Pep Guardiola e l’invenzione del centrocampo perfetto

Rodri e Stones, Gündogan e De Bruyne: su questi quattro calciatori è stata fondata la squadra che ha finalmente vinto la Champions League.

«La mia idea di calcio è sempre la stessa, qui al City così come al Barcellona o al Bayern: fare una buona uscita palla, pressione alta, avere un uomo in più in mezzo al campo», ha detto Pep Guardiola a Sky Sport pochi minuti dopo aver vinto la terza Champions League della carriera. Fa strano pensare che un alchimista del gioco come Guardiola, un tecnico ossessionato dalla necessità di dover dettare la linea evolutiva di uno sport in perenne cambiamento anche a causa sua, sia riuscito – anzi: abbia voluto – racchiudere quasi quindici anni della sua carriera di allenatore nella nutshell di una singola dichiarazione. Pochi istanti dopo, sempre parlando a Sky Sport, Pep ha aggiunto che «in mezzo al campo oggi abbiamo faticato». È di nuovo parlando di ciò che non è andato a centrocampo, sempre a centrocampo, che Guardiola ha analizzato la malmostosità dei 90’ contro l’Inter di Simone Inzaghi.

Può essere difficile accettare che una spiegazione così semplicistica e – teoricamente – alla portata di tutti, per di più in calce alla partita più importante della stagione, se non della carriera, provenga da Guardiola, un uomo che è entrato nella leggenda come studioso e fautore di una vera e propria utopia: quella del controllo totale su uno sport caratterizzato dalla fortissima componente episodica. Solo che Pep, dopo la finale, aveva evidentemente switchato la sua comunicazione sulla frequenza minore, populista e fatalista. Il punto, però, è che aveva ragione, ha avuto ragione, come succede spesso. Perché in quella che può essere inserita tra le peggiori partite dei Citizens dalla finale del 2021 persa contro il Chelsea, in una gara in cui è sembrato che il Manchester City abbia perso nonostante abbia vinto, ciò che non ha funzionato è stato proprio il centrocampo. Vale a dire la zona in cui il tecnico catalano ha costruito la parte più vistosa e celebrata dei suoi numerosi successi.

Il centrocampo di Guardiola, in effetti, è diventato negli anni una categoria narrativa a parte, l’elemento identificativo di un’eccellenza sempre nuova, il filo rosso che tiene assieme tre epoche calcistiche differenti, ma soprattutto tre squadre, tre culture, tre approcci filosofici, tre cattedrali edificate partendo da una base comune ma utilizzando materiali – quindi giocatori – diversissimi tra loro. Non a caso, in questo thread su Twitter,  Emanuele Mongiardo ha ripreso un concetto che Jonathan Wilson esprimeva già dal 2020, quando raccontava come il confronto quotidiano con il Liverpool di Jurgen Klopp avesse spinto Guardiola a optare per una svolta fisica del suo sistema. Sulla stessa linea è nata la mossa tattica chiave di questa stagione, che ovviamente ha riguardato il centrocampo: l’avanzamento di Stones sulla stessa linea di Rodri nel 3-2-3-2. Questa mossa è passata attraverso il sacrificio totale di Cancelo e quello parziale di Foden, ma in questo modo Pep è riuscito a esaltare la dimensione creativa di Grealish e Bernardo Silva oltre che le qualità realizzative di Gündogan, autore della seconda miglior stagione della carriera per reti segnate – undici, di cui otto in Premier League e due nella finale di FA Cup contro lo United.

Niente male la stagione di Gündogan

Dal monolitico trio Xavi-Busquets-Iniesta di Barcellona fino al quadrilatero fluido Stones-Rodri-De Bruyne-Gündogan di Manchester, passando per il Lahm che diventa pivote e cambia l’essenza del centrocampo del Bayern, le sperimentazioni e le contaminazioni sono state tante, influenti e anche spettacolari. Eppure tutto si è sempre incardinato sulla necessità di deformare la dimensione spazio-tempo della gara dominando i 60 metri compresi tra la trequarti difensiva e quella offensiva. In questo senso il centrocampo del City è probabilmente lo stadio finale dell’evoluzione, l’espressione più moderna e brutale di un’idea ancestrale che proviene dal suo personale iperuranio, ovvero quella di riuscire a costruire e schierare una squadra composta da undici centrocampisti in grado di mantenere il 100% di possesso palla per tutti i 90 minuti di una partita: «Avere il pallone tra i piedi è il miglior modo per difendersi, e chi gioca per me deve saper gestire pallone in tutte le situazioni, anche in quelle più complesse e difficili. Nel corso della mia carriera ho giocato con tanti grandi centrocampisti e altrettanti ne ho allenati, e la sensazione che ne ho ricavato è sempre la stessa, e cioè che in campo c’è bisogno di loro più di chiunque altro», disse Pep nell’aprile del 2021 a chi gli chiedeva perché, nella semifinale d’andata di Champions League contro il Paris Saint-Germain, avesse schierato una formazione priva di qualsiasi attaccante di ruolo e con ben cinque centrocampisti su dieci giocatori di movimento – diventati poi sei con l’ingresso di Zinchenko al posto di Cancelo. Quella partita fini 2-1 per il City e convinse Guardiola a rinunciare praticamente in pianta stabile ad Agüero e Gabriel Jesus fino al termine della stagione.

Questa versione soggettiva e radicale dell’irraggiungibile orizzonte di Galeano, che spinge ad andare avanti nonostante si allontani ad ogni passo che si compie nella sua direzione, è ciò che ha permesso a Guardiola di trovare ogni volta la soluzione migliore ad ogni problema. In particolare, nella seconda parte di questa stagione, la necessità di dare la massima libertà possibile a De Bruyne e Gündogan ha trovato una risposta nel doble pivote Stones-Rodri, fondamentali nella prima fase di risalita per vie centrali con palla in uscita dalla difesa: in questo modo,  De Bruyne ha la possibilità di allargarsi sull’esterno per associarsi a turno con uno dei due trequartisti nell’ultimo terzo di campo o di agire come sotto-punta alle spalle di Haaland, mentre Gündogan può attaccare con più continuità l’area di rigore con e senza palla.

Stones e Rodri sono stati tra i migliori giocatori del Mancheser City anche a Istanbul, e lo sono stati dal punto di vista strettamente statistico ma anche da quelli legato alla percezione visiva, al peso specifico nelle varie azioni, alla presenza scenica dentro la partita: Stones, dopo l’uscita di De Bruyne per infortunio, si è incaricato di garantire ampiezza tanto in fase di prima costruzione quanto in quella di rifinitura (cinque passaggi completati nella trequarti offensiva), surrogandosi al belga anche quando si è trattato di creare situazioni di superiorità numerica e posizionale attraverso un dribbling – ben sette quelli riusciti, come Messi nel 2015 a Berlino contro la Juventus. Rodrigo, di contro, è stato il solito motore immobile, colui che è riuscito a tenere tutto assieme, il punto di contatto tra il guardiolismo vecchio e nuovo, l’erede naturale di Busquets per attitudine, comprensione del gioco, capacità di essere sempre due passaggi avanti a tutti persino quando distanze e automatismi non sono quelli consueti, e che ha chiuso con il gol più importante della sua carriera una parentesi che si era aperta in occasione della finale di due anni fa, quella persa contro il Chelsea: allora Guardiola decise di escluderlo dall’undici titolare, e con lui anche Fernandinho, e quella doppia mossa venne considerata come l’apice dell’overthinking guardiolano, la summa di un inspiegabile processo di auto-sabotaggio che aveva portato l’allenatore catalano a rinunciare a uno dei suoi giocatori più importanti nella partita più importante.

La connessione tattica, tecnica ed emotiva tra i due mediani è ciò che fa funzionare il reparto nel suo complesso, a maggior ragione perché tutto ciò che fa il centrocampo del City fa obbedisce alla visione per cui bisogna svuotare la zona di campo compresa tra il cerchio di centrocampo e il limite dell’area di rigore per riempirla con i tagli esterno-interno di Bernardo Silva e Grealish, o con l’avanzamento alternato di uno dei due braccetti della difesa a tre, determinando così quel 2-3-5 con cui Guardiola riesce a stringere o ad allargare il campo a piacimento. In occasione del gol di Rodrigo, per esempio, quando Akanji serve il suo filtrante ci sono ben cinque giocatori del City che attaccano in verticale l’area di rigore, più lo stesso Rodrigo; inoltre anche Foden è già in posizione per aggredire un’eventuale seconda palla o mettersi in visione per uno scarico a rimorchio. Certo, poi ci sono anche gli avversari: l’Inter di Simone Inzaghi, per dire, ha trovato il modo per abbassare il ritmo del possesso e per bypassare la prima pressione portata da Bernardo Silva, Gundogan e De Bruyne (poi sostituito da Foden), ma alla fine anche i nerazzurri hanno dovuto in qualche modo cedere a uno scaglionamento sul campo che risulta difficilmente leggibile per chiunque, che il centrocampo del City esegue ormai in maniera automatica.

Riguardare la lunga azione di possesso che porta al gol di Rodri, riguardarla da questa angolazione particolare, aiuta a capire i sincronismi perfetti del Manchester City

La perfezione di questo processo di scaglionamento si manifesta in maniera ancor più evidente nella fase di non possesso, quando i movimenti e le coperture preventive sono ancor più codificati: De Bruyne ha il compito di marcare il mediano avversario, Gündogan e Bernardo Silva devono schermare le linee di passaggio laterali, Rodri esce forte in anticipo sulla punta che cerca di tirare fuori uno dei centrali, oppure si abbassa fin sulla linea dei difensori nel momento in cui gli avversari riescono a risalire il campo in condizioni di parità o superiorità numerica. I centrocampisti del City, quindi, riescono a condizionare e ad adattare la propria struttura in relazione alla singola situazione, passando agilmente da un 3-6-1 organizzato per blocchi bassi, che copre tanto l’ampiezza quanto la profondità, a un 3-4-3 che punta alla riconquista avanzata del pallone rivisitando i canoni del gegenpressing, solo in una versione meno furiosa e dispendiosa, più orientata al controllo e alla gestione, delle energie ma anche della partita stessa.

Il fatto che poco di tutto questo si sia visto nella sessantunesima e ultima gara stagionale può rendere “inspiegabile” la singola vittoria nei 90’ ma non il percorso, il modo, il motivo per cui il City è tornato a giocarsi una finale di Champions due anni dopo l’ultima, ad appena un anno di distanza dallo shock della rimonta subita al Bernabéu. Così come non cambia l’idea del primato del centrocampo nel calcio di Guardiola, in chiave di segreto che non è necessario custodire ma aggiornare, anno dopo anno, stagione dopo stagione: il fatto che il gol decisivo, quello che forse pone fine a ogni discussione di e su Guardiola, sia arrivato da un centrocampista non è altro che la perfetta chiusura del cerchio di una serata che di cerchi ne ha chiusi davvero tanti. Forse li ha chiusi proprio tutti.