La nuova serie su David Beckham è fighissima, ma mai quanto David Beckham

Le quattro puntate prodotte da Netflix ci dicono perché tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo voluto essere Beckham.

Quando mio padre vuole dirmi che un calciatore è forte, utilizza sempre la stessa frase di quando ero bambino: «Quello dà del tu al pallone». Se dovessi descrivere in poche parole David Beckham direi così anche io, anzi forse oserei un po’ di più: direi che Beckham dà del tu al pallone e dà del tu alla vita. C’ha confidenza, sa esistere, ha una classe che non si insegna, un talento naturale per stare al mondo. L’ho sempre pensato e ne sono ancora più convinto dopo aver visto le quattro puntate, da un’ora abbondante ciascuna, della docuserie Beckham, prodotta da Netflix e dedicata al calciatore britannico più glamour e famoso di sempre. E alla sua famiglia. Quest’ultimo appunto è tutt’altro che un dettaglio: la serie diretta da Fisher Stevens – Hugo di Succession, tra le altre cose – è un trattato su Becks, ma anche su Victoria Adams e sul mondo che intorno alla coppia; sanguina di Manchester United, profuma di Real Madrid ed è avvolta in una patina di glamour e vittimismo che a volte farebbe arrabbiare chiunque. Ma che, alla fine, funziona sempre.

Il repertorio calcistico è abbondante, curato e montato bene, sia tecnicamente che per l’inserimento delle parti giuste al momento giusto; la vita pubblica della coppia e la loro dimensione da superstar bilanciano i segreti sulla vita privata, i primi momenti di conoscenza, le crisi, e anche qualche siparietto così divertente da sembrare preparato. I testimoni ci sono tutti, e sono grandissimi: il torrenziale Sir Alex Ferguson, Eric Cantona, i fratelli Neville, Florentino Pérez e i suoi grattacieli galattici, Ronaldo che rideva dopo i gol subiti, Roberto Carlos miglior amico di David nonostante all’inizio non avessero in comune nessuna lingua, Carlos Queiroz che non so se aveva capito che sarebbe stato abbastanza maltrattato, i genitori di David, Luís Figo che si risente perché non gli facevano battere le punizioni. C’è davvero chiunque, persino Paul Ince e Ole Gunnar Solskjaer. Tra quelli di cui Beckham parla con affetto, e in diverse occasioni, manca solo Zizou Zidane: una magnifica presenza che aleggia in molte scene.

David Beckham è bellissimo. Lo era negli anni Novanta, lo è stato nei Duemila e lo è anche adesso. Ha un fascino che resiste al tempo, che è sempre stato attuale e che è invecchiato benissimo. Anche a rivederlo con i completi larghissimi dei primi servizi fotografici, David non ha il sapore di stantio, sembra sempre attuale. Era figo con l’angelico caschetto biondo degli esordi, poi rasato, poi con il codino da samurai e poi ancora adesso con un taglio più regolare reso imprevedibile dai tatuaggi che gli sono spuntati con l’età adulta. David Beckham è bellissimo, lo ripeto ancora, e ha il potere di donare fascino a tutte le magliette che indossa: la rossa umbro dello United a maniche lunghe, quella dell’Inghilterra impreziosita dalla fascia da capitano, quella del Real, dei Galaxy, del Milan, del PSG.

Nella provincia romagnola di fine anni Novanta, le sue Predator originali non si trovavano. Ricordo benissimo l’emozione provata quando mia zia, tornando da Milano, me ne portò un paio. All’allenamento successivo nella mia scuola calcio, partì un ooooh di meraviglia quando presi la linguetta e la feci passare sotto la suola con l’elastico in dotazione. Erano le scarpe dei sogni del mondo intero. Perché le aveva David e perché erano bellissime, ma nessuno sapeva se lo erano davvero o se lo diventavano indossate dai suoi piedi fatati.

Al netto dell’efficacia delle sue giocate, del suo valore come calciatore e di come si sia evoluto nel tempo dal punto di vista del gioco, David Beckham ha lasciato in eredità al calcio il più elegante piede debole della storia. E i cross di sinistro non c’entrano nulla: quando calciava con il destro, la sua gamba sinistra si piegava in un modo che davvero nessuno mai, sinuosa, nerboruta, elastica, potente. La gamba sinistra di David Beckham è la cosa più esteticamente affascinante passata per gli stadi degli anni Novanta. E il documentario è pieno di quelle punizioni arcobaleno, ed è pieno di David che alimenta il suo mito. Racconta di tutti gli allenamenti in cui si fermava a provarle, racconta della cura e della meticolosità e della sua grande dedizione al lavoro. Ogni dettaglio, a suo dire, era curato. E tutto questo resiste anche nella sua vita attuale: David ha l’armadio più ordinato del mondo, e lo sfoggia con orgoglio mostrandone le divisioni certosine e maniacali. A un certo punto racconta tutto fiero di aver iniziato da qualche tempo a prepararsi i vestiti con una settimana di anticipo, pianificando ogni outfit. È un nevrotico? Probabilmente sì, ma il risultato è talmente bello che va bene lo stesso.

Se lui è il dominatore assoluto del documentario e ne esce quasi da trionfatore, i personaggi che gli gravitano attorno hanno il merito di essere co-protagonisti che paiono scritti a tavolino. Victoria Adams – anche lei bellissima e perfetta, quasi superfluo specificarlo – racconta forse per la prima volta paure e inquietudini derivanti dalla vita con un calciatore di quella dimensione: le crisi, essere sempre sotto i riflettori, i continui trasferimenti e spostamenti. C’è un momento che coincide con gli anni di David al Real in cui la coppia, anche nel documentario, sembra vicina a sciogliersi. Per i paparazzi asfissianti, per i giornali che parlano di tradimenti, per David che in campo non rende e fuori ne soffre molto. È tutto raccontato nei minimi particolari ed è forse il momento di maggior riflessione di tutta la serie. Una forza spinge lo spettatore a indignarsi, a dire a quei due che devono smettere di fare le vittime, che sono Becks e Posh Spice, sono bellissimi,, ricchissimi, e davvero non hanno motivo di lamentarsi di niente, imbracciando la retorica che spesso permea l’ambiente calcio-soprattutto per chi lo vede da fuori, o per quei pasdaran secondo cui c’è la gente che si sveglia alle cinque del mattino per andare in fabbrica, loro sì che possono lamentarsi. Allo stesso tempo, però, un’altra forza riflette più in profondità e parte dall’assunto che il dolore e l’angoscia che si provano nella vita devono essere divisi sempre come si fa per peso e massa: vanno contestualizzati, messi in relazione all’ambiente circostante e alla personalità di ognuno. Un dolore che ci appare insignificante potrebbe essere devastante per qualcun altro: questa cosa viene spiegata bene dalla sofferenza che arriva addosso a Beckham dopo l’espulsione ai mondiali del 1998 per il calcetto a Diego Pablo Simeone – un’espulsione esagerata, bisogna di dirlo, e lo ha ammesso anche il Cholo.

Ora parleremo anche di questo video, che sicuramente avrete già visto

Victoria è sempre al suo fianco in tutto questo, a volte capisce, a volte non capisce, spesso litigano ma nel racconto ne escono da persone vere e sincere. Emblema di tutto questo il siparietto diventato presto virale sui social in cui Becks smaschera le origini per niente umili della famiglia della moglie. Oltre a tutte le stelle del Real, ai genitori di Beckham e a Fabio Capello, meritano una menzione a parte Sir Alex Ferguson e Gary Neville. Fergie è sempre fedele a se stesso e nessuno se lo sarebbe aspettato diverso intrappolato nelle sue guance rosse: sicuro di sé, presuntuoso, crede davvero che ogni cosa che dice sia la verità assoluta e la dice così bene che lì per lì è impossibile non dargli ascolto. Non viene dipinto come un cattivo, la sua figura risulta intrisa di una gelatina appiccicosa di affetto e gratitudine; Beckham sembra sempre sul punto di dire che Sir Alex è uno stronzo ma alla fine non lo fa mai, si trattiene, come ci tratteeniamo noi quando si parla di nostro padre o nostro nonno. Gary Neville invece è il migliore amico che tutti sogniamo di avere. È meno bravo di David, meno bello di David, meno tutto, eppure è dolcissimo, lo ama, lo sostiene, lo consiglia senza mai tradirlo. In campo, da terzino destro dietro di lui, non lo abbandona un secondo. E nemmeno fuori.

Alle sgargianti nozze tra David e Victoria, celebrate alcune settimane dopo l’incredibile vittoria dello United contro il Bayern in finale di Champions League, Neville pronuncia un discorso che oggi scatenerebbe l’inferno. Questo discorso: «Signore e signori, David ha detto che le Spice Girls hanno richiesto la presenza del Bayern Monaco, David era perplesso e ha chiesto il perché. Le Spice Girls hanno detto che volevano degli uomini che fossero al top per 90 minuti e poi finissero secondi». Fa effetto vedere i Red Devils più forti della storia, quelli del Treble, scherzare e darsi di gomito e sfottere gli avversari come si fa ai tornei di calciotto che tutti noi giochiamo il giovedì sera. Questa sequenza mi ha emozionato, e per un attimo mi sono sentito anche io il terzino destro che per una bella fetta di carriera ha guardato le spalle a Beckham.

Per dispiegamento di forze produttive, costi ipotetici di realizzazione e clamore suscitato, il documentario sulla vita di David Beckham è uno dei pochi prodotti sportivi che si merita di stare al tavolo con The Last Dance. Ma  le differenze sono tante: la prima – e più evidente – è che a Beckham è sempre interessato piacere ed essere amato, più che vincere. Una scelta di carriera e di vita che lo discosta da Jordan, al di là del diverso peso sportivo nei singoli sport: Becks è più simpatico, ha voglia di esserlo e quel sorriso calmo e biondo ha il potere di sciogliere chiunque. Il suo charme inarrivabile, nel documentario e come è avvenuto durante la sua carriera, rischia però di mettere in secondo piano il suo valore come calciatore: David è stato un atleta fortissimo, al top in patria e nel mondo per tutta una carriera. È ingeneroso ricordarlo solo per quegli ultimi stanchi guizzi al PSG e al Milan, dove comandava ancora ma giocando quasi da fermo, senza riuscire più a sprintare.

Queste quattro puntate provano a ristabilire anche questa verità storica, ma non lasciano mai indietro l’aspetto umano, trasformandosi anche in un piccolo spin-off di Linea Verde patinato di glamour: David Beckham apicoltore, infatti, è l’apice di questa operazione-simpatiaa che però non risulta mai stucchevole. Il finale è tutto per i figli, sempre citati ma tenuti nascosti nel corso delle puntate. Il quadro idilliaco è quello di una grigliata di famiglia in cui Becks cucina per tutti – è elegante anche mentre gira il cibo – e poi alla fine si trasferisce nel campetto dietro casa a calciare le punizioni insieme a suo figlio. Ha ancora la stessa eleganza e la stessa gamba sinistra. E ci fa venire subito in mente un passaggio di poco prima quando racconta che suo figlio lo aveva sfidato a una partita di calcio: i miei amici contro i tuoi amici. Va bene, risponde Becks, allora io invito Roberto Carlos, Zidane, Figo e qualcun altro.