Pep Guardiola ha sconfitto tutti i suoi fantasmi

La vittoria in Champions League chiude tutti i cerchi e, forse, anche tutte le discussioni sul tecnico catalano.

In tanti, su tutti i social network, hanno scritto che Pep Guardiola sembrava più sollevato che contento di aver vinto la sua terza Champions League, di aver completato il secondo Triplete – in questo caso sarebbe più giusto dire Treble, ma va bene lo stesso – della carriera, primo allenatore di sempre capace di compiere un’impresa del genere. Può sembrare un’esagerazione, non lo è. È stato lo stesso Guardiola a confermarlo nelle interviste del postpartita, subito dopo la finale, quando ha detto di essere «stanco, calmo, soddisfatto» di com’era andata la serata. Non può – non deve – sfuggire la scelta delle parole, tantomeno l’ordine con cui le ha usate per raccontare come si sentiva: prima stanco, poi calmo, infine soddisfatto. Soddisfatto, non felice. Certo, nelle sua frasi c’era la solita componente retorica e di paladino della giustizia, infatti poi ha aggiunto che «ora i giocatori devono andare con le Nazionali e la Premier League è finita da pochissimo tempo, così è troppo», ma era evidente che a parlare fosse un tecnico davvero provato, davvero sfinito, perché era stato divorato dal nervosismo e poi, finalmente, era tornato a essere in pari con se stesso e con il mondo. In pari, non in pace.

La realtà è che Pep Guardiola non può essere davvero in pace con il mondo, semplicemente perché non è mai in pace con se stesso. Ovviamente non stiamo parlando dell’uomo, piuttosto dell’allenatore, del tattico, del teorico del gioco, dell’infaticabile lavoratore di campo. Le leggende sulla sua maniacalità, sul suo disturbo ossessivo-compulsivo relativo al calcio, si tramandano e lo inseguono fin da quando ha avviato la sua carriera in panchina. E lo definiscono nelle sue vittorie, nei suoi trionfi, ancora di più che nelle sconfitte. Subito dopo la fine della partita contro l’Inter, per dire, The Athletic ha pubblicato un lungo articolo in cui si racconta come molti giocatori del Manchester City, dopo la sconfitta di due anni fa nella finale di Champions contro il Chelsea, avessero manifestato la volontà di lasciare il club, dato che «erano saturi, si sentivano estenuati dai metodi di Guardiola». Due anni dopo, cioè oggi, «molti di quei calciatori sono ancora lì. Perché Pep è sicuramente esigente, molto esigente, a volte troppo esigente. Ma alla fine chi si allena con lui è cosciente che questo suo atteggiamento li avvicina al successo».

Nella nostra testa ci piace pensare che i giocatori e gli allenatori soffrano le pressioni che facciamo su di loro in quanto media, in quanto tifosi, pure in quanto detrattori. Certo, in alcuni casi può essere vero, ma spesso è solo un modo che usiamo per accreditarci, per dare peso e consistenza alla nostra presenza nel mondo del calcio, come commentatori o anche come semplici appassionati. Nel caso specifico, è doveroso sottolineare come Guardiola non fosse e non sia stanco di tutte quelle dissertazioni sul fatto che non avesse vinto la Champions lontano dal Barcellona, senza Messi, senza Xavi, senza Iniesta, che non ce l’avesse fatta anche se allenava un Bayern fortissimo, che non ci fosse riuscito pur occupando la panchina di un Manchester City costruito con investimenti giganteschi, che le ripetute sconfitte nelle gare internazionali erano colpa sua, del suo overthinking, della sua presunzione.

La verità è che Guardiola era ed è stanco per via di tutto quello che abbiamo raccontato finora, perché per anni ha cercato di inventare il sistema per vincere anche la Champions e non solo la Premier League, perché per anni ha immaginato e inseguito l’innovazione calcistica più raffinata, il meccanismo mai visto prima, l’incastro tattico più sofisticato. Non si è mai risparmiato, non si è mai fermato, neppure per una partita, neppure per un intervallo tra primo e secondo tempo, un momento che per lui va trascorso a tracciare linee su una lavagna in plexiglass, o in metallo, proprio perché è necessario continuare a lavorare sulla tattica. A volte ha esagerato, a volte è stato esagerato, questo è sicuramente vero. Ma il Guardiolismo va preso e accettato per quello che era, per quello che è, vale a dire un avamposto culturale – prima ancora che tattico – per cui un allenatore ha la missione di vincere partite e trofei, questo è ovvio, ma soprattutto ha il dovere di farlo cercando di rendere più bello e più moderno il calcio. Un gioco che, per altro, risente già dell’influenza storica esercitata dal Guardiolismo.

Con la vittoria colta a Istanbul, dunque, Pep Guardiola ha chiuso tutti i suoi cerchi, ha sconfitto tutti i suoi fantasmi. Perché ha conquistato il trofeo più ambito dopo dodici anni e l’ha fatto a modo suo, ovvero assemblando e guidando un Manchester City completamente diverso rispetto a quello di un anno fa, di due anni fa, di cinque anni fa: non è stata solo la presenza di Haaland a fare la differenza, la squadra che ha battuto tutte le avversarie affrontate in Europa – Siviglia, Borussia Dortmund, Copenaghen, Lipsia, Bayern Monaco, Real Madrid e Inter – è stata disposta e ha giocato in un modo mai visto prima, con tre difensori centrali puri in fase di costruzione, un quarto centrale (Stones) che si muove a tutto campo come regista e centrocampista aggiunto, due esterni a piede invertito (Grealish e Bernardo Silva), due mezzali che godono assoluta libertà di movimento (De Bruyne e Gündogan), un centravanti coinvolto pochissimo nel fraseggio eppure in grado di segnare 52 gol in 53 partite di tutte le competizioni (ovviamente Haaland).

Da quando è diventato allenatore, nell’estate 2007, Pep Guardiola ha vinto 36 trofei. Con il Manchester City ora è a quota 14 in sette stagioni (Michael Regan/Getty Images)

Questo nuovo modello è stato perfezionato nel corso dell’anno e non è stato alterato per la finale, al netto delle rinunce forzate a Walker e De Bruyne, e anche questo è un segnale chiaro, inequivocabile: esattamente come avvenne con il Barcellona del Triplete e con quello – ancora più visionario e dominante – campione d’Europa del 2011, Pep ha trovato la sua strada, la strada che a un certo punto ha ritenuto giusta, e non l’ha più cambiata. Si è sentito forte, sicuro del nuovo assetto disegnato per il Manchester City. Fino al punto di sacrificare – senza troppi complimenti, per altro – due calciatori che, prima di dar vita a questa rivoluzione, guardava con gli occhi pieni di luce: João Cancelo, ceduto a gennaio al Bayern Monaco, e Phil Foden, un po’ emarginato dalla squadra titolare nella seconda parte di questa stagione.

Insomma, Guardiola ha insistito e persistito, ha continuato a lavorare con e su una squadra costruita grazie a un budget faraonico, questo è evidente (secondo i dati Transfermarkt, negli ultimi 15 anni il City ha investito 1,45 miliardi di euro sul mercato), ma anche attuando un modello chiaro e inderogabile, quello per cui vanno presi i migliori talenti da valorizzare nel tempo, non dei campioni già affermati; non a caso, viene da dire, soltanto due dei giocatori acquistati dall’arrivo di Pep nel 2016, vale a dire Claudio Bravo e Danilo, avevano già vinto la Champions League. Tutti gli altri, da Haaland in giù, erano dei potenziali fenomeni però ancora tutti da rifinire, da smaliziare. E forse Guardiola si riferiva a questo ogni volta che parlava di «tradizione ed esperienza europea» che mancavano alla sua squadra, al suo club. Ecco, anche questo è un cerchio che si chiude: Pep ha dimostrato come il lavoro sul campo possa portare alla nascita di una legacy, come dicono i commentatori di sport americani, cioè all’istituzione di una nobiltà e di una mentalità davvero vincenti, anche ai livelli più alti, fino al trionfo in Champions League. Un trionfo che, di fatto, valica quei limiti che lo stesso Guardiola, con le sue parole, aveva imposto al Manchester City nel corso degli anni.

E poi ci sono gli altri, ci siamo noi, e anche in quel senso Guardiola ha riportato tutto a casa. Come? Ha vinto la sua prima Champions League lontano da Messi, da Xavi, da Iniesta, dal Camp Nou, dall’Avenida Diagonál, dal Porto Olimpico, dalle espardeñas catalane, uno dei piatti preferiti da Pep, un frutto di mare dalla forma allungata, e così ha cancellato ogni dibattito sul suo conto, sul suo palmarés incompleto, sulla sua presunta difficoltà a staccarsi da un certo tipo di calciatori, di gioco, persino di ambiente. E poi questo successo è arrivato al termine di una finale sporca, di una partita che il City non ha dominato in modo netto, anzi la squadra campione d’Inghilterra è stata anche fortunata dopo aver trovato il vantaggio, l’Inter è andata una, due, tre volte vicino a un pareggio che avrebbe indubbiamente meritato, negli ultimi minuti i nerazzurri hanno costretto i loro avversari a perdere tempo, a raggomitolarsi nella propria area di rigore, a fare un possesso sostanzialmente conservativo.

Guardando tutto questo da un’altra prospettiva, si può dire che Guardiola abbia smentito ancora, una volta di più, i suoi detrattori: il suo Manchester City è riuscito a vincere la partita più importante senza brillare davvero, il suo talento e il suo sistema hanno funzionato solo in parte, solo a sprazzi, eppure è bastato. Quando succedono cose del genere, vuol dire che siamo di fronte a una squadra matura, pronta anche a soffrire pur di vincere. Quindi siamo di fronte al lavoro compiuto da un grande allenatore, da un tecnico che a questo punto è davvero impossibile da criticare, visto che da quindici anni vince ininterrottamente, vince dovunque, vince qualsiasi cosa – ora si può dire – e continua pure a cambiare il gioco del calcio, come se fosse l’unica cosa che possa farlo sentire in pari con se stesso.