La Bundesliga non piace più a nessuno

Il campionato tedesco sta vivendo una profonda crisi d'appeal. Colpa delle nobili decadute, della regola del 50+1, di un modello economico fin troppo rigoroso.

L’epilogo dell’ultima Bundesliga – con l’autolesionismo del Borussia Dortmund arrivato a livelli cosmici, fino al 2-2 interno contro il Mainz, e l’undicesimo Meisterschale consecutivo vinto dal peggior Bayern degli ultimi tre lustri – ha alimentato l’idea che un po’ tutti, in tutta Europa, abbiamo del campionato tedesco. Ovvero che si tratta di un torneo noioso, scontato, già deciso prima ancora che si cominci a giocare. Ci sta, d’altronde se lo spettatore neutrale medio deve scegliere cosa guardare, difficilmente opterà per una lega che, dal 2013 a oggi, ha sistematicamente lo stesso vincitore. Analizzandola dalla prospettiva del mercato interno, però, la “Bayernliga” non ha mai avuto grossi problemi di appeal: certo, nessun appassionato tedesco è felice di vedere vincere sempre la stessa squadra, ma tutto sommato il legame quasi simbiotico che lega i club ai propri tifosi (e viceversa) permette alla Bundesliga di mantenere alto l’interesse. Si pensi alle 60mila persone che ogni due settimane, puntualmente, vanno a vedere lo Schalke 04, e nel frattempo la squadra di Gelsenkirchen cerca di peggiorare la propria posizione nelle gerarchie del Fussball – e ci riesce piuttosto bene.

Tutto questo era vero almeno fino a un paio d’anni fa. Poi, quando il problema delle cosiddette “nobili decadute” è effettivamente diventato un problema, spingendosi ben oltre il confine dell’immaginazione, qualcosa è cambiato. Dal 2017 ad oggi, diverse grandi squadre del calcio tedesco – Stoccarda, Colonia, Amburgo, Werder Brema, Schalke, Hertha Berlino – sono retrocesse in Zweite. Si tratta di club storici che operano in mercati fondamentali, di grandi città le cui popolazioni corrispondono a un’importante fetta di appassionati. E di follower. Per non parlare di club come Kaiserslautern, Hannover o St. Pauli — che rappresenta sì un quartiere, ma in termini di popolarità e appeal internazionale ha poco da invidiare a qualsiasi squadra tedesca – e della loro prolungata assenza dalla Bundes.

Il posto di questi giganti è stato preso, a rotazione, da Paderborn, Heidenheim, Darmstadt, Greuther Fürth, Bochum, Arminia Bielefeld: club che sono comparse o poco più, con un seguito decisamente inferiore. Senza scomodare Augsburg e Hoffenheim, ormai stabili in massima serie da oltre un decennio senza mai retrocedere, ma che rappresentano dei mercati di secondo – se non terzo – piano. Ne consegue che, rispetto a quanto accadeva fino al 2016, il tasso di riempimento degli stadi è rimasto altissimo – ogni settimana tutte le partite registrano un sold out, o quasi – ma il numero netto di spettatori è calato. E non di poco. Se guardiamo alla stagione appena iniziata, per esempio, lo scambio di squadre con la Zweite – Darmstadt e Heidenheim hanno preso il posto di Schalke e Hertha – ha determinato una perdita di 100mila spettatori totali per giornata, da 135mila a 100mila. Un altro dato: quest’anno l’affluenza media delle partite di Bundes è di 40mila spettatori, mentre quella della Zweite raggiunge quota 34mila. E ora la statistica più eclatante: dei dieci stadi scelti per Euro 2024, ben quattro ospitano regolarmente partite della Zweite Liga – sono quelli di Amburgo, Berlino, Gelsenkirchen e Düsseldorf. E se guardiamo ai 12 impianti del Mondiale 2006, addirittura la metà appartiene a società di seconda divisione: Amburgo, Berlino, Gelsenkirchen, Kaiserslautern, Hannover e Norimberga.

Insomma, gli up and down delle grandi piazze – fuori dalla lista è rimasto solo il Borussia Mönchengladbach, che però si è fatto il suo giretto in seconda serie nel 2007/08 – sembrano essere diventati una regola. Solo Bayern Monaco (vabbè), Borussia Dortmund, Bayer Leverkusen e Wolfsburg sono stati sempre in Bundes dal 2000 ad oggi. Per quanto sia affascinante, questo continuo ricambio e il fenomeno delle nobili decadute hanno causato enormi problematiche in termini di appeal e di interesse. La Bundesliga si è trovata a dover fare i conti con partite che non interessavano praticamente a nessuno, sia sui mercati internazionali che, peggio, su quelli domestici. E così i meme sulle “Konferenz” – le dirette gol del sabato pomeriggio – con Bochum, Heidenheim, Darmstadt, Augsburg ed Hoffenheim sono diventati frequentissimi sui social tedeschi.

Il calo d’interesse interno anche per le partite di secondo e terzo piano è un problema con cui la DFL – acronimo di Deutsche Fussball Liga – deve fare i conti, perché incide direttamente sui conti della lega e quindi dei club. I diritti di trasmissione di Bundesliga e Zweite vengono venduti in un unico pacchetto, ma ciò che attira l’interesse dei media internazionali è la prima serie, non la seconda. E se quella non tira, le cifre offerte dalle tv diminuiscono. A proposito di soldi, va menzionato per forza il meccanismo del 50+1, la famosa regola per cui la maggioranza delle azioni di ogni club deve appartenere a comitati di tifosi: si tratta di un’imposizione che ha lo scopo di proteggere le società dagli investitori esterni, a cui di fatto viene impedito di avere il totale potere decisionale – proprio in termini di voti. Questa situazione, è inevitabile, finisce per scoraggiare chi vuole investire in società sportive: oggi il regolamento prevede l’eccezione per i proprietari in carica da oltre vent’anni, salvo votazione contraria dell’assemblea della DFL, e quindi al momento le deroghe sono quelle concesse solo al Bayer Leverkusen (che appartiene alla Bayer), a Wolfsburg (Volkswagen) e all’Hoffenheim (Dietmar Hopp). Il 50+1 è una regola senza dubbio anacronistica, ma rende unica la Bundesliga. E mantiene inalterati – o quasi – l’identità delle società, il legame con il territorio e la meritocrazia collegata ai risultati e alle buone gestioni.

Nonostante gli aspetti positivi, ci sono delle correnti interne che vorrebbero fare un passo oltre certi limiti. Il Bayern Monaco, per esempio, chiede da anni un cambiamento delle regole. E non è certo un caso: diversi dirigenti, tra cui anche Kalle Rummenigge, credono che aprirsi agli investimenti esterni potrebbe portare maggiore liquidità, e di conseguenza aumenterebbe la competitività interna. Questa è una tesi di “soldi sopra i meriti” che riscuote pochissima approvazione da parte piccoli club: ecco, se l’Union Berlino e il Friburgo sono diventate presenze fisse nelle coppe europee è anche grazie a questa regola, che finisce per premiare chi lavora meglio, chi ha le migliori strutture e le migliori competenze.

Si torna però al punto di cui sopra: quanto è conveniente per la Bundesliga che, a rappresentarla in Europa, non ci siano il Gladbach, il Werder o lo Schalke, cioè dei club con un peso economico potenzialmente più alto? Non conviene molto, verrebbe da dire. Alla fine i risultati non sono poi così diversi. A parte il solito Bayern Monaco e l’exploit dell’Eintracht Francoforte in Europa League, c’è un piattume generale, unito al senso di incompiutezza offerto da determinate società, ancora troppo lontane dal livello a cui sperano di ambire – in questo senso, le ultime stagioni di Dortmund e Lipsia sono un segnale eloquente.

L’Amburgo è la squadra che, più di ogni altra, racconta e rappresenta la crisi delle vecchie big di Bundes: retrocesso nel 2018, fallisce da cinque anni il ritorno in prima divisione. E ogni volta trova un modo sempre più assurdo, e crudele, di fallire l’assalto alla promozione (Maja Hitij/Getty Images)

Il rovescio della medaglia di tutta questa situazione riguarda la narrazione romantica che si fa del calcio tedesco e della sua essenza, che scaturisce proprio da quanto succede nei piccoli club, grazie ai piccoli club: la passione dei tifosi dell’Union che hanno costruito lo stadio con lo loro mani e poi hanno salvato la società donando il sangue; la continuità del Friburgo, che ha avuto quattro allenatori in trent’anni; l’incredibile scalata dell’Heidenheim, passato dalla quinta alla prima divisione con lo stesso allenatore; la scuola degli allenatori del Mainz, da Frank a Klopp fino ad arrivare a Tuchel. Tutte queste storie dimostrano che il calcio tedesco, a livello emotivo, ha tantissimo da offrire. E poi gli stadi sono pieni, l’atmosfera è incredibile anche nelle piazze meno conosciute, ci sono passione, identità, strutture all’avanguardia. Ma non è abbastanza: quella scelta dalla Bundes è una direzione opposta rispetto a quella che sta percorrendo il calcio mondiale, un universo fondato su grandi budget, sulle spese pazze fatte sul calciomercato.

In questo contesto si inserisce – inevitabilmente – anche il discorso sulla Nazionale, che sta vivendo il peggior periodo nella propria storia, oltre che un enorme calo d’interesse da parte del grande pubblico. La grande crisi è iniziata con la delusione del Mondiale 2018 e non si è ancora interrotta, complice una squadra che ha tanti giocatori di talento – i risultati delle rappresentative giovanili sono lì a dimostrarlo – ma non riesce a sfruttarlo nella giusta maniera. Anche perché i club di Bundes si stanno rivolgendo sempre ai mercati esteri, quando possono permetterselo. La tendenza sul mercato, è cambiata: ora si compra per vendere, si investe guardando al potenziale guadagno futuro. Lo fanno tutti i club, a cominciare da quelli che frequentano la bassa classifica. Il Bayern, invece, ha sconfessato quasi totalmente la sua diversità, quella che è stata per anni la sua identità: se prima investiva solo su giocatori giovani e da valorizzare, le operazioni fatte con Sadio Mané (che oggi sarebbe ancora a Monaco, se non fosse arrivata l’offerta irrinunciabile dall’Arabia) e Harry Kane rappresentano il tentativo di lavorare in maniera più simile agli altri top club. Il Bayer Leverkusen sembra l’unica squadra che sta provando a invertire questo trend, con un mercato ambizioso fatto di grandi nomi e di giovani: Xhaka, Grimaldo, Hofmann, Boniface. Nel suo piccolo, anche l’Union Berlin sta tentando di alzare l’asticella con Gosens, Bonucci, Volland, senza perdere di vista i suoi focus principali: l’identità della società e la stabilità del bilancio.

In Germania, per sintetizzare, nessuno vuole creare debito: i conti in ordine sono al primo posto, poi viene tutto il resto. Minimizzare i rischi è la priorità. Perché chi sbaglia un investimento nella seconda metà di classifica si ritrova nei guai. Non solo economicamente. È proprio così che si è aperta la spirale delle nobili decadute, è così che la lega ha perso buona parte del suo appeal internazionale. Il criterio del merito, insomma, resta intatto. Anche perché permette di mantenere viva la passione, gli stadi sempre pieni. Alla Bundesliga pare andare bene così, in fondo essere una mosca bianca non è poi così male. Sul panorama internazionale, però, essere diversi può causare un ridimensionamento. E sta andando proprio in questo modo.