Come Simone Inzaghi è diventato l’allenatore perfetto per l’Inter

Il suo approccio elastico porta risultati, un gioco godibile e combacia con le esigenze di mercato del club nerazzurro.

Dopo aver eliminato il Porto dalla Champions League, a marzo 2023, Simone Inzaghi ha deciso di togliersi il macigno dalla scarpa: «Lo scudetto vinto nel 2021», ha detto, «ha provocato qualche problemino economico. Negli ultimi 18 mesi questa squadra ha vinto trofei ed è entrata ai quarti di Champions. È facile parlare di Simone Inzaghi, perché forse l’educazione e l’intelligenza vengono confuse nella vita. Al momento giusto parlerò, lo devo a me stesso e ai miei familiari». L’Inter aveva perso due delle tre precedenti partite di campionato, contro Bologna e Spezia, e avrebbe perso anche cinque giorni dopo con la Juve in casa, e poi contro Fiorentina e Monza. Nel mezzo, un pareggio contro la Salernitana. La squadra nerazzurra faceva fatica a segnare e ancor più fatica a difendersi, sembrava sfortunata e allo stesso tempo incapace di gestire mentalmente le partite, specie quando tardavano a incanalarsi nella giusta direzione. I giornali parlavano di un addio dell’allenatore quasi scontato, a fine stagione. Poi, di colpo, ecco la vittoria contro il Benfica e la svolta.

Inzaghi aveva già rivendicato la bontà del suo lavoro a inizio campionato, in una fase complicata della stagione: «La mia storia parla: dove alleno io aumentano i ricavi, si dimezzano le perdite e arrivano i trofei». La ferita dello scudetto perso l’anno precedente e i risultati altalenanti di quel periodo potevano far suonare male discorsi di quel tipo, ma di fatto Inzaghi ha espresso un concetto a cui è difficile controbattere: per ciò che è l’Inter in questo momento, e per quelle che sono le sue esigenze, è l’allenatore ideale, per i nerazzurri. È una questione che prescinde dai titoli conquistati, anche se in un club prestigioso vittorie e trofei non possono mai uscire dall’equazione. Lo stesso Marotta, poche settimane fa, ha ribadito che «il tifoso deve capire come nessun club, ormai, possa fare a meno del player trading». E che «un giocatore di peso all’anno va venduto». Questo significa che l’Inter, a meno di grossi stravolgimenti, continuerà a reggersi sulla resa incrociata tra le operazioni in entrata e quelle in uscita: un gioco a somma zero che funziona se Thuram si rivela – come sta facendo – all’altezza di Dzeko e Lukaku, se Pavard bilancia ciò che si è perso con Skriniar, se Frattesi riesce a rendere abbastanza da tamponare l’addio di Brozovic, e così via.

Per fare tutto ciò, serve un lavoro di equilibrismo della dirigenza, che deve costruire una squadra competitiva sfruttando le occasioni e gli incastri, assicurandosi i migliori parametri zero, o i giocatori più interessanti che emergono nella classe media di Serie A, acquistabili con formule convenienti. L’Inter, in questi ultimi tre anni, ha lavorato con l’obiettivo di far sentire il meno possibile l’impatto delle cessioni necessarie, a volte commettendo errori, molte volte trovando soluzioni efficaci. In un sistema che ogni anno deve individuare un giocatore potenzialmente vendibile, possibilmente a cifre alte, l’allenatore diventa un tassello ancora più importante: oltre ai risultati sportivi – per quanto le due cose tendano spesso a coincidere – deve intervenire in modo tangibile sul processo di valorizzazione dei singoli. All’Inter, Simone Inzaghi ha dimostrato fin dal primo minuto di saperlo fare: dopo averlo impiegato un anno da backup di Bastoni, ha impostato Dimarco come esterno a tutta fascia per riempire il vuoto lasciato sulla corsia sinistra dall’addio di Perisic. E ora Dimarco è un interprete di alto livello e con caratteristiche rare. Ha avallato l’acquisto di Calhanoglu prevedendo che, nonostante una vita da trequartista aggressivo, dinamico e molto istintivo con la palla, potesse trasformarsi in una mezzala di costruzione capace di dare un contributo in entrambe le fasi, per poi trasformarlo addirittura in un vertice basso in grado di gestire i tempi della manovra al posto di Brozovic – entrambe le mosse sembravano assurde da immaginare. Ora, nel giro di pochissime settimane, Marcus Thuram si è imposto come giocatore decisivo in Serie A giocando da punta, un ruolo che in questa Inter richiede un ventaglio di qualità tecniche, fisiche e cerebrali molto ampio; un’evoluzione plausibile, nel caso specifico del francese, ma tutt’altro che scontata per un giocatore che ha quasi sempre giocato da ala sinistra.

Potremmo andare ancora avanti, per esempio parlando del ruolo chiave affidato a Bastoni nello sviluppo e nella rifinitura dell’azione, uno spunto originale rispetto a quanto visto con Conte, oppure dell’utilizzo di Dumfries – che al PSV giocava in una difesa a quattro – come quinto di centrocampo, anzi come grimaldello per finalizzare e per attaccare la profondità senza palla. Sono tutte piccole o grandi soluzioni di campo che Inzaghi ha adottato per risolvere problemi di rosa corta, di infortuni, o semplicemente per sfruttare al meglio il materiale a disposizione, e che spesso hanno finito per svoltare la carriera ai suoi giocatori. All’Inter, Inzaghi ha sempre dovuto allenare in una situazione di rivoluzione permanente: le necessità economiche del club lo hanno costretto a rimodellare la squadra ogni stagione anche nei suoi pezzi più importanti, a esaltare in campo acquisti determinati anche dalle occasioni, o comunque messi a segno con un margine di manovra ristretto dalla necessità di non sforare certi parametri.

Inzaghi ha saputo costruire un contesto tattico coerente ed elaborato, delimitato dalla costante del 3-5-2 ma aperto a profili di giocatori molto diversi, e quindi non troppo dipendente da richieste specifiche. Pur avendo un’idea di gioco ben definita, con pattern che si ripropongono a prescindere dagli interpreti scelti di partita in partita, Inzaghi sa lavorare sulle sfumature in base agli elementi di cui dispone; non è un tecnico camaleontico in modo appariscente, di quelli che sperimentano e cambiano modulo di continuo. Inoltre ha delle idiosincrasie così palesi da essere diventate dei meme. Eppure ha un modo tutto suo di essere flessibile, che consiste nell’adattarsi al materiale che possiede, e lo si evince anche guardando indietro: negli anni alla Lazio ha alternato una fase offensiva basata sulle transizioni a uno sviluppo dell’azione più elaborato, modellando il gioco attorno a un fantasista come Luis Alberto, e portando al picco di rendimento in carriera un attaccante devastante in profondità e fronte alla porta come Immobile; all’Inter ha brillato dovendo negoziare e rivedere le sue convinzioni, visto che doveva far rendere due punte fortissime spalle alla porta come Dzeko e Lautaro.

Oggi l’Inter è una squadra che gioca a memoria. E che, nei suoi momenti migliori, dà un’impressione molto netta di superiorità: in un contesto così funzionale e propositivo, e perché no, anche esteticamente appagante, i singoli non solo si esaltano, ma diventano più facilmente appetibili. Questo circolo virtuoso, economico e tecnico, viene alimentato anche dal fatto che Inzaghi ha rimesso l’Inter sulla mappa dei club protagonisti in Champions League. Nel calcio ci sono squadre che, per impronta più o meno volontaria del tecnico e per inclinazione mentale del gruppo di uomini che le compongono, sono più a loro agio nell’esprimere il loro potenziale su picchi altissimi nelle singole partite. L’Inter ha dimostrato di appartenere a questa gruppo di squadre, confermando l’abilità di Inzaghi nel preparare le partite secche – una skill che aveva dimostrato di possedere già alla Lazio. La finale di Champions League dello scorso anno è un traguardo difficile da raggiungere ancora, quantomeno nell’immediato, ma è frutto di una tendenza precisa: l’Inter e il suo allenatore si erano posti l’obiettivo di riacquistare credibilità in ambito europeo, con un ruolo che può oscilla tra la squadra outsider e quella che vale sempre la pena guardare. Tutto questo significa garantirsi introiti aggiuntivi, dirottare le necessarie cessioni sui più remunerativi mercati di élite (vedi Onana), e viceversa attirare a Milano giocatori di spessore internazionale.

L’impressione è che, per consacrarsi definitivamente, a Simone Inzaghi ormai manchi solo lo scudetto. Perché è il titolo che, in Italia, cambia la percezione che si ha di un allenatore. E perché la vittoria del campionato la ottiene solo chi ha la capacità di gestire le risorse tecniche ed emotive sul lungo termine, una dote che finora Inzaghi ha manifestato a intermittenza. Questa prima parte di stagione, con il primo posto in campionato – in attesa dello scontro diretto con la Juventus – e la qualificazione agli ottavi di Champions con due turni di anticipo, sta dando segnali incoraggianti in termini di tenuta mentale: come ha detto Mkhitaryan, sembra che «la nuova stagione dell’Inter sia un prolungamento del finale di quella precedente». Allo stesso tempo, però, entrambe le prime due annate di Inzaghi all’Inter sono state segnate da inversioni di tendenza improvvise: il primo anno, la striscia negativa successiva al derby perso ha compromesso un cammino verso il titolo gestito fino a quel momento con sicurezza; la scorsa stagione, al contrario, i passaggi del turno contro Porto e Benfica hanno trasformato un’Inter scoraggiata e irregolare, anche nella proposta di gioco, nella macchina quasi infallibile che ha messo in cassaforte il piazzamento nelle prime quattro e raggiunto la finale di Champions. Se ce la farà o meno, lo dirà solo il tempo: nel caso, per il suo allenatore sarebbe una consacrazione definitiva e inappellabile, che lo sottrarrebbe a uno limbo di vittorie minori e grandi glorie soltanto sfiorate, per trasformarlo immediatamente in un vincente.