C’è un ragazzino che fa trenta chilometri a piedi quando scappa da scuola e torna a casa, che li fa in meno tempo di quelli che impiega il padre per tornare da dove lo aveva accompagnato. È un ragazzino determinato e taciturno, ha perso un fratello a cui era molto legato. C’è un ragazzino che a un certo punto imbraccia il fucile e ferisce il padre che sta maltrattando sua madre. Forse a sparare è il ragazzino, forse è qualcun altro, non è così importante; ciò che conta che il nostro ragazzino lo avrebbe fatto senza esitare. C’è uomo che vince due ori alle Olimpiadi del 1912, allo stesso uomo quegli ori verranno revocati perché ha preso un’esigua somma per giocare a baseball, ma basta questo per renderlo un professionista e quindi squalificarlo.
L’uomo gli ori li ha vinti nel decathlon e nel pentathlon. L’uomo fa pubblica ammenda, non verrà perdonato mai del tutto, completamente riabilitato solo poco tempo fa. Lo stesso uomo è anche un campione di football americano, e poi di baseball. C’è quell’uomo che poi è una comparsa a Hollywood. C’è lo stesso uomo che fa il sindacalista. C’è un uomo morto i cui funerali si svolgono in due momenti. «La bara è stata pagata dall’impresa di pompe funebri. Il titolare è appassionato di baseball». Il corpo del morto vagherà per un po’ prima che si trovi una sepoltura, e quella sepoltura sarà in un luogo con il quale non ha mai avuto niente a che fare, e quel luogo da quel giorno si chiamerà come lui. Il ragazzino, l’uomo, l’atleta, il campione, il nativo indiano Sac e Fox, amato, bistrattato, riamato, idolatrato, ha un nome soltanto: Jim Thorpe. Ed è forse il più grande sportivo che gli Stati Uniti d’America abbiano mai conosciuto. La sua vita straordinaria ce la racconta un bravissimo scrittore, Tommaso Giagni, in un libro che si intitola Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe, uscito a fine settembre per Minimum Fax.
Jim Thorpe è stato un sacco di cose, la sua vita (con sfumature diverse) fa pensare a quella di Bruce Lee per i contrasti, l’eccezionalità, l’andare sempre a testa alta, misurarsi, cadere e rialzarsi, ma è solo una suggestione, Thorpe è stato soltanto Thorpe. La storia di Jim è la storia dello sport nordamericano, ma è anche la storia di un Paese, con i suoi mille contrasti, le trasformazioni e le finte concessioni libertarie. La storia di un sogno che è stato sempre alla portata di pochi. Per Giagni, scrivere di Thorpe significa anche scrivere della società americana della prima metà del Novecento, di come vivevano i nativi, come venivano trattati, di come fossero americani senza tecnicamente esserlo. Giagni prende Thorpe e attraverso le sue vicende fa venire fuori le assurdità di certi regolamenti, leggi, la miseria umana, il razzismo, l’eugenetica, l’intrattenimento di massa, forma – quest’ultima – sublime di assoggettamento e di distrazione.
Thorpe nasce nel 1887, muore nel 1953. Ori olimpici come detto, grande gioia e grande dolore, ori revocati, l’umiliazione dovuta patire, il tradimento anche da parte di chi fu compagno di squadra, forse amico, ma poi potente dirigente sportivo. Prima e dopo gli ori c’è ancora tanto sport. Thorpe inanellò una serie straordinaria – ma diciamo leggendaria, qua ci sta bene – di vittorie con la squadra di football della scuola indiana di Carlisle, principalmente sui college dell’alta società americana. Hey, era già politica. Ha giocato ai massimi livelli anche a baseball. Ragazzi, in quante discipline era un fenomeno Thorpe? Beh, un po’. Si ritirò dall’attività agonistica mentre la crisi del ’29 condizionava di nuovo il Paese. Fu un esempio e poi non lo fu, divenne povero e svolse tanti diversi lavori. Fece la comparsa a Hollywood, ma soprattutto fu il sindacalista dei nativi che facevano le comparse.
Chiacchierava con Errol Flynn: «Hanno chiacchierato e bevuto insieme in più di un’occasione, quando si mettono a discutere fuori da un bar di Hollywood. È l’estate del 1941 e stanno vivendo fasi diverse». Scambiava corrispondenza con alcuni dei Presidenti degli Usa, ebbe Marilyn Monroe per vicina di casa, il grande pugile Jack Dempsey fu uno dei suoi più cari amici. Chi scrive questo pezzo gli invidia Marianne Moore come insegnante. Lavorò con John Ford e Buster Keaton, tra gli altri. E mille altre cose, che salteranno fuori dalle pagine, con la stessa agilità che aveva Jim. Per gli studi che si facevano sui nativi, considerando come ovvia la loro inferiorità, Thorpe e il suo fisico, e i suoi risultati, furono una raffica di cazzotti in faccia ai politici e agli scienziati americani.
Giagni ha scritto certamente la biografia di un grande sportivo, ma anche scritto un libro che somiglia molto da vicino a un romanzo. Non perché la vita di Thorpe sia letteratura in sé, ma per il modo in cui lo scrittore ce la racconta. Nessuna storia esiste finché non viene qualcuno a raccontarcela. Lo scrittore è colui che ce la sa raccontare meglio. Tutto ciò che è accaduto sul serio ha bisogno di essere trasportato sulla pagina, e che il vero (la cronaca, le date, le gesta, gli amori, i fatti) diventi verosimile. Un fatto non è mai credibile così com’è, perfino se si tratta di trionfo sportivo, lo diventa grazie alla sua trasformazione in linguaggio.
La vita di Jim Thorpe diventa per la lettrice e il lettore interessante perché Giagni la misura in grammatica, sintassi, frasi sciolte bene, tempi verbali che assecondano qualunque cronometro che provi a contarli. La differenza la fanno la lingua e il suono, sono questi i motivi per cui leggiamo, per i quali scegliamo un libro al posto di un altro. Thorpe da giovane ha dovuto «chiedersi se qualcosa si annidasse nel sangue, infilare una mano nel pozzo della parentela e valutare la consistenza di ciò che gli restava addosso». Giagni, mettendosi all’opera, ha fatto qualcosa del genere, ha messo la mano nel pozzo degli archivi, ha valutato la consistenza degli avvenimenti, ha stretto le mani e ha guardato la consistenza di ciò che restava sotto la penna, o in cima allo schermo non più bianco del computer.