Quando avevo ventidue anni guidavo una Ford Fiesta vecchia di quindici anni, guadagnavo il mio primo stipendio sopra i mille euro al mese che a Milano, all’epoca, ancora bastava per vivere, uscivo quasi ogni sera a bere birre da 66 cl e cocktail economici. Una notte, tornando dalla discoteca, ho schiantato la Ford contro un muro. Non ricordo come sia successo, ma erano le sei del mattino e non mi do troppi alibi. Da quel giorno, non ho più guidato dopo aver bevuto. Penso spesso ad aneddoti come questo quando leggo di bravate fatte da altri 22enni molto diversi da quello che ero io allora, tipo i calciatori di Serie A o Serie B.
Quando avevo vent’anni o giù di lì ho fatto anche di peggio, naturalmente: uno dei motivi per cui sono garantista, come dice un mio amico, è che a fare un giro galera, a quell’età, se non ci finisci è spesso merito del caso. Sono cose che abbiamo fatto tutti, o quasi. Dico banalità: a vent’anni (o giù di lì) si provano i confini del mondo e della propria personalità, e lo si fa inconsapevolmente, certo, ma anche per motivi, per così dire, di evoluzione. Solo sbagliando, e accorgendoci dello sbaglio, siamo in grado di arrivare a una sintesi: di diventare persone migliori, cittadini migliori. I calciatori, poveretti, scommettono.
Mi ha fatto impressione leggere le parole di Nicolò Fagioli la mattina di mercoledì 18 ottobre, diffuse da tutti i siti di informazione sportiva e non. Vengono dalla deposizione fatta al procuratore federale, e dice: «All’inizio un calciatore, avendo molto tempo libero, finisce per provare l’ebbrezza della scommessa per vincere la noia. Con il passare del tempo divenne un’ossessione». Già questo primo passaggio mostra quanto siano, le vite dei calciatori di oggi, agli antipodi rispetto alle nostre, quelle di persone normali – con tutte le migliaia di sfumature che questa parola tiene in sé. Se c’è una cosa, insomma, che un ventenne normalmente non prova – non dovrebbe provare – è il sentimento della noia. O meglio, sì: la noia è un’esperienza formativa, e sconfiggerla è ciò che si fa durante l’adolescenza e la post-adolescenza. Come si fa: con l’amicizia, con i viaggi, con le passioni, con le avventure. Talvolta, con lo studio, o la scusa dello studio per stare in compagnia, in università, in giro per le città. A un calciatore tutto questo non è permesso.
Qualche anno fa ho avuto il piacere di parlare a lungo con uno scrittore e giornalista sportivo/culturale tra i miei modelli, si chiama Brian Phillips e aveva un blog chiamato The Run of Play, poi è andato a scrivere per Grantland e The Ringer. Abbiamo parlato della trasformazione dei calciatori in feticci, tra le molte cose (l’intervista c’è ancora, ci sono passaggi molto ingenui, è qui su Rivista Studio), e nello specifico era il momento in cui tutti gli occhi erano su Mario Balotelli. Balotelli a Manchester che tirava freccette ai suoi compagni di squadra, che dava fuoco a casa sua, che regalava migliaia di sterline a un senzatetto, che faceva il cretino come un ventenne. Diceva, Phillips: «È una delle caratteristiche del giornalismo sportivo moderno: abbiamo un accesso agli atleti che non si è mai verificato prima, e il risultato di questa vicinanza è che siamo sempre più tentati di trattarli come fossero personaggi di un romanzo. Mario Balotelli è un essere umano, con opinioni e problemi e ricordi suoi, ma noi lo trasformiamo in MARIO BALOTELLI!!!, questo personaggio da cartone animato un po’ stereotipato. Cancellare l’umanità di qualcuno soltanto per “entertainment” è ovviamente sbagliato, ma anche con questa consapevolezza è molto difficile dire come potrebbe esistere una cultura sportiva senza questa specie di mitizzazione».
La struttura mediatica e commerciale che è andata costituendosi intorno allo spettacolo-calcio è tale per cui, più che un gioco e uno spettacolo appunto, il calcio sia diventato una specie di “cupola trasparente e impermeabile” tipo quella di The Dome di Stephen King (o del film dei Simpson, se preferite), in cui la vita interna va avanti come in un diorama o una simulazione, su binari morali, economici, estetici e culturali completamente diversi rispetto a ciò che esiste al di fuori della cupola. Non significa che non debbano esserci delle pene. Ma nel darle, e soprattutto nel pesare il nostro giudizio morale su questi ragazzi e ragazzini, dobbiamo tenere conto del fatto che qui, più che in altre situazioni, “context is everything”. Che i loro peccati sono figli, in primis, di una distorsione della realtà per come la conosciamo tutti.
Insomma, che giocatori come Tonali, Fagioli, Zaniolo e chi per loro scommettessero milioni di euro su altre partite di calcio non mi stupisce. Non mi fa indignare. Non mi porta a pensare che siano partite truccate, non è il 2011, oggi si scommette sulle rimesse laterali e sulle ammonizioni e sulle sostituzioni. Mi mette tristezza per loro, e per il mondo in cui si trovano a vivere, questo diorama-calcio in cui tutto è ingigantito, le cose permesse sono poche, i soldi troppi, la noia dominante. In cui trovare un rimedio alla noia esistenziale della giovinezza, acuita dalla noia esistenziale di essere cresciuti in un’incubatrice che li ha privata di qualsiasi stimolo culturale, si risolve scommettendo milioni di euro su altre partite di calcio. Calcio, solo calcio. Calcio per lavorare, calcio per evadere, calcio per sbagliare. Come diceva quello, chi sa solo di calcio non sa niente di calcio. Chi sa solo di calcio, aggiungerei io, non sa niente della vita.
Un calciatore professionista non ha una vita normale, prima di essere professionista. Non più, non in questi anni. È programmato da quando ha sei anni a seguire un cursus honorum di isolamento e dedizione, per servire un pantheon di soldi e fama e successo. Quasi sempre, in Europa, non vanno a scuola, i giocatori: ci sono collegi specializzati per loro, senza ricreazioni normali, senza pagelle in grado di pregiudicare un percorso, in cui il doposcuola non sono i pomeriggi per i compiti da fare o da evitare, ma gli allenamenti per lavoro. Sono esseri estremamente semplici, e allo stesso tempo molto diversi dal resto dell’umanità. Ce ne si accorge pensando al fatto che, nel mondo del calcio, non esiste la minima traccia delle rivendicazioni che da quasi un secolo infiammano le società civili di tutto il pianeta: quelle per i diritti civili della comunità LGBTQ+.
Ci sono, certo, calciatori che hanno provato a rompere questo guscio. Un guscio che non nasce in questi ultimi vent’anni, anche se certamente è molto più impermeabile oggi che nel 1970. Solitamente i ribelli ci piacciono. Sono i George Best, che si beveva gli stipendi, passava le notti in discoteca, e portava capelli lunghi e barba alla moda. Sono i Paolo Sollier, che non rinuncia alla lotta politica e alzava il pugno chiuso al cielo e leggeva Pavese e Garcia Marquez. Sono i Paul Gascoigne, che faceva scherzi scemi ai compagni, e anche lui beveva parecchio, sicuramente troppo, e poi scoppiava a piangere in campo a Italia ’90 mostrandoci quanta umanità si nascondesse in lui, e quanto fosse simile a noi tutti. Ci sono casi in cui i ribelli non ci piacciono, invece. È quello di Mario Balotelli, che per anni, con peccatucci perdonabili e deviazioni più gravi, ha provato – in modo disordinato, d’accordo – a vivere pezzi di una vita che appartenesse al suo tempo e alla sua gioventù. L’ha fatto a discapito della carriera, evidentemente, fatta la tara allo straordinario talento che aveva. A Balotelli invece non è stato perdonato quasi niente.
Talvolta, in senso dispregiativo, si usa ancora l’espressione “panem et circenses”, e la si riferisce al mondo del calcio, al mondo dei calciatori. Ma in realtà la citazione di Giovenale è sprezzante nei confronti del popolino, interessato soltanto a mangiare e a guardare i giochi gladiatorii, e non ai guerrieri, schiavi, che venivano buttati nelle arene ad ammazzare e ammazzarsi. Quelli, con il passare dei secoli, non ci sono più. Fortunatamente, non si usano più bestie feroci né ammazzamenti, nelle arene, e ci si è spostati anzi allo spettro opposto: i protagonisti di oggi guadagnano, in appena una settimana, lo stipendio loro che un normale “essere umano” raccoglie in un anno, come ripete spesso la vulgata. Quello che è rimasto identico, dopo due millenni, è la distanza tra noi e loro.