Paolo Maldini, le bandiere valgono ancora

Il calcio dei numeri non può prescindere da un valore impalpabile come l’heritage. Quanto rischia il Milan a privarsi di un simbolo come Maldini?

Una delle scene madri della rinascita del Milan post-Covid, che è poi il Milan post-Banter Era, risale a una sera del primo giugno 2021, nella piazza del Portello, davanti alla sede societaria. Sono belle serate, quelle di fine maggio a Milano, forse le più belle dell’anno: la luce indugia nel cielo fino alle nove, l’aria è fresca e profuma delle fioriture delle siepi nei giardini. Una rappresentanza della Curva Sud e dei Milan club italiani si è ritrovata quindi all’ingresso di Casa Milan, era un modo di ringraziare la società per un ritorno in Champions League che mancava da sette anni. Si può pensare quello che si vuole dei rapporti tra tifoserie organizzate e società di calcio, dei faccia a faccia e dei rapporti di amicizia, veri o di convenienza che siano: ma questo è il principale retaggio delle origini del calcio europeo, che è un calcio di popolo, prima di tutto. Quindi, torno in quella piazza: in cima alle scale compare Paolo Maldini, direttore sportivo del Milan da poche stagioni appena. Ha la camicia bianca, le maniche della camicia arrotolate. Dice agli ultras di sotto: «Questo è solamente l’inizio. È un traguardo ma è un punto di partenza, non un punto di arrivo. Ci sono stati momenti difficili e ce ne saranno ancora. Li abbiamo affrontati nella giusta maniera. Siamo il Milan, dobbiamo essere protagonisti». Poi quelle centinaia di tifosi iniziano a cantare il coro più famoso della Curva sud. Maldini rimane a guardarli, dall’alto in basso. Applaude. Tutti applaudono. Paolo Maldini si gira, se ne va.

Per i tifosi del Milan, quella serata di giugno ha un significato importante: Maldini, forse la più grande bandiera nella storia della squadra, forse il più forte giocatore ad aver mai vestito quella maglia, si era lasciato male con una parte della tifoseria organizzata. Se lo ricordano tutti, era stata una notizia da prime pagine: il giro di campo all’ultima partita, dopo 902 presenze in rossonero, era stato disturbato da alcuni fischi, da uno striscione che diceva: «Grazie capitano: sul campo campione infinito ma hai mancato di rispetto a chi ti ha arricchito». Questioni di rispetto, beghine di onore. Da qui l’importanza del 1 giugno 2021: Paolo Maldini, quella sera, è stato di nuovo riconosciuto come leader della comunità milanista, in campo e nel mondo.

Sono convinto che il gioco del calcio, e tutte le cose che ci girano intorno, si possano spiegare razionalmente soltanto fino a un certo punto. Che una società calcistica sia un’azienda soltanto fino a un certo punto. Che anche dentro il campo, i numeri, la statistica, la preparazione tattica all’avversario non bastino mai del tutto. È presente, nel calcio, un costante elemento metafisico ed emozionale impossibile da essere quantificato: possiamo chiamarlo carisma, possiamo chiamarla influenza, possiamo chiamarla aura. In questo caso specifico possiamo chiamarlo milanismo, e Paolo Maldini ne è il rappresentante principale, da quarant’anni circa, su questa Terra.

Il licenziamento di Paolo Maldini dalla carica di Direttore dell’area tecnica del Milan, due anni dopo quell’incoronazione popolare, risponde a una necessità, dicono i giornali nelle prime ore dopo il fatto: quello di trasformare il mercato dei rossoneri in un algoritmo alla Moneyball. Del sistema Moneyball si parla da una decina d’anni, più o meno quando uscì il film di Bennett Miller, a sua volta tratto da un libro del 2003: è un sistema di mercato fatto di statistiche e calcoli matematici che, negli Stati Uniti, portarono una piccola squadra di baseball a giocarsi il campionato con squadre molto più attrezzate. Questa squadra erano gli Athletics di Oakland, il loro General manager si chiamava Billy Beane, il deus ex machina invece Peter Brand, un giovanissimo economista fresco di Yale. Di volta in volta, nel mondo del calcio, diverse squadre sono state accostate alla filosofia Moneyball: forse la più famosa è il Midtjylland, campione di Danimarca nel 2015, 2018 e 2020; c’è poi il Brentford con la sua xG Philosophy; in parte anche il Tolosa, altro club di proprietà di RedBird Capital, partito dalla League 2 fino a vincere la Coppa di Francia, oggi stabilmente, tuttavia, nel purgatorio della Ligue 1.

Nelle chat e su Twitter, per ora, la separazione si commenta con retroscena più o meno credibili. La cosa invece più incredibile, nel senso di difficile da accettare, è che il rapporto tra la proprietà e la più grande leggenda vivente del club si fosse deteriorato a tal punto da rendere il licenziamento l’unica soluzione possibile. Non dovrebbero, dopotutto, volere tutti la stessa cosa? «Siamo il Milan, dobbiamo essere protagonisti», aveva detto Maldini in quel giugno 2021. Era poi passato un anno, l’anno dello scudetto. Sogno realizzato. Ma il rinnovo tardava ad arrivare, Maldini era andato in scadenza. Lui aveva detto, alla Gazzetta: «Io non sono la persona giusta per fare un progetto che non ha un’idea vincente». Sottinteso: di Moneyball a Paolo Maldini non interessa. Paolo Maldini vuole vincere le Champions League, perché lui l’ha vinta e sa cosa significa.

Da giocatore, Paolo Maldini ha vinto la Coppa dei Campioni/Champions League per cinque volte: 1989, 1990, 1994, 2003 e 2007. Nelle ultime due edizioni vinte, era il capitano del Milan (Alex Livesey/Getty Images)

I difensori del nuovo calcio algoritmico (sabermetrica, si chiama) diranno che ci vogliono nuove idee, plusvalenze (quelle legali), spese ridotte, Expected cose, mercati esteri, diritti televisivi e magliette da vendere in Nigeria, Kenya e così via, la miniera d’oro della Premier League. Che le Champions League sono cose importanti, sì, ma non c’è mica solo quello, ormai. «Ormai» è una parola chiave. In due diverse visioni del calcio e dell’ambizione si nasconde, nemmeno troppo, una diversa interpretazione dell’epoca. Di cos’è veramente importante. In un certo calcio, vincere non è l’unica cosa che conta: i trofei sono uno strumento, l’obiettivo è l’espansione finanziaria costante. Non solo calciomercato, ma nuovi mercati. I nuovi stadi di proprietà non servono soltanto a guadagnare con i biglietti, ma a giocare con l’immobiliare. Le mani delle società di calcio del futuro sono sulle città.

Eppure è un errore, penso, cadere nella trappola del romanticismo contro il progresso-a-tutti-i-costi. Paolo Maldini, e quelli come lui, non sono semplicemente come il Lord Darlingron di Quel che resta del giorno, ultimi rappresentanti di un’epoca al tramonto (alla morte di Darlington, guarda un po’, la sua enorme magione verrà comprata dal ricco americano Jack Lewis). Il 7 giugno 2023, il giorno dopo il licenziamento, è uscito il Brand Finance Football 50, il rapporto sui brand calcistici più prestigiosi del mondo. E qual è il club più in crescita di tutti, con un aumento del valore del 33%? Il Milan di Paolo Maldini, esatto: «Il brand value del Milan», si legge nel rapporto, «è cresciuto grazie a royalties e sponsorizzazioni, accumulando 20 milioni di euro nel 2022. AC Milan ha anche una delle più fedeli e ampie fanbase del mondo, il che si riflette nella valutazione AAA- di forza del brand».

Nella costruzione di un brand ben funzionante, in termini contemporanei, una casella da riempire, fondamentale, è quella dell’heritage. Con heritage si intende quel patrimonio storico e valoriale di ogni azienda, spesso impalpabile, talvolta aneddotico: è un mix di storia, etica, simboli, longevità. È la cosa più difficile da costruire: perché l’heritage non si inventa, si eredita. La pazienza è una condizione necessaria. Le bandiere assolvono a questo compito. Il Milan aveva in casa il diamante più prezioso per coprire la casella dell’heritage. Quello che è stato Cruijff per l’Ajax e il Barcellona, Maradona per il Napoli, Eusébio per il Benfica, Totti per la Roma. Con la differenza che Paolo Maldini aveva anche una competenza evidente. Per capire quale, basta leggere alcune dichiarazioni di quattro tra i migliori giocatori (e anche “most valuable” in termini economici, per stare sempre nei parametri) del Milan di oggi. «Quando Maldini ti chiama, non puoi dire di no», diceva il giovane Rafael Leão lasciando il Lille. «È stato un onore essere stato chiamato da Maldini. Non ci ho messo molto a decidere», per Theo Hernández. «Ho scelto il Milan dopo aver parlato con Maldini», spiegava Mike Maignan. «Quando il Milan non era competitivo, a parer mio, c’era una persona che mancava dal club: Paolo Maldini», raccontava Olivier Giroud.

Un enorme e banale “vediamo” è la naturale e temporanea conclusione di tutte queste riflessioni. Una certezza c’è: il patrimonio passionale del calcio europeo non è un retaggio del passato. Le bandiere contano, anche economicamente, perché sono asset naturali come i diamanti. Il Milan di Maldini era una storia di fiducia e amore ritrovato. Il Milan post-bandiere non dovrà sbagliare un passo.