Non abbiamo mai visto una squadra come questo Manchester City

Con un nuovo capolavoro tattico, Pep Guardiola ha conquistato il pass per la finale di Champions.

Esattamente un anno fa ho scritto un articolo sull’arrivo di Erling Haaland al Manchester City. Il titolo di quell’articolo era: Erling Haaland è la più grande sfida tattica nella carriera di Guardiola. Parlavo di quanto fosse difficile immaginare il centravanti norvegese dentro il sistema di Pep, dell’apparente incompatibilità tra «un giocatore fatto tutto a spigoli» e «una squadra che pratica un calcio sinuoso, stordente, un calcio fatto di pause e accerchiamenti e improvvise accelerazioni, un calcio che restituisce una sensazione di circolarità, di rotondità. L’esatto contrario degli spigoli». Ero evidentemente pessimista, pensavo che Guardiola e Haaland avrebbero vissuto un’unione sbagliata o comunque forzata, a un possibile rigetto che avrebbe fatto male a Guardiola e soprattutto a Haaland. Ecco, ora è chiaro che mi sbagliassi. Che mi sbagliassi di grosso. E non perché il Man City ha raggiunto la seconda finale di Champions League della sua storia, e non perché Haaland ha segnato 52 gol stagionali. Questo ovviamente c’entra, nel senso che ha un peso nella mia autovalutazione, ma il punto è un altro.

Mi sono accordo di aver sbagliato ieri durante Manchester City-Real Madrid 4-0, una partita in cui Haaland non ha fatto gol – perché Thibault Courtois è un portiere incredibile, ma sta di fatto che non ha fatto gol. Mi sono accordo di aver sbagliato quando la squadra di Guardiola ha dominato la gara in lungo e in largo coinvolgendo raramente Haaland nel suo armonico giro palla, ma intanto il numero 9 del City era sempre pronto ad aggredire anche solo un metro di profondità fronte porta, era sempre laddove il pallone sarebbe potuto diventare pericoloso, quindi in realtà il pericolo costante era proprio lui, con la sua fisicità debordante, la sua scaltrezza. Me ne sono accorto quando la squadra di Guardiola è rinculata con otto giocatori di movimento nella sua metà campo per chiudere ogni spazio al Real Madrid, dietro la linea della palla a volte c’erano anche Bernardo Silva e persino un giocatore considerato insolente come Jack Grealish; il City ha esercitato un pressing meraviglioso per la stragrande maggioranza del match ma poi ha anche saputo compattarsi al limite della propria area, dentro sarebbe stato troppo, ha saputo difendersi da grande squadra, ha saputo gestire con calma e maturità i pochi momenti in cui il Real è riuscito a tenere il pallone, a portarlo dentro la metà campo avversaria. Tutto questo è stato possibile perché Haaland – affiancato da De Bruyne in un 4-4-2 difensivo solo apparentemente elementare – rimaneva sempre pronto per essere innescato, per scattare come un levriero all’inseguimento della sua preda artificiale, per essere lanciato con un semplicissimo lancio lungo, e allora Alaba e/o Éder Militão non potevano alzarsi troppo sul terreno di gioco, dovevano stare sempre attenti alle marcature e alle coperture preventive.

La verità è che avevo sottovalutato Guardiola. O meglio: avevo sottovalutato il guardiolismo, l’avevo confuso con un’ideologia più chiusa e perciò più immutabile e resistente al cambiamento, pensavo che Pep non sarebbe stato capace di assorbire una rivoluzione profondissima e perciò potenzialmente pericolosa come lo switch Gabriel Jesus-Haaland. E invece il metodo scientifico sperimentale di Guardiola, basato – proprio come quello di Galileo Galilei – sull’osservazione del contesto, sulla formulazione di una teoria tattica e sulla sperimentazione sul campo da gioco, ha prodotto un’altra scoperta sensazionale.

Sì, perché il Manchester City che ha conquistato la finale di Istanbul è una squadra che non avevamo mai visto prima. Non perché sia più bella di tutte le altre squadre di Guardiola e del Liverpool di Klopp e del Real Madrid di Zidane e del Bayern di Flick, di tutte le squadre fortissime e vincenti che hanno segnato il calcio europeo negli ultimi anni, che poi in fondo il concetto di bellezza è estremamente soggettivo: il punto è che nessuna di queste squadre è mai stata altrettanto dominante giocando ad alto e a basso ritmo; nessuna di queste squadre ha mai schierato quattro centrali puri – Walker, Stones, Rúben Dias, Akanji  – in difesa e/o ha mai affidato a uno di questi quattro centrali, nella fattispecie Stones, il compito di impostare il gioco come secondo regista accanto a un colosso come Rodri; nessuna di queste squadre ha mai usato Kevin De Bruyne come tuttocampista creativo dopo averlo liberato – proprio grazie all’invenzione di Stones secondo regista – dalle impellenze in fase di costruzione. Ecco, tutto questo è stato immaginato, studiato e poi attuato proprio perché Erling Haaland potesse esprimersi al meglio delle sue doti paranormali, perché potesse inserirsi e far detonare i megatoni che ha dentro, oppure – come nel caso di Manchester City-Real Madrid 4-0 – perché potesse accentrare su di sé la pressione della difesa avversaria mentre i suoi compagni facevano tutto ciò che serviva per fare gol e per non subirne.

Una sintesi a senso unico di una partita a senso unico

Il fatto che sia stato proprio Guardiola – di nuovo Guardiola, ancora Guardiola – ad aver creato tutte queste cose nuove e il fatto che tutte queste cose nuove abbiano riportato il Manchester City in finale di Champions League rendono giustizia al metodo di Pep. All’essenza stessa del Guardiolismo, ovvero all’idea per cui essere un allenatore vuol dire cimentarsi – per ogni stagione, anzi per ogni partita – con un tentativo sempre diverso per rendere più controllabile il calcio, ovvero un gioco già fortemente influenzato dal Guardiolismo stesso. Il timore era che questa ossessione parossistica di Pep, la sua volontà utopica di governare uno sport che di per sé non è governabile, si sarebbe potuta scontrare con le inevitabili scariche elettriche causate dall’arrivo di Haaland. E fino a qualche ora fa c’era ancora qualche dubbio in merito, qualcuno pensava che Pep potesse ancora inventarsi una nuova-nuova soluzione che a questo punto sarebbe stata quasi certamente eccessiva, quindi dannifica, per provare a saltare l’ultimo ostacolo prima della finale di Istanbul. In fondo era già successo diverse volte, in passato. Inoltre c’era da sconfiggere il Real Madrid, un avversario che evocava i fantasmi dello scorso anno e che ha dei campioni e un approccio e un passato a dir poco distanti da quelli del City.

E invece il Manchester City ha approcciato e comandato e chiuso la sfida di ritorno in modo netto, brutale, ha travolto gli avversari con la sicurezza tecnica e la sofisticatezza strategica e l’equilibrio emotivo che appartengono soltanto alle squadre costruite benissimo, allenate ancora meglio e consapevoli della propria forza. Non era facile pensare che il City di Guardiola potesse essere già così forte e così maturo quando è passato solo un anno dall’inizio di una rivoluzione. Era ancora più difficile immaginare che Pep potesse creare un nuovo capolavoro tattico partendo dall’arrivo di un centravanti che sembrava agli antipodi della sua filosofia. Per alcuni questo successo ha già lo stesso valore di una vittoria in Champions League, perché vuol dire che il calcio – di Guardiola e non solo – ha conosciuto un nuovo step evolutivo. Per tutti gli altri, l’appuntamento è tra ventitré giorni a Istanbul: Pep proverà ad accontentare anche loro, ovviamente dopo aver accontentato il Manchester City e se stesso.