La dura vita da allenatori dei campioni del mondo del 2006

Gattuso, Inzaghi, Nesta, Cannavaro e tanti altri (con rare eccezioni): sulla squadra di Lippi sembra esserci una maledizione.

Daniele De Rossi deve compiere una missione molto difficile e una quasi impossibile. Quella molto difficile è rimettere assieme i cocci lasciati da Mourinho e restituire alla Roma la gioia di vivere. Quella quasi impossibile è dimostrare che si può essere allenatori capaci – è sufficiente capaci, nessuno pretende l’eccellenza – pur avendo fatto parte della squadra che ha vinto la Coppa del Mondo in Germania nel 2006. De Rossi ha dunque la responsabilità di dimostrarsi l’eccezione a una regola ferrea, un fatto empiricamente provato e riprovato. I precedenti sono tali e tanti da temere la maledizione: un marchio oscuro deve essere stato applicato sulle future carriere calcistiche di tutti coloro che erano in campo a festeggiare in quella notte di ormai quasi vent’anni fa. Viene da chiedersi: ma in che momento di quella notte di bagordi questa divinità maligna, questo spiritello malvagio ha deciso di fare delle vite professionali di quelle persone il giocattolo del suo meschino divertimento? Forse è successo durante il taglio di capelli a Camoranesi, scena in effetti reminiscente di riti tribali di cui a un certo punto il sacerdote perde il controllo, di sedute spiritiche in cui il medium alla fine diventa la porta attraverso la quale il male mette piede nel mondo.

Sarà un caso che il più apparentemente devastato in quella notte del 9 luglio 2006 allo Stadio Olimpico di Berlino fosse proprio Massimo Oddo, barbiere d’eccezione, officiante del rito pagano di cui sopra? Tutti abbiamo attribuito la sua bocca impastata e le sua frasi sconnesse a un comprensibile – data la circostanza – cedimento di fronte all’ormai leggendaria «cesta di birre» che l’organizzazione piazzò nello spogliatoio della Nazionale per lubrificare gli ingranaggi dei festeggiamenti. Ma se ci fossimo sbagliati? Se avessimo frainteso tutto quanto, sin dall’inizio? Se quel cesto di birra non fosse stato il «clamoroso errore tattico» che Oddo aveva sarcasticamente descritto nella sua storica intervista post partita? E se si fosse trattato in realtà del trucco adottato dallo spiritello malvagio di cui sopra per costringere la sua prima vittima ad abbassare la guardia, per farsi invitare nel nostro mondo come i vampiri del folklore e spargere poi tutt’attorno la sua beffarda malattia? Gli essere extraterreni, si sa, agiscono in maniere, per ragioni, con scopi che spesso agli umani sembrano morbosamente ironici. Sarà un caso che Oddo è stato poi uno dei primi dei campioni del mondo del 2006 a diventare allenatore, sarà un caso che la sua seconda carriera tra Pescara, Udinese, Crotone, Perugia, Padova e Spal sia stata segnata, questa sì, da quegli stessi clamorosi errori tattici che lo facevano sogghignare in quella notte di diciotto anni fa?

E dire che Oddo all’inizio aveva anche goduto della buona stampa che non è mai mancata a nessuno dei reduci di Germania 2006, una commovente dimostrazione di come la gratitudine nel calcio esista ancora, di come anche in uno dei settori più competitivi che ci siano si segua il caritatevole adagio «nessuno deve restare indietro», dove per nessuno si intende un ristrettissimo gruppo di persone composto dai 23 convocati da Lippi quell’estate. La stessa buona stampa di cui ha goduto Gennaro Gattuso, altro campione del mondo, altro entusiasta frequentatore di quel cesto di birra in cui Oddo probabilmente perse per sempre la capacità di elaborazione tattica. All’epoca ubriaco fradicio pure lui, autocertificatosi tale in un’altra storica intervista post partita, i critici di Gattuso sostengono malignamente che non si è mai davvero ripreso dalla sbronza: le prove di questa convinzione sarebbero nelle sue esperienze sulle panchine di Pisa, Milan, Napoli, Valencia e Marsiglia. Esperienze dalle quali Gattuso è riuscito sempre a uscire meglio – o meno peggio – di quanto non si sarebbe meritato grazie al suo talento naturale per l’autocrocifissione, a quella capacità di passare per la principale vittima di un evento di cui è lui stesso l’artefice, collegamento che però negli occhi di chi guarda si spezza quando il fu Ringhio si presenta davanti a microfoni e telecamere con la voce ridotta a un sussurro e l’espressione abbacchiatissima. « Non si può giocare con questa mentalità. Mi scuso con i tifosi. Abbiamo toccato il fondo, più basso di così non si può andare», ha detto dopo la partita che gli è valsa l’esonero a Marsiglia. Gattuso oramai è un dialoghista esperto, uno sceneggiatore navigato: in ognuna delle sue esperienze da allenatore c’è stato sempre un momento così, interpretato così, talvolta superato così. Manipolatore provetto, se uno non tiene conto che la mentalità alle squadre la dà lui e il fondo lo si tocca con lui a guidare, verrebbe quasi da dire poverino. Persino da ringraziarlo, per la schiettezza con la quale descrive disastri ai quali poi dovranno ovviamente essere altri a rimediare.

Se si parla di Gattuso si parla inevitabilmente di quella che è stata la sua metà altra in campo, Andrea Pirlo. A giudicare dalle sue prime prove in panchina, la maledizione dei campioni del mondo del 2006 si trasmette come un virus, facilitata dalla prossimità e dalla frequenza del rapporto. Da Pirlolandia al quattordicesimo posto in Serie B con la Sampdoria il passo è stato brevissimo, la spirale di Pirlo continua a essere discendente nonostante la buona stampa anche in questo caso ce l’abbia messa tutta. Viene da chiedersi cosa sarebbe ora De Zerbi se fosse miracolosamente riuscito a imboscarsi tra i 23 eroi di quell’estate 2006, sempre giovani e belli come cantava il cantautore. Sarebbe, De Zerbi, un allenatore migliore perché ci verrebbe raccontato così? Sarebbe, De Zerbi, un allenatore peggiore perché anche lui avrebbe condiviso la stessa maledizione che ha resto tutti questi campioni del mondo degli allenatori nel pallone? La realtà del calcio è quella che vediamo in campo o che deduciamo dai commenti? Pillola blu o pillola rossa? Nel frattempo, De Zerbi continua a fare il suo in Inghilterra, Paese calcistico in cui ancora benedicono il momento in cui hanno accettato che gli allenatori autoctoni erano troppo scarsi per continuare a perderci tempo e hanno deciso di prendersi tutti i più bravi, da dovunque venissero, qualsiasi cosa avessero vinto da calciatori: tutto come Guardiola o quasi niente come Arteta o niente come Klopp (e De Zerbi), che comunque non hanno vinto mai un Mondiale in tre (quattro).

Nel frattempo in Italia continuiamo a fare il nostro, la gratitudine ha la precedenza sul merito, i ricordi valgono di più del presente, sull’altare della nostalgia si sacrificano le certezze future. E Pippo Inzaghi continua a trovare panchina tra la parte bassa della Serie A e quella alta della Serie B, nonostante lui soltanto sia evidentemente vittima di una doppia maledizione: perseguitato dallo stesso spiritello malvagio che perseguita i suoi compagni di Coppa del Mondo e punito dagli dèi del pallone per quel peccato di hubris di cui fu vittima Simone Barone. Se la sorte degli altri comincia a farsi tragica, la sua ha preso una piega tragicomica. Nella stagione 2022/2023 porta la Reggina ai Playoff di Serie B, alla fine dell’annata la società gli garantisce di voler puntare «sui giovani talenti per consolidare il lavoro di affermazione sportiva e risanamento iniziato lo scorso anno», la stessa società che poco dopo abbassa definitivamente la serranda, sparisce e ricompare in Serie D dopo una lunga serie di sfortunati eventi. Che altro può succedere a Inzaghi, viene da chiedersi. La Salernitana, verrebbe da rispondere. Dalla quale ovviamente è stato esonerato. Certo, meglio questo che essere presi a sassate dai tifosi del Marsiglia, rischiare di perdere un occhio e ritrovarsi con una cicatrice sulla faccia lunga quindici punti di sutura, come successo a Fabio Grosso nella sua orrorifica esperienza a Lione. O essere Fabio Cannavaro, considerato un allenatore troppo inaffidabile pure per sostituire Rudi Garcia sulla panchina del Napoli.

Mentre scrivo, scorro uno dei tantissimi articoli che raccontano dove sono e che fanno adesso i campioni del mondo del 2006. Chi avrebbe mai detto che la carriera tutto sommato coerente (con le aspettative, con le capacità) l’avrebbe fatta l’allenatore Alessandro Nesta? Forse quell’infortunio nella seconda partita del Mondiale di Germania gli ha risparmiato almeno una parte (ha perso una finale di playoff in Serie B nel suo primo anno al Frosinone, ora guida con buone prospettive una Reggiana che ha voglia di ritagliarsi uno spazio importante in B) della maledizione inflitta agli altri? Scorrendo l’articolo, vedo che oltre a De Rossi resta ormai solo un’altra speranza di salvezza ed è Alberto Gilardino, e forse è per questo che Billy Costacurta ha invitato tutti alla moderazione degli elogi sia nei confronti dell’uno che dell’altro: se perdiamo anche questi due, quella squadra che ha vinto il Mondiale diventa la nostra Generazione perduta calcistica. Vedo che dalla maledizione si sono salvati solo quelli che hanno abbandonato il calcio giocato e si sono dedicati a quello parlato (Barzagli, Toni, Del Piero) o a mestieri collaterali (Perrotta e Zambrotta sono diventati dirigenti, Totti e Zaccardo procuratori). Con mia sorpresa, scopro che c’è solo uno di loro che è riuscito a salvarsi davvero dalla maledizione (anche chi si è reinventato opinionista o dirigente o procuratore non ha fin qui riscosso un travolgente successo): Vincenzo Iaquinta, che suo malgrado si è dovuto ritirare a vita privata. Che, tutto sommato, è una sorte migliore di quella toccata a diversi suoi ex compagni.