Il Manchester City e Guardiola hanno trasformato la Premier nel loro parco giochi

L'Arsenal ha ceduto alla forza, alla consapevolezza, alla crudeltà della squadra di Pep. Ma ora la vera domanda è: questa egemonia fa bene al campionato più ricco, glamour e amato al mondo?

Un’ora dopo il fischio finale di Manchester City-Real Madrid 4-0, Jonathan Liew pubblica sul Guardian un articolo in cui la partita capolavoro della squadra di Pep Guardiola viene raccontata con occhio critico, o meglio viene filtrata attraverso la lente dello «sport come terra bruciata». Nelle parole di Liew, la superiorità del City – netta, evidente, a tratti persino desolante – diventa l’espressione di una «campagna militare finemente eseguita, la perfezione della ricchezza illimitata, la perfezione della forza politica». Al punto che, secondo Liew, la stessa gioia dei tifosi dei Citizens potrebbe e dovrebbe essere percepita da tutti gli altri con una sorta di blanda indifferenza, come se l’inevitabilità di questo trionfo avesse avuto l’effetto di anestetizzare tutte le emozioni – positive e negative – connesse al fascino delle serate di coppa di fine maggio. 

Tutto ciò, però, sembra non poter appartenere a questa versione del Manchester City, nato dalle ceneri lasciate dallo shock di 12 mesi fa al Bernabéu e vissuto tanto a lungo da diventare il cattivo, per citare il Due Facce di Cristopher Nolan: la squadra di Guardiola lascia terra bruciata intorno a sé, preoccupandosi inoltre di spargere abbondante sale sulle rovine. Sulle rovine del Real Madrid e di chiunque abbia osato opporsi al suo passaggio, passando di partita in partita – anzi: di vittoria in vittoria – come in una gigantesca partita di Risiko in cui si ha il pieno controllo dei dadi. Addirittura a un certo punto Liew si trova quasi costretto a citare un passaggio di Ozymandias, sonetto del poeta britannico Percy Bysshe Shelley scritto nel 1817: «Guarda le mie opere, o potente, e disperati pure! Nulla rimane alle mie spalle». 

Questa visione nichilista si rivela particolarmente adatta anche per spiegare le sensazioni legate alla vittoria del City in Premier League, la terza consecutiva, la quinta nelle ultime sette stagioni. Proprio questi dati ci dicono che in realtà la competizione nel campionato inglese non è realmente tale, anche quest’anno non lo è stata fino in fondo, o comunque non nei modi e nei tempi che ci aspettavamo e che ci stavamo raccontando. Tanto più che la nascente rivalità con l’Arsenal di Mikel Arteta sembrava potesse essere il preludio a qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, qualcosa di davvero interessante anche dal punto di vista narrativo, soprattutto se pensiamo a un campionato che è ormai un vero e proprio brand, un intrattenimento lungo una stagione che assomiglia sempre più a una serie Netflix che a una competizione sportiva vera e propria. 

Per questo, nei giorni e nelle settimane che hanno preceduto lo scontro diretto a Etihad, vinto dal City per 4-1, il pensiero comune era allineato sulla necessità di una vittoria dei Gunners anche per questione legate al marketing, alla visibilità e alla vendibilità del prodotto Premier League: Gary Neville, ai microfoni di Sky Sports UK, aveva ammesso che «per il nostro campionato sarebbe molto meglio che vincesse l’Arsenal. Il City ha già vinto quattro volte negli ultimi cinque anni e un nuovo successo sarebbe la negazione di ciò che noi tutti pensiamo di questo campionato, e cioè che possano vincerlo anche quelle squadre che non sono date per favorite all’inizio della stagione. La vittoria dell’Arsenal farebbe capire a tutti cosa davvero ci piace della Premier League, cioè l’idea che tutti possano vincere contro tutti. Anche se negli ultimi anni non è stato esattamente così». 

E invece a distruggere quest’idea di NBA del calcio – NBA che, tra l’altro, sta vivendo i playoff più incerti e appassionanti degli ultimi cinque anni – ci hanno pensato Pep Guardiola e la sua squadra: il dominio del City ha un unico precedente che risale ai primissimi anni della Premier League, quando il Manchester United di Alex Ferguson vinse otto delle prime dodici stagioni del nuovo campionato inglese a cavallo tra i Novanta e i Duemila. Non a caso, nel dicembre 2021, Zak Garner-Purkis scrisse su Forbes che proprio Guardiola doveva essere considerato l’unico erede legittimo del leggendario Sir Alex per via della sua capacità di condensare in un lasso di tempo relativamente breve quei cambiamenti e quelle innovazioni che il manager scozzese ha impiegato quasi tre decadi ad attuare. Quasi come se la vorticosità e l’immediatezza di questa rivoluzione culturale e filosofica non fossero altro che un segno evidente del tempo che passa, la testimonianza di come Guardiola sia il tecnico perfetto, o comunque il più adatto, alle sfide e agli stimoli della nostra epoca, il protagonista principale di un’era storica che richiede aggiornamenti e adattamenti continui e che brucia tutto a una velocità tale per cui la novità di oggi è destinata immediatamente a diventare il “già fatto, già visto” di domani.   

Eppure, nel modo in cui il City ha vinto – anzi: ha cannibalizzato la competizione calcistica più ricca, più vista, più seguita e più raccontata dell’era moderna – al  pari con la Champions League, ovviamente – ci sono elementi vecchi e nuovi, l’omaggio alla tradizione e all’innovazione, non tanto e non solo dal punto di vista tattico, ma soprattutto per ciò che riguarda gli aspetti emotivi e psicologici. L’elemento ricorrente è quello numerico, il dato relativo alle vittorie e ai punti in ossequio alla vecchia teoria guardiolista per cui un campionato «si vince nelle ultime otto partite ma non va perso nelle prime otto»: in questa ideale forbice spazio-temporale di 16 gare, il City ne ha vinte 14 pareggiando le restanti due e restando in scia ad un Arsenal da 21 punti su 24 tra agosto e settembre, prima di piazzare l’affondo decisivo a partire dalla seconda metà di marzo; la novità è invece rappresentata dal senso di dominio sconnesso dal mero elemento statistico, da una distanza che non corrisponde necessariamente a una forbice più o meno ampia di punti tra le squadre, da una competitività complessiva che è stata progressivamente azzerata, da una superiorità che è stata prima gestita – quasi nascosta – e poi sprigionata in tutta la sua straripante evidenza. 

Da quando allena squadre di prima divisione, cioè dall’estate 2008, Pep Guardiola ha vinto 11 dei 14 campionati a cui ha preso parte: tre con il Barcellona, tre con il Bayern Monaco e cinque con il Manchester City (Michael Regan/Getty Images)

Come il diavolo di Baudelaire citato anche da Roger “Verbal” Kint/Kevin Spacey ne I Soliti Sospetti, il cui più grande inganno consiste «nel far credere al mondo che lui non esiste», Guardiola ci ha fatto credere che in questa stagione potesse esserci davvero una sfida, che tutto potesse essere realmente incerto fino all’ultimo, salvo poi ridurre la vittoria a una questione di quando, e non più di se. In pratica Pep e la sua squadra hanno trasformato la Premier League nel loro parco giochi privato, in un laboratorio tattico intimo e personale in cui sperimentare in tutta tranquillità in vista delle sfide che possano interessargli davvero, perché sono le uniche a essere davvero incerte

In relazione a questo punto, è impossibile non pensare istintivamente al 4-1 di Etihad del 26 aprile come il turning point definitivo, al momento in cui era tutto già accaduto: in realtà quella è stata una “non partita” in cui l’Arsenal si è quasi consegnato al suo destino con il sollievo tipico di chi sa che la sofferenza – di dover competere contro una simile macchina da guerra, molto meno gioiosa rispetto al recente passato – sta finalmente per finire. Il momento chiave, invece, è da ricercarsi nei 90 minuti dell’Emirates a metà febbraio, quando Guardiola e il City hanno svelato il loro vero volto, oltre che i dettagli del piano malvagio per la conquista della Premier. Basta guardare la partita stessa per rendersene conto: per venti minuti non succede granché, poi Tomiyasu commette un errore in disimpegno senza essere pressato da nessuno, “apparecchiando” il pallonetto irridente di Kevin De Bruyne; l’Arsenal pareggia su rigore in chiusura di tempo e comincia la ripresa con rinnovato vigore, si fa addirittura preferire per intensità, qualità del palleggio, ricerca della verticalità, poi però a un quarto d’ora dalla fine Jack Grealish comincia quello che Haaland dieci minuti dopo finisce. Uno sfacciato, prolungato, logorante gioco del gatto con il topo, che si è protratto per altri due mesi fino a quando i giovani Gunners non ne hanno potuto semplicemente più, arrendendosi a quell’idea di invincibilità che i rivali avevano instillato nelle loro menti prima ancora che in campo: «Qualcuno che lavora nell’Arsenal mi ha detto che per tutta la stagione i ragazzi sono rimasti concentrati solo e unicamente su loro stessi, su ciò che dovevano fare, sul loro gioco. Dopo aver pareggiato con il Liverpool e aver fatto avvicinare il City, per la prima volta questa persona ha sentito i giocatori iniziare a parlare di quanto il City giochi bene e di quanto sia forte», ha raccontato recentemente Michail Antonio del West Ham in un podcast. 

Anche questo è un discorso che dal particolare può essere esteso al generale. Quella di Guardiola è stata un’opera di demolizione certosina e progressiva, pensata e portata avanti nel tempo con la risolutezza del tiranno gentile dal volto simpatico e dalla dialettica suadente che non vuole che gli altri si accorgano di ciò che sta accadendo. Una specie di “golpe bianco” in cui, uno dopo l’altro, sono caduti tutti, avversari vecchi e nuovi: il Liverpool di Klopp portato al limite fino all’implosione, lo United dei quattro allenatori cambiati in sei anni ritrovatosi improvvisamente nei panni di quelli che Ferguson definiva «cugini rumorosi», il Chelsea e il Tottenham che non sono stati mai abbastanza, lo stesso Arsenal che solo ora sta imparando cosa significhi essere la prima rivale di una squadra così. E mentre tutti noi continuavamo a raccontarci di quanto fosse bella, appassionante e competitiva la Premier League, Guardiola e il City si adoperavano affinché per loro fosse esattamente il contrario, riuscendoci. Per di più sorridendo e complimentandosi con tutti quelli che stavano brutalizzando senza pietà, e non per forza nelle ultime otto partite ma molto prima. 

Due settimane fa, nella conferenza stampa alla vigilia della trasferta di Craven Cottage contro il Fulham, al tecnico catalano è stato chiesto se puntasse al record assoluto di 13 Premier League vinte. La sua risposta è stata chiara: «L’ho detto tante volte, la cosa più importante è essere lì, ancora in corsa alla fine della stagione, poi se il non vincere uno, due o tutti e tre i titoli viene considerato un fallimento non importa. Oggi è ancora lì che siamo: finale di FA Cup e con il campionato che è ancora nelle nostre mani. E se faremo quello che abbiamo fatto negli ultimi tre o quattro mesi saremo ancora più vicini a compiere un’impresa eccezionale: vincere un’altra Premier League. Dipende solo da noi». Appunto.