controllo dove verificare le nostre ipotesi, possiamo solo attenerci ai fatti.  

Spalletti arriva a Napoli con un’altra reputazione preoccupante, oltre a quella di eterno secondo: Spalletti il Kingslayer, come Jamie Lannister in Game of Thrones, l’uomo che toglie il trono ai suoi capitani, Francesco Totti e Mauro Icardi. Si potrebbe fare una contro-storia dopo l’esperienza di Napoli. Ma per farla deve entrare in scena un’altra figura fondamentale di questa rivincita. Aurelio De Laurentiis ha tanti e noti difetti, ma non è uno che si nasconde dietro gli altri, né che lascia a loro il lavoro sporco. Così si è occupato personalmente di creare le condizioni perché a Napoli andassero via Ospina, Ghoulam, Koulibaly, Fabián Ruiz, Mertens e Insigne. Altro che re, in un’estate è stata spazzata via un’intera classe dirigente napoletana, i custodi dell’identità, della permanenza delle cose. Il presidente ha creato le condizioni affinché Spalletti potesse fare la sua magia più grande, che somiglia in tante cose a un esorcismo. Koulibaly, Mertens e Insigne in particolare erano l’emblema dello sconfittismo dal volto umano che imperava a Napoli dopo una stagione che nessuno nell’ambiente aveva superato, il terzo e ultimo campionato di Sarri, quello dei 91 punti, un secondo posto così doloroso da essere diventato un marchio esistenziale, l’idea che tutto sommato si potesse essere felici e amati anche senza vincere quasi niente.

Oltre alla costruzione tattica, Spalletti ha liberato Napoli da questo fantasma, plasmando la sua squadra sulla freschezza mentale dell’assenza quasi totale dai brutti ricordi felici. Ha fatto scappare il Napoli da se stesso e gli ha fatto conquistare chilometri di vantaggio dalla paura e, infatti, quando la paura è alla fine arrivata, per effetto dell’osmosi di una città ansiosa, era ormai tardi, il vantaggio era troppo ed è stato sufficiente un brutto pareggio a Udine per far esplodere Napoli. 

Da quando è diventato allenatore del Napoli, Spalletti ha accumulato 59 vittorie, 16 pareggi e 16 sconfitte in 91 partite di tutte le competizioni (Francesco Pecoraro/Getty Images)

È andata così perché Spalletti e Napoli avevano due reputazioni simili, ma anche due condizioni esistenziali diverse. Per Napoli quella 2022/23 sembrava quasi un’annata qualsiasi, qualcuno ha pensato che fosse l’inizio di una banter era, non c’erano particolari sensazioni a inizio stagione, magari solo la curiosità esotica per quei calciatori sconosciuti venuti da est. Per Spalletti invece era l’ultima occasione, l’ultima finestra di tempo nella sua vita in cui questa cosa potesse succedere. Nessuna persona della sua età aveva mai vinto la serie A. Ha vissuto come un monaco guerriero, ora labora e vinci, senza conflitti e senza le ruffianerie culturali (Benítez) o politiche (Sarri) dei suoi precedessori. Da contadino, ha arato il terreno per i suoi bellissimi semi (era comunque uno dei grandi allenatori del nostro tempo, anche senza aver vinto mai), indovinando tutte le scelte politiche, lasciando a De Laurentiis i compiti più ingrati. In fondo Spalletti è sempre stato inseguito da questa idea di essere uno poco attento ai sentimenti, un villain ingrato, ed è stato aiutato dall’avere sopra uno molto più agio in quel ruolo, il presidente cinematografaro.

Spalletti ha anche capito che, per completare l’esorcismo del senso di Napoli per la sconfitta, il capitano non doveva essere scelto per anzianità, perché in quel caso la fascia sarebbe finita al braccio di uno dei due eredi residui dell’annata maledetta, Zielinski o Mário Rui, e invece l’ha dirottata sull’anticarisma tranquillo di Giovanni Di Lorenzo. Ha pure mandato giù, riuscendo a non farne casi diplomatici o questioni personali, due contestazioni insensate, quella per il terzo posto della scorsa stagione e quella contro la campagna acquisti di quest’anno, cioè la fase uno e la fase due di uno scudetto bellissimo quanto insperato. Ha infine amministrato l’anima della città, caricando e scaricando le tensioni nei momenti corretti, come se si fosse proprio sintonizzato sul suo respiro, è stato un allenatore ansiolitico per una tifoseria che si agita facilmente e che invece sotto la sua guida ha iniziato a mettere i festoni a marzo. Napoli sembrava un campo dove niente sarebbe più cresciuto per anni, Spalletti ha vinto questo campionato perché ha capito che per rendere felice la città doveva prima renderla fertile.