A un certo punto si è incrinato qualcosa, nella straordinaria parabola di Paul Pogba. Difficile trovare un giocatore la cui carriera è divisibile così nettamente in due metà tanto diverse: la prima dorata, riflettente i bagliori accecanti delle sue giocate più ispirate; la seconda buia e piena di vuoti. Come se Pogba un giorno, guardandosi allo specchio, fosse inavvertitamente scivolato dall’altra parte: nel mondo più oscuro, come direbbe Stephen King, un mondo dove ogni cosa è simile, ma niente è uguale e tutto è peggio. I colori delle squadre e dei capelli, le rifiniture, i colpi, l’atletismo imperante – elementi che evocavano una potenza e uno stile rari da trovare insieme – erano tutte costanti che non facevano sospettare nulla di strano. Anzi, cullavano l’idea che anche il tempo e le carriere che scorrono nel mondo del calcio fossero cose controllabili a oltranza, leggere come il gioco nella sua forma più spensierata e inesauribili come le loro rappresentazioni videoludiche. La leggerezza con cui Pogba lasciava andare i suoi colpi di mortaio dava l’illusione che avrebbe potuto continuare così per sempre. E che il mondo, malgrado la morsa del divenire, potesse continuare a essere suo all’infinito. Bucando lo schermo quando voleva, se voleva.
Poi, improvvisa, la rottura. La crepa che non vedi partire, ma che spacca il vetro. È lì che il mito del robot inscalfibile, del campione dallo swag portato come uno smoking, è caduto. Ma, nel caso di Pogba, più che un tramonto è stata un’eclissi. Qualcosa che non puoi fare a meno di guardare con l’interesse morboso che si riservano alle eccezioni – o agli incidenti. Dentro di te pensi che passerà presto. Ma in quella oscurità vedi ciò che prima non volevi notare: un modo diverso di stare in campo, una fragilità che stride con lo strapotere a cui ci ha abituato. E l’insofferenza, l’insofferenza data dalla sensazione che ogni minuto in campo fosse una conquista amara. Comprensibile, per un calciatore un tempo abituato a solcare i cieli. Poi, d’un tratto, le accuse. E ora questa sentenza. Quattro anni di squalifica, appello permettendo. Se, negli ultimi tempi, per rivedere sprazzi del vero Pogba occorreva sviscerare le sue sporadiche presenze, dopo la caduta di questa spada di Damocle c’è un’altra dura verità da accettare. E cioè la possibilità che quel Pogba, il Pogba che mandava in estasi lo Stadium, l’Old Trafford o una nazione intera, non tornerà mai. Quattro anni sono tanti. Sono il tempo tra un Coppa del Mondo e l’altra, sono un pezzo di vita.
E pensare che abbiamo tutti vissuto un periodo anche più lungo in cui sia a Manchester che a Torino, quando Pogba era nell’altra squadra, sembrava credessero di poter continuare a rimandarne il ritorno all’infinito. O, perlomeno, questa era la sensazione datami dal leggere l’hashtag #Pogback e relative notizie a ogni finestra di mercato. Notizie che poi rimanevano solo voci. Come se Pogba e il suo sgargiante minimalismo fossero eterni, sì, ma mai nel posto giusto, mai al momento giusto. Dopodiché, pure la cosa della longevità si è accartocciata su sé stessa. Un sistema umano così performante si è rivelato sorretto da un equilibrio fragile, e guaio dopo guaio ha funzionato sempre meno. La statua ha rivelato la carne al suo interno.
Giocare adesso a una versione di Cluedo dove l’assassino da indovinare è l’episodio che ha dato il via al crollo sarebbe interessante, ma pure triste. Tra i momenti potenzialmente decisivi non ci sono solo gli infortuni, ma pure le questioni extracampo. Come la grottesca faccenda del malocchio a Mbappé, la torbida vicenda legata al fratello Mathias, o appunto la questione della squalifica per doping. Una serie di eventi così negativi e ravvicinati da sembrare parte di un racconto di genere weird, uno di quelli dove il protagonista è a quel punto della storia dove deve pagare il prezzo dell’accordo stipulato col diavolo. Un patto del tipo: “Nella prima fase della tua carriera avrai il mondo ai tuoi piedi. Poi sconterai con gli interessi tutto quello che ti è stato dato. O che ti sei conquistato. All’universo, al karma o a chi: volete la differenza non interessa”. È come se, a un certo punto, il destino abbia deciso che il peso di quanto ottenuto da Pogba doveva essere pareggiato dal peso di ciò che avrebbe perso. E che ha effettivamente perso.
Razionalizzare non rende più facile accettare l’assurda involuzione della sua carriera. Quanto velocemente, almeno in apparenza, sia finito dall’essere uno dei migliori centrocampisti degli ultimi dieci anni a involucro di ricordi e oggetto di facili ironie. La teoria del mondo oscuro, e di come esso sia passato anche sopra di lui, strappandolo dalla condizione di grazia attraverso la quale per anni ha catalizzato l’interesse degli appassionati e dominato la sua zona di competenza, è una sintesi conveniente per non fermarsi ad analizzare passo per passo quali sono stati gli errori e le sfortune che hanno colpito il Polpo, in questi ultimi anni. Ma diciamo che preferisco concentrarmi su ciò che lo ha reso un’icona.
Pogba apparteneva – straniante usare già il passato, ma tant’è – a quella categoria di calciatori che visti dal vivo impressionano più di altri. E che, anzi, restituiscono appieno la distanza tra un super atleta e un uomo normale. Anche semplicemente camminando, Pogba emanava classe, coordinazione, bellezza. Anche senza il pallone tra i piedi, ti faceva ricredere sulle potenzialità del corpo umano, incarnando un rapporto perfetto tra forza e agilità. Aveva tutto. Oltre alle doti atletiche, disponeva di una tecnica allenata duramente, coltivata con dedizione per arrivare laddove il talento da solo non bastava. A questi mezzi abbinava un carisma e uno star power che, tra le altre cose, lo hanno portato a essere, almeno per una sessione, oggetto del trasferimento più oneroso della storia del calcio – nel 2016, quando tornò allo United. Storia d’amore maledetta, da tragedia shakespeariana, quella con i Red Devils. Ma pure quella con la Juventus, per certi versi. Castrate entrambe nei momenti in cui avrebbero dovuto portare a stagioni indelebili, gravide di quel trionfo che per contesto e necessità avrebbe rappresentato il coronamento perfetto di un ciclo, l’appagamento ultimo di un desiderio atavico. La Champions per i bianconeri, l’uscita dalla Banter Era per lo United. Con i due club che in questi anni si sono contesi la sua appartenenza, le sue prestazioni e pezzi della sua identità calcistica, la storia è rimasta inappagata.
Se, come dice De Niro, il talento di una persona sta nelle sue scelte, il talento di Pogba lo ha tradito più del suo corpo, quando ha scelto di tornare a Manchester, nel 2016. E dire che, alla sua prima stagione in maglia Red Devils da giocatore simbolo, figliol prodigo e capitano, il destino sembrò dargli ragione, alla luce dell’Europa League vinta nel 2017 con tanto di gol vittoria nella gara finale, contro l’Ajax. Un gol nato da un tiro da fuori deviato da un avversario. Uno degli ultimi grammi di fortuna ricevuto dalla sorte. Uno di quelli da ripagare poi con salati interessi. Quella vittoria sembrava il preludio all’inversione di tendenza definitiva che a Manchester bramavano dall’addio di Ferguson. Un prologo da gustare con la noncuranza che si riserva agli antipasti. E che, come tutti i piaceri più diabolici, lascia insoddisfatti. Pogba stesso, nella nostra corta memoria, ci lascia insoddisfatti. La statua ha rivelato l’umano che a sua volta si è rivelato simulacro del calciatore di un tempo. Specie il Pogba degli ultimi due anni, quello con la maglia numero 10, più gadget che giocatore.
In questo momento, vista la piega presa dagli eventi, sarebbe facile rimproverargli tutto. Soprattutto la mancanza di quella serietà, nell’accezione più ebraica del termine, che secondo l’opinione pubblica lo ha portato a circondarsi delle persone sbagliate. Ciò rischia di farci lasciare in secondo piano la bellezza che Pogba, con le sue movenze e i suoi palloni, ha iniettato nel nostro immaginario. Come la sua eccellente bravura – o meglio, la sua costante eccellenza – nel fornire passaggi precisi, necessari per ripulire la manovra e a incanalarne il flusso nelle proprie puntuali scelte. Che fosse chiamato a compiti d’impostazione o di cesellatura, da perno di un centrocampo a tre, da mezzala che si apriva sull’esterno per dare più ampiezza, o da secondo mediano in un centrocampo a due, come in Nazionale, Pogba era sempre fulcro e risolutore. Capace di catalizzare e allo stesso tempo diluire la pressione avversaria, fino a oscurarla con la propria violenta eleganza. Le sue capacità di effettuare dribbling, di creare superiorità numerica con il giusto strappo e la progressione palla al piede, ma anche solo con un semplice controllo orientato, erano esecuzioni perfette di quei fondamentali che lui si divertiva a mascherare con ampie – ma non inutili – dosi di tamarraggine. Nello stretto, in particolare, quando doveva far leva sulla durezza e sulla resistenza della propria armatura di muscoli, si esaltava. Circondato dagli avversari nel cuore del campo, o chiamato a proteggere un pallone sulla linea di fondo, vicino alla bandierina, Pogba emergeva e sfuggiva come una forza incontenibile. Qualcosa di amorfo o liquido. Riunendo in sé, paradossalmente, durezza e immaterialità. Allegria e freddezza. Con una consapevolezza dei propri mezzi tale da rendere le sue giocate più eccentriche il risultato di un momento di noia, un’avventura sperimentale intrapresa con la rilassatezza di chi, al campetto, decide di provare cose improbabili perché, se giocasse seriamente, non ce ne sarebbe proprio per nessuno.
Eppure, quando si concedeva più spesso tali ragazzate, nel suo periodo di maggior forma e serenità psicofisiche, giocava ancora con la pressione di dover dimostrare tutto – sebbene avesse già vinto diversi scudetti e coppe nazionali. Prima di conquistare da protagonista il Mondiale 2018, per molti Pogba doveva ancora dimostrare il proprio talento. Restituirlo al mondo in una forma che il mondo avrebbe compreso e guardato con orgoglio, invece che con invidia o paternalismo. Usarlo, il talento, non come una forma d’arte, ossia fine a sé stesso, ma per ottenere una consacrazione oggettiva. Ed è cinematografico e dialettico il modo in cui Pogba, per vincere, abbia denaturato il suo gioco. Con la Francia, in Russia, giocò un calcio minimale, a tratti cannibale. Il gol nella partita finale contro la Croazia, un piattone da fuori area di sinistro che pietrificò difensori e portiere, ribadì il suo essere clutch, ma inserì nella sua estetica una sfumatura nuova: quella di un Pogba maturo, scevro di quei barocchismi che lo avevano reso così interessante e cool.
Il gol alla Croazia e tanti altri momenti bellissimi di Pogba a Russia 2018
Quel gol lo aveva festeggiato come quando ci si libera di un peso. Il peso di essere un bersaglio facile, visto la stravaganza del suo personaggio. Il peso degli errori in campo e delle incompatibilità tra il suo modo di porsi e le aspettative del pubblico. Quello dell’essere il capro espiatorio perfetto, in caso di fallimento collettivo. Non potrete più toccarmi, avrà pensato dopo, a mente fredda. Ma qualcosa, però, lo ha comunque raggiunto e ferito. Come da lui rivelato, in quel periodo in particolare Pogba ha sofferto di depressione. Un episodio più intenso e più lungo rispetto a quelli esperiti in passato. Complici la situazione non facile allo United, i problemi fisici, gli iconoclasti seriali.
Perché sì, benché ora il campione che è stato ci appaia lontano, Pogba è stato un giocatore iconico. Capace di riunire in sé caratteristiche atletiche che pochi altri calciatori hanno sfoggiato, e colpi tecnici in grado di divertire ed entusiasmare. Un giocatore che di suo, anche se non avesse vinto niente o niente di importate, ha comunque contribuito a rimodulare in maniera massiccia un paradigma, fornendo un nuovo archetipo di centrocampista. Col suo fisico da playmaker NBA e la sensibilità di un’artista nella gestione del pallone, Pogba rappresenta quello che verosimilmente, un giorno, un calcio isterico e sempre più malato d’efficienza setterà come standard. Undici stangoni dai piedi sopraffini contro altri undici stangoni dai piedi sopraffini. Con noi a chiederci dove abbiamo già visto qualcosa di simile. Forse allora ci ricorderemo di Pogba e della sua coatta leggiadria. Delle sue capacità di danzatore e ammaliatore. Dei suoi apici, della sua caduta. E di quella fine che nonostante tutto può e deve ancora essere scritta. Anche se ora, con la squalifica di quattro anni cadutagli sul collo come la proverbiale spada di Damocle, sembra difficile immaginare che possa essere di nuovo felice, quantomeno in campo.