Lo sport e il calcio, soprattutto, vivono di simboli. Da quelli grafici, quali lo stemma e i colori di una società, a quelli fisici e culturali: gol, gesti tecnici, giocatori bandiera, dinastie vincenti; elementi che, per impatto e importanza, entrano a far parte dell’immaginario collettivo, formando via via lo strato di paradigmi attraverso cui viene operato il confronto tra presente e passato. Tra questi simboli, figurano anche i capitani. Esempi di virtù, dei valori di un’epoca, della filosofia di un club. Ma anche di vizi, di solitudine, d’inadeguatezza. Figure longeve, eterne, carismatiche, oppure transitorie, fugaci, anonime. La fascia al braccio è da sempre una lente d’ingrandimento sul giocatore che la indossa. Il suo peso eleva alcuni e affossa altri. Tra gli investiti vi sono coloro che non sentendosene più degni vi rinunciano volontariamente, quello di Marco Reus è il caso più recente, e coloro che invece ne vengono privati.
Quando si arriva a esautorare un capitano, la scelta viene sempre venduta come necessaria, rispondente a una logica tanto antica quanto conveniente. Per dare un segnale di rinnovamento, cancellare un’umiliazione collettiva nel più breve tempo possibile o punire un comportamento scorretto, non si può andare per il sottile. L’opinione pubblica ha bisogno di gesti eclatanti. Per questo viene tagliata la testa, bruciato il simbolo, sacrificato il capro espiatorio. Nell’antica Roma il portatore designato delle insegne militari che in battaglia, per codardia o incompetenza, si faceva rubare lo stendardo dai nemici, veniva pubblicamente disonorato. Il capitano privato della fascia subisce un’onta simile, che può essere in parte contenuta – o ampliata – da come il giocatore sceglie di reagire di fronte al fatto compiuto.
Prendiamo l’esemplificativo caso di Riccardo Montolivo, forse l’unico calciatore nella storia della Serie A ad aver perduto la fascia in due diversi club, Fiorentina e Milan. La prima volta avvenne a Firenze, nella stagione 2011/12. Il centrocampista scelse di non rinnovare il contratto con la Viola in modo da potersi trasferire a parametro zero al Milan l’estate successiva. Così la fascia venne affidata a Gamberini, mentre Montolivo passava dall’essere uno dei preferiti della tifoseria all’essere considerato un traditore. Una volta rossonero, fu nominato capitano dopo l’addio di Ambrosini, per poi divenire, suo malgrado, uno dei volti principali della Banter Era milanista. Poi nell’estate 2017, su decisione della nuova dirigenza cinese, Montolivo venne degradato in favore di Leonardo Bonucci. Il giocatore però non volle lasciare il Milan, accettando un ruolo da comprimario. L’anno successivo, con Gattuso in panchina, non vide mai il campo. L’allenatore, pur in piena emergenza tra squalifiche e infortuni, arrivò a preferirgli Calabria. In mediana. Scaduto il contratto, Montolivo si ritirò dal calcio giocato incolpando il Milan di averlo obbligato a smettere.
C’è qualcosa di violento, per certi versi di primitivo e brutale, nel privare il capitano del simbolo del suo status. Tale atto viene esercitato in maniera altrettanto coatta dalla dirigenza o dallo spogliatoio, poiché trattasi di una scelta unilaterale e dai risvolti plateali. Un capitano eletto non fa notizia. Uno esautorato sì. Quando i giornali ne parlano, il nome del nuovo capitano è buttato lì a margine. Ciò che attira l’interesse è il tonfo prodotto da chi cade. Si analizza se c’era da aspettarselo o se sia stato un fulmine a ciel sereno. E ci si domanda che cosa sia successo, che cosa sia successo davvero, dietro le quinte, finendo spesso con l’utilizzare teorie da bar per spiegare cosa ha portato a quella decisione. Nel caso di Montolivo, le teorie da bar insinuavano che fosse lui la talpa dello spogliatoio, e che fosse stato messo fuori rosa da Gattuso per tale ragione. Come sempre, in questi casi, non possiamo sapere quale sia la verità, ma possiamo solo chiederci: che cosa è andato storto? Il phisique du role per essere il capitano di una squadra importante sembrava averlo, Montolivo, ma le cose non hanno funzionato.
La storia di Montolivo ha un sapore vagamente greco, e forse ci insegna qualcosa sugli amori non corrisposti, sui sogni che si trasformano in incubi e sui pericoli del volare troppo vicino al sole. Una storia per certi versi simile a quella dello stesso Bonucci, che era arrivato ai rossoneri come uomo della provvidenza, autoproclamandosi “Spostatore di equilibri”, salvo poi tornare alla Juventus l’anno successivo, al termine di una stagione durante la quale erano emersi limiti caratteriali che non immaginavamo avesse, mentre quelli tecnici erano stati esacerbati dal contesto. Ora, pochi giorni fa, Bonucci è stato vittima di un contrappasso dal sapore karmico, subendo la stessa sorte di Montolivo. La sua parabola, quella di un giocatore che per gli haters è eponimo della più intollerabile delle tracotanze, sta convergendo in un finale di carriera amaro, nel quale il giocatore pare destinato a scontare lontano dalla Juventus le scelte e le dichiarazioni audaci fatte negli anni, in linea col personaggio che si è costruito.
E quando il capitano degradato non è particolarmente amato dal pubblico, la Schadenfreude sfocia nell’esultanza delle piazze social, nel pubblico giubilo. Quasi come se si avesse assistito all’esecuzione di un sovrano indegno. Il declassamento diventa un’occasione di festa per quelli che non hanno mai perdonato al giocatore il suo peccato originale, o una sua particolare colpa: inadeguatezza emotiva o tecnica, immoralità, slealtà. Con Montolivo e Bonucci, il karma ha poi agito con beffarda e chirurgica precisione: entrambi rei di aver tradito le squadre che li hanno lanciati, ambedue privati della fascia, che palesano l’attaccamento alla maglia quando ormai è troppo tardi e nessuno li vuole più lì.
Chi invece pare non abbia dimostrato attaccamento alla maglia, peccando d’orgoglio e avidità, è Mauro Icardi. L’argentino sembrava destinato a infrangere tutti i record dell’Inter in termini di presenze e marcature, salvo invece andarsene alla fine della stagione in cui subì la revoca dei gradi di capitano, a seguito delle note frizioni con la dirigenza riguardo al rinnovo del contratto. Icardi visse la privazione della fascia come un’offesa personale inaccettabile e si rifiutò di scendere in campo. Una reazione opposta a quella di Montolivo e Bonucci, e che all’epoca venne interpretata dai tifosi interisti come un ulteriore segno d’immaturità del giocatore, tacciato di anteporre i propri interessi a quelli della squadra. Sebbene l’antipatia e il risentimento nei suoi confronti non abbiano mai offuscato il riconoscimento delle sue qualità come invece accade spesso, il comportamento dell’attaccante segnò la rottura con l’ambiente e l’inizio di una fase dove Icardi, trasferitosi in Francia, sembrò perdere parte di quell’appeal che la centralità nel progetto nerazzurro gli garantiva. Al PSG divenne uno dei tanti. Segnare continuò a segnare, ovvio, ma ogni rete – ai miei occhi, perlomeno – somigliava a una nota stonata, appartenente allo spartito suonato da un’altra orchestra. Come se una parte di lui fosse rimasta a Milano, e in un universo parallelo fosse arrivato a superare Javier Zanetti.
Scrivendo di questi capitani degradati, emerge sempre più netto e impietoso il confronto con le bandiere che di contro sono state esempi di storie a oggi irripetibili: Maldini, Totti, Del Piero, lo stesso Zanetti. Giocatori trasversalmente rispettati che costituiscono, oltre all’altro polo dello spettro, l’iconografia eroica di un passato con il quale il presente non riesce a tenere il passo. Forse è anche per via di questa eccellenza, del ricordo da loro impresso nella memoria collettiva, che ai loro successori non sono stati perdonati gli errori che hanno commesso, fosse anche solo quello di non essere campioni dello stesso calibro. Di sicuro, però, è tale eccellenza ad aumentare il fragore della caduta, quando a cadere non è un capitano disprezzato dai tifosi, ma un loro beniamino. Epitome in tal senso è la storia del giocatore di cricket sudafricano Hansie Cronje, la cui vicenda viene narrata in un episodio della serie Netflix Il lato oscuro dello sport. Scoprire che anche gli idoli sportivi sono umani – e dunque fallibili – è una doccia fredda che fa sempre male. Quando succede si fanno strada l’indignazione, la negazione, la rabbia, la delusione. Sentimenti che descrivono e accompagnano il declino sportivo e mediatico del giocatore, o che in altri casi fungono da propellente del processo.
Prima si accennava a come la percezione che il pubblico ha di un giocatore possa sporcarne il valore tecnico, finanche arrivare a influenzarne le prestazioni in campo. Il tradimento delle aspettative dei tifosi porta certi capitani a compiere quello che in tale sede è il gesto estremo: la rinuncia volontaria alla fascia. Un atto paragonabile – per la cerimoniosità entro la quale esso deve giocoforza avvenire – al seppuku o harakiri, il suicidio rituale giapponese. È il caso, citato a inizio articolo, di Marco Reus, che a seguito dell’ennesimo secondo posto in campionato – quest’anno particolarmente doloroso – ha deciso di fare un passo indietro per dare una scossa all’ambiente Dortmund. Ed è ancora più il caso del vituperato Harry Maguire, fino a pochi giorni fa capitano del Manchester United. Ma se riguardo a Reus la sensazione predominante è che la sua sia stata una libera scelta, su Maguire il presentimento è che gli abbiano messo la spada in mano. Analizzando i comunicati ufficiali del club e dello stesso Maguire, la differenza tra i sottotesti è palpabile.
Reus ne esce quasi come un eroe, Maguire come un villain pasticcione che, messo alle strette, prova a riscattarsi attraverso un unico fortissimo gesto da buono. Finendo poi con l’essere deriso, invece che redento. Ed è per questo che la sua vicenda rappresenta forse il caso più grottesco tra quelli passati in rassegna. Alla luce del prezzo che il Manchester United pagò per averlo, per le stagioni mediocri, gli errori grossolani, i meme che raccontano l’inadeguatezza delle sue prestazioni meglio di qualsiasi altra analisi – cristallizzandola, diffondendola a macchia d’olio, riducendo la complessità di un giocatore a quei trenta secondi di contenuto – e, ancora, per come i tifosi dei Red Devils stanno festeggiando la notizia, per la colpa di non essere il leader che ci si aspettava, per essere il simbolo di uno dei periodi peggiori della storia dello United. Per tutto questo Harry Maguire è il capitano sfasciato per eccellenza. Non solo deposto, ma distrutto. Come un’effigie scomoda o un vangelo apocrifo. Il tutto mentre il calciomercato sta entrando nel vivo, le squadre sono in ritiro e un’altra stagione di calcio si prospetta all’orizzonte. Perché la vita e il calcio devono andare avanti nonostante le disavventure dei suoi singoli interpreti. Perché la vita e il calcio vanno avanti comunque, incuranti e dimentichi. Anno dopo anno, capitano dopo capitano.