Come ho imparato ad amare lo squash

Racconto di un'inattesa infatuazione per uno sport antico, nobile, divertentissimo.

Ho cominciato a giocare a squash cinque anni fa, quando ancora non si parlava di inserirlo nel programma olimpico – cosa avvenuta di recente, in vista di Los Angeles 2028. Non lo avevo mai fatto prima e per oltre un anno non ho mai vinto neanche un set. All’inizio ho imparato le regole del gioco, poi a stare in campo (giocare a squash è un po’ come guidare un’automobile: non basta saper accelerare, frenare, cambiare le marce, mettere le frecce e guardare negli specchietti: bisogna saper fare tutte queste cose insieme), poi cercavo di arrivare almeno a un punto, a tre, cinque, otto, poi di dimostrare a me stesso e al mio avversario – sempre lo stesso, da cinque anni – che quel primo set vinto ai vantaggi grazie a un colpo di fortuna non era casuale. Oggi vinco molto spesso, quasi sempre, perché sono molto più giovane di lui e perché quando impari un nuovo sport da zero, a quasi trent’anni, nei primi mesi la curva dell’apprendimento sale come quella del costo delle case a Milano dal 2018 in poi. 

Quello che sto per scrivere non ha basi scientifiche, ma è solo frutto di un rilevamento empirico: intorno a me, negli ultimi anni, tanti miei coetanei cresciuti magari giocando a calcio, a pallavolo o a basket hanno cominciato a praticare un nuovo sport spesso individuale, un po’ perché è difficile sincronizzare le agende e un po’ perché a quest’età trovo comprensibile e naturale che si senta il bisogno di mettersi alla prova contro sé stessi. La scuola è finita da un pezzo, il lavoro bene o male è sempre lo stesso, il carattere ormai è formato: dove si può imparare qualcosa di nuovo, se non nello sport?

Così, mentre tra i miei amici era tutto un pullulare di partite di padel e appuntamenti su Playtomic, io iniziavo ad appassionarmi allo squash. A Milano si può giocare in pochissimi posti, e in questi anni ho frequentato i due circoli principali, al Forum di Assago e vicino al Politecnico. In entrambi ho trovato un senso di comunità che scandisce ogni mio lunedì pomeriggio e che, in fondo, mi rassicura: le stesse facce, poche e ormai familiari sebbene non conosca neanche un nome, l’istruttore, i cassieri, gli altri giocatori. I miei preferiti sono due uomini parecchio anziani che vanno al campo quasi ogni giorno e che giocano solo “sul lungo”, cioè senza palle corte, per reciproco rispetto delle loro articolazioni. Semplicemente, giocano per amore del gioco. 

Ripenso a quand’ero piccolo, andavo ancora alle elementari, forse alle medie, e trascorrevo i venerdì sera nella palestra dell’oratorio dove mio papà e i suoi amici, dopo una settimana di lavoro, decomprimevano giocando a ping-pong – anzi, a tennistavolo, come diceva lui minacciando di diseredarci. Alla fine della serata, verso le undici e mezza, andavamo sempre in un pub che adesso non esiste più e iniziavamo il weekend con un rito nostro, solo nostro, e io partecipavo a quel rito e frequentavo quelle persone e mi sentivo parte di qualcosa.   

Uno degli argomenti che tiro spesso fuori quando mi capita di parlare di squash è anche un ottimo aneddoto da spendere durante il pranzo di Natale con i parenti: sapevate che sul Titanic c’era un campo da squash? Era situato sul ponte G, al centro della nave, e c’era anche una tribuna per gli spettatori. Al campo potevano accedere soltanto i passeggeri di prima classe, al costo di due scellini oppure mezzo dollaro per una seduta di mezz’ora. Il colonnello statunitense Archibald Gracie, nel suo libro Titanic: A Survivor’s Story, ricorda di aver preso appuntamento per una partita di squash con un altro passeggero della nave per il 15 aprile 1912 alle 7.30 di mattina: quell’incontro, naturalmente, non venne mai disputato.

Lo squash ha una lunga storia che parte da Charles Dickens e arriva fino a Marco van Basten, e chiedo scusa se abbasso il livello delle citazioni parlando di Dickens. Compare in un episodio della serie tv After Life, in un altro di Sex Education e anche in una recente pubblicità con Alessandro Del Piero e Maria Grazia Cucinotta, ma deve la sua fama letteraria e cinematografica alla New York degli anni Ottanta, ai romanzi di Bret Easton Ellis e ai film di Woody Allen. Erano gli anni degli yuppies, di Ronald Reagan negli Stati Uniti e del riflusso in Italia, e per il protagonista di American Psycho colpire una pallina e mandarla contro un muro era l’antistress ideale in una giornata ricca di eccessi.

Come ripeto spesso, uno dei segreti del mondo della finanza, prima della cocaina e della masturbazione magnificamente consigliata da Matthew McConaughey in The Wolf of Wall Street, dev’essere stato proprio lo squash. Le sessioni durano quarantacinque minuti, ci si sfoga e si suda tantissimo e un campo, relativamente piccolo, si può costruire in ogni ufficio già dotato di palestra. C’è stato un periodo storico in cui lo squash è andato di moda anche nelle città del terziario italiano, Milano Torino e Bologna, ed erano sempre gli anni Ottanta e Novanta. Poi è arrivato il padel, adesso arriverà il pickleball: io continuo a giocare a squash.

Un giorno la persona che mi ha insegnato a giocare a squash mi ha prestato un libro di James Zug, giornalista e scrittore americano, viaggiatore e autore di Squash: A History of the Game, pubblicato nel 2003. Nell’introduzione Zug scrive: «The unique thing about a squash ball, unlike almost any other sports ball, is that it has no life on its own. It needs to be warmed up. It needs to be hit to have energy. It needs a player. This, in the end, is a biography of the people who have played the game of squash». È vero, la pallina va scaldata, altrimenti non rimbalza. È una delle cose che ho imparato giocando a squash, oltre a pensare un punto per volta e a sfogare la mia rabbia in un campo delimitato da pareti di vetro lungo nove metri e largo sei.