Il Napoli di Spalletti è stato un’eccezione?

I cicli sono la cosa più difficile da fare, lo dicono anche esempi importanti. Ma quali sono gli errori degli Azzurri, e quanto sono stati gravi?

Tutte le volte che parlo del Napoli, del pazzo 2023 vissuto dalla squadra per cui faccio il tifo, dico sempre le stesse cose, faccio sempre gli stessi esempi. Questi: prendete il Liverpool o l’Arsenal, prendete il Manchester United; ecco, se dei club così ricchi e così prestigiosi possono fallire una, tre, cinque, dieci stagioni consecutive, al punto da non vincere niente e di restare per uno o più anni fuori dalla Champions League, ed è successo, perché il Napoli non potrebbe fallire l’annata subito dopo lo scudetto? La mia, me ne rendo conto, è una posizione strana. Una posizione un po’ democristiana, direbbe qualcuno – e non sarebbe un complimento. Personalmente la definirei una posizione mista, una sorta di cocktail tra l’inevitabile appagamento post-sbornia – sono nato nel 1991, quello del 2023 è stato il primo scudetto che ho visto con i miei occhi – e una sensazione di serena rassegnazione, come se in cuor mio sapessi di aver vissuto un evento straordinario. Un’eccezione. Che poi si tratta davvero di un’eccezione, lo dice l’albo d’oro della Serie A. Insomma, probabilmente parto dal presupposto che il Napoli abbia una sua dimensione storico-economica e quindi tecnica non modificabile, che esista un muro che la mia squadra non può oltrepassare. O meglio: il Napoli può aprirsi una breccia in questo muro e infilarsi dentro lo Stato Pontificio di un grande trionfo, ma solo per qualche tempo, perché poi arriveranno sempre dei Patti Lateranensi calcistici a rimettere le cose e la storia laddove sono sempre state.

Il problema, in questo caso specifico, sta nel fatto che i nuovi Patti Lateranensi calcistici sono stati scritti, revisionati e firmati proprio dal Napoli. Solo e soltanto dal Napoli. Nel senso: è evidente che Inter e Juventus stiano facendo un campionato di ottimo livello, ma è altrettanto chiaro che la crisi – di risultati, di gioco, progettuale – della squadra campione d’Italia sia stata innescata dall’interno, sia dovuta agli errori commessi in estate. E poi in autunno. A dirlo non sono solo io, e non sono solo i fatti: pochi giorni fa, dopo il tremolante 0-0 allo stadio Maradona contro il Monza, Aurelio De Laurentiis è andato in conferenza stampa e si è preso tutte le colpe per il brutto rendimento degli azzurri, ha chiesto scusa ai tifosi e ha promesso di porre rimedio alla situazione, «visto che la stagione è ancora lunga».

Il presidente del Napoli ha ragione, non c’è molto altro da aggiungere. Vale a dire che ha azzeccato zero mosse, negli ultimi mesi. È come se il suo modello di business sportivo – verticistico e super-snello, per cui c’è un capo supremo, lui, che supervisiona tutto e ha potere di veto su ogni azione – si fosse improvvisamente inceppato. La realtà, ovviamente, è più sfumata: anche in passato De Laurentiis ha sbagliato delle scelte e quindi delle stagioni, solo che ha sempre avuto dei paracadute su cui fare affidamento, ovvero dei manager affidabili come Marino, Benítez, Giuntoli e la sua squadra-scouting, degli allenatori scelti bene e/o cresciuti meglio come il primo Mazzarri, Sarri o Spalletti, giocatori di qualità che hanno generato plusvalenze e quindi hanno salvaguardato la sostenibilità del club. Buona parte di queste architravi, da maggio a oggi, sono venute meno: De Laurentiis non ha realmente sostituito Giuntoli, visto che Meluso ha un ruolo e un peso poco più che millesimali; ha scelto male l’erede di Spalletti e poi, a quanto dicono le ultime partite, ha scelto male anche il sostituto-traghettatore; il progetto fondato sui giocatori è ancora in piedi, lo dimostra il rinnovo del contratto firmato da Osimhen, ma è evidente che Natan, Cajuste e Lindstrom abbiano qualcosa in meno, o comunque finora abbiano dimostrato qualcosa in meno, rispetto ad alcuni calciatori arrivati nelle stagioni precedenti.

A questo punto è necessario capire una cosa: tutti i tifosi del mondo soffrono di quella che potremmo definire come la sindrome di Football Manager, ovvero hanno sviluppato la tendenza a credere che un club possa scalare rapidamente le gerarchie del calcio europeo e mondiale, per poi consolidarsi ai massimi livelli, fino a vincere i titoli più importanti; una volta arrivato un grande trionfo, lo step successivo consiste nel rivincere ancora, di nuovo, subito, inevitabilmente. Perché l’abbiamo definita sindrome di Football Manager? Perché questo processo riesce a essere rapido, ininterrotto e senza intoppi soltanto nel gioco di simulazione più amato e accurato di tutti i tempi. E non è neanche così semplice: bisogna saper giocare bene, anche a Football Manager. Il punto è che nella vita reale le cose sono molto più lunghe e molto più complesse, soprattutto per le società che non fanno parte dell’élite storica del gioco. Non è nemmeno una questione di soldi, o quantomeno non è solo una questione di soldi. Ed ecco due esempi facili facili: con i petrodollari degli sceicchi, nonostante i petrodollari degli sceicchi, Manchester City e Paris Saint-Germain ci hanno messo più di un decennio per entrare nel gotha della Champions League. A dirla tutta, il PSG non ci è ancora riuscito. E ha avuto Neymar, Mbappé e Messi, tutti e tre insieme.

Ecco, forse il mio appagamento e la mia serena rassegnazione riguardo il Napoli nascono dalle esperienze vissute da lontano con il City e il PSG. E dalla consapevolezza che De Laurentiis non è uno sceicco. Allo stesso modo, però, comprendo che i miei compagni di tifo potessero credere nel consolidamento, nel fatto che servisse poco perché gli azzurri fossero ancora competitivi per lo scudetto – che non significa vincerlo a marzo come un anno fa, ma ci siamo capiti. In effetti ci credevo anch’io, nella squadra azzurra. Ed è qui dico la mia: per fare molto meglio di quanto stia facendo, al Napoli sarebbe bastato non prendere un allenatore superato, presuntuoso e perciò poco incline al dialogo – con i giocatori, con i giornalisti, con il mondo intorno a sé – come Rudi Garcia; e poi, una volta compreso l’errore commesso con il tecnico francese, al Napoli sarebbe bastato non prendere un altro allenatore superato come Walter Mazzarri, costringendolo per altro a fare un calcio che non gli è mai appartenuto. Andando ancora più indietro, ma qui so di appartenere a una corrente minoritaria, avrei preferito che De Laurentiis vendesse tre o quattro giocatori campioni d’Italia, non il solo Kim Min-jae, così da ricominciare da zero. Di farlo davvero. Magari assumendo un direttore sportivo e un allenatore che dessero una nuova anima al Napoli.

E invece De Laurentiis è rimasto impigliato negli addii di Spalletti e Giuntoli, a cui ha risposto accentrando tutto il potere, troppo potere, nelle sue mani. Per quanto riguarda il calciomercato, il presidente ha fatto delle non-scelte conservative, impregnate di paura e di riconoscenza, anche di affetto se vogliamo: tutti sentimenti che, nel calcio, pagano poco e male. De Laurentiis è rimasto fermo, come gli era successo qualche anno fa con il gruppo plasmato da Benítez e Sarri. Anche quella volta finì molto male. E a pensarci bene, il fatto che il primo scudetto sia arrivato all’indomani di una rivoluzione dell’organico, cioè degli addii di Koulibaly e Mertens e Insigne, magari è stato un caso. O magari no.

Come succede spesso, insomma, la verità sta nel mezzo: è inevitabile ed è giusto provare straniamento e nostalgia per il Napoli che gioca con lo scudetto sulla maglia, che ristagna all’ottavo posto in classifica e che si fa umiliare dal Frosinone in Coppa Italia, così com’è doveroso criticare De Laurentiis per il modo in cui ha approcciato, costruito e vissuto questa stagione; allo stesso tempo, però, bisogna anche fare la tara dei contesti e dei fatti, bisogna anche pensare che certe alchimie calcistiche non sono riproducibili in vitro, che di Spalletti in fondo ce n’è uno solo e che i tifosi del Napoli, nell’estate 2022, contestarono prima la sua conferma e poi l’acquisto di Kim Min-jae, che Kvaratskhelia lo conoscevano in pochi mentre Lindstrom ha vinto un’Europa League da protagonista, che il calcio vero non funziona come Football Manager, purtroppo o per fortuna. Infine, bisogna ricordare che il Liverpool di Klopp, la squadra nel 2022 ha mancato il Quadruple per una sconfitta e un pareggio di troppo su 63 gare stagionali, dodici mesi dopo è arrivato al quinto posto in Premier e tra qualche settimana giocherà gli ottavi di Europa League. È andata e andrà così anche se stiamo parlando di una squadra che si chiama Liverpool, anche se nella sua bacheca ad Anfield Road ci sono sei copie della Coppa dei Campioni.

Come dire: il problema non è tanto aprire un ciclo, ma è tenerlo in vita. È fare in modo di restare al vertice, è trasformare le eccezioni in consuetudini. È in questo passaggio che il Napoli si è un po’ perso, anche se sarebbe più giusto dire che ha provato a rimanere fermo dov’era. Ha voluto preservare il presente, ma così ha dimenticato di costruire il futuro. Così è caduto. Ma succede a tutti, lo abbiamo visto. Proprio a tutti. Non è un modo di dire, non è un tentativo per assolvere qualcuno. In fondo è come ci si rialza dopo una caduta, a fare la differenza.