Il giorno dopo la vittoria della Lazio contro la Juventus, il racconto della partita dell’Olimpico è stato incentrato su un topos narrativo che ricorre sempre, quando si parla di Igor Tudor: quello sulla sua capacità di avere un impatto immediato sulle squadre che allena, indipendentemente dai giorni di lavoro che ha a disposizione, indipendentemente che sia da subentrato o da tecnico “titolare”. Era successo all’inizio della sua esperienza a Marsiglia, quando in poche settimane era riuscito a farsi seguire da un gruppo di giocatori che era ancora legato in maniera profonda, tecnicamente ed emotivamente, ai metodi di Jorge Sampaoli. Ed è successo anche in questa prima decina di giorni da allenatori di una Lazio in disfacimento, logorata da due anni e mezzo di un sarrismo a metà fatto di compromessi, di ibridi non sempre efficaci, difficoltà di coesione tra le varie anime di un gruppo alla perenne ricerca di un’identità.
«Avevamo poco tempo per preparare questa partita, ma l’abbiamo interpretata bene e siamo partiti con il piede giusto. Io non credo al destino, alla fortuna o alla sfortuna. Credo solo nel lavoro e nella crescita, perché quello che succede la domenica è la conseguenza di ciò che si fa in settimana. E le statistiche c’entrano fino a un certo punto», ha poi detto Tudor in conferenza stampa, pochi minuti dopo aver esultato al gol di Marusic come se fosse stato ancora un calciatore in attività: «Ero contento soprattutto per i ragazzi, quel gol era veramente per loro. Venivo da un’estate senza calcio, era la mia prima gara dopo tanto tempo, la squadra era nuova, conoscevo già alcuni giocatori ma nemmeno più di tanto: quando arriva un nuovo allenatore tutti hanno voglia di farsi vedere e di dare una mano, così come io ho voglia di dare una mano a tutti. Chiaramente, però, sopra a tutto e a tutti c’è sempre la squadra, questo non si discute».
Se c’è una cosa di Igor Tudor che dovremmo aver imparato in questi undici anni – Tudor allena infatti dall’aprile 2013, quando debuttò sulla panchina dell’Hajduk Spalato – è che l’etichetta di “Signor Wolf che risolve problemi”, soprattutto all’interno di spogliatoi che stanno per saltare in aria, gli va piuttosto stretta. Così come l’iconografia del sergente di ferro che ha una concezione militaresca dello spogliatoio e del lavoro, così come quella del gasperiniano di nuova generazione, del tecnico che ha estremizzato i principi del calcio fisico, diretto e verticale dell’Atalanta – o del Verona di Juric, il suo predecessore in gialloblu – per adattarli al suo 3-4-2-1 d’assalto.
Igor Tudor è stato ed è anche questo, ma ormai da tempo non è più solo questo. E a dimostrarlo c’è l’evoluzione di una carriera in cui la ricerca e la scoperta di se stessi e di nuovi limiti da superare è stata molto più importante degli stereotipi di facile impatto: «Nel calcio si dicono sempre cose esagerate, per me l’unica cosa che conta è fare un bell’allenamento con la squadra, caricarla nella giusta maniera e giocarmi domani una partita piacevole da vivere. Tutto il resto sono esagerazioni. Sono molto curioso di vedere la squadra e spero che sia sempre intensa, compatta, che attacchi e difenda insieme, al di là dei numeri sui moduli. Prima di tutto voglio vedere coraggio, anche a costo di commettere qualche errore» ha detto, non a caso, il giorno in cui si è presentato alla stampa come nuovo tecnico della Lazio. Alla partita con la Juve mancavano poco più di 24 ore, comunque meno di quelle che Tudor aveva avuto a disposizione con il gruppo squadra al completo. Aver vinto con quell’autorevolezza e quella convinzione, mostrando fluidità, automatismi e consapevolezza in ciò che si stava facendo, è stato come assistere in diretta a quella presa di coscienza che alla Lazio era mancata per tutta la stagione: il fatto che sia avvenuto in così poco tempo significa che Tudor l’ha fatto ancora, che è riuscito a fare in modo che quei giocatori smarriti e in cerca d’autore credessero in ciò che lui gli aveva proposto. E che continuerà a proporgli nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.
Le burrascose esperienze in Turchia con Karabükspor e Galatasaray e la doppia parentesi con l’Udinese tra il 2018 e il 2019 ci avevano restituito due facce della stessa medaglia, teoricamente in contrapposizione ma in pratica strettamente connesse all’idea che ci eravamo fatti fino a quel momento del Tudor allenatore: quella di un tecnico che aveva bisogno di prendersi con società e dirigenza per poter lavorare al meglio e che probabilmente si trovava molto più a sua agio nel ruolo di traghettatore che mette a posto le cose, saluta e se ne va. In questo senso la stagione al Verona (anche quella iniziata subentrando in corsa, a Di Francesco), ancor più di quella successiva in cui ha portato l’OM al terzo posto in Ligue 1, è stata fondamentale per scardinare tutti questi preconcetti, consegnandoci il Tudor allenatore certamente in divenire, ma allo stesso tempo fatto e finito. Quindi un allenatore assolutamente in grado di costruire, gestire e allenare una squadra per conto suo, sviluppando idee e intuizioni che fossero solo di Tudor, senza la necessità di ereditare il lavoro di altri o quella di dover edificare a tutti i costi la propria cattedrale su macerie più o meno rovinose.
Quel Verona era una squadra peculiare e riconoscibile, che si caratterizzava per la ferocia del pressing e per un 3-4-2-1 fluido in cui la ricerca dell’ampiezza e delle famigerate catene laterali in fase di risalita del campo costituiva l’architrave di una manovra offensiva che poi si sviluppava attraverso le intuizioni dei due trequartisti alle spalle di Simeone, una prima punta particolarmente a suo agio nell’attacco della profondità. A Marsiglia la presenza di due esterni a tutta fascia come Nuno Tavares e Jonathan Clauss, oltre che di un giocatore di corsa e inserimento come Mattéo Guendouzi, aveva imposto alcune impercettibili ma decisive variazioni di sistema come, ad esempio, il passaggio a un 3-5-2 in cui lo stesso Guendouzi fosse all’interno della stessa azione tanto l’equilibratore in fase di non possesso quanto il giocatore box-to-box in grado di scompaginare la rotazione difensiva avversaria. Al resto provvedevano la tecnica in velocità dei vari Cengiz Ünder, Harit, Gerson e Payet e la qualità – realizzativa ma anche di associazione e connessione tra i reparti – di Alexis Sánchez: il cileno non segnava così tanti gol (14) dalla stagione 2016/17, quando vestiva la maglia dell’Arsenal ed era ancora considerato una delle migliori prime punte atipiche d’Europa.
La Lazio vista contro la Juventus, pur all’interno del campione ridottissimo di 90’ disputati dopo un paio di allenamenti a ranghi completi, sembra rappresentare una sintesi di tutto ciò che è stato il Tudor allenatore fino a questo momento, soprattutto per ciò che riguarda l’insistenza sull’importanza del pressing a tutto campo e della riaggressione immediata, la riscrittura delle gerarchie sulla base dei giocatori più adatti a un certo progetto tattico – il rilancio di Kamada da titolare, Castellanos impiegato dall’inizio al posto di Immobile, Luis Alberto e Guendouzi utilizzati a gara in corso – e la necessità di difendersi in avanti rischiando anche l’uno contro uno in campo aperto: «Mi è piaciuto la voglia di andare forte e di controllare la gara» ha detto Tudor, «la capacità di soffrire e l’energia che la squadra ha messo in campo. Ci sono alcune cose in cui possiamo migliorare come l’attacco dello spazio l’intensità ma in questo momento è importante iniziare a mettere i mattoni per poi crescere con il tempo». Si tratta, però, di aspetti che andranno valutati più avanti quando il rapporto tra il numero di partite giocate e la qualità media degli avversari si sarà stabilizzato, rendendo possibile un’analisi più completa e attendibile. Attualmente, infatti, più che interrogarsi su che Lazio vedremo con Tudor ha molto più senso cercare di capire che Tudor vedremo da qui in avanti, che allenatore riuscirà a essere in quella che è solo la sua seconda esperienza da tecnico di una squadra che non può puntare solo alla salvezza.
Lo scorso novembre, quando un suo approdo al Napoli sembrava essere questione di dettagli, Marco Ciriello scrisse su Il Mattino un articolo in cui Tudor veniva definito come «un uomo abituato alla transizione», che già da giocatore era stato abituato ad «avanzare e retrocedere in base alla visione dell’allenatore di turno e alle sue esigenze». Quella del personaggio poliedrico e multiforme, del resto, è una chiave di lettura che si addice molto bene a questo cittadino del mondo che è sempre riuscito a trovare la sintesi tra gli elementi sociali e culturali del luogo in cui si trovava e le spigolosità di un carattere forgiatosi nelle difficoltà di una Croazia in ricostruzione dopo gli anni bui delle guerre jugoslave. E che lo ha convinto a non fare mai più l’assistente di nessuno dopo la controversa esperienza da secondo di Pirlo alla Juventus. Un ruolo che, probabilmente, gli andava stretto soprattutto se rapportato a quello di capo allenatore che sentiva di meritare più di altri, non fosse altro per la gavetta che aveva già affrontato negli anni precedenti.
Tudor, quindi, è un tecnico molto meno dogmatico e intransigente di quel che si è portati a pensare a un primo impatto, disposto a rivedere molte delle sue convinzioni a patto che il passo indietro che gli viene richiesto sia funzionale a fargliene fare almeno altri due in avanti. Nella vita e in campo, con i continui richiami alle differenze tra moduli e stile di gioco e all’importanza della cultura del lavoro quotidiano come base di partenza di qualsiasi percorso di crescita finalizzato al raggiungimento di un obiettivo, sia esso la salvezza, la vittoria di un trofeo o la qualificazione alla fase a gironi di una competizione europea: «C’è una scritta nella palestra che mi rappresenta: non è la voglia di vincere, ma la voglia di prepararsi che fa la differenza», ha detto pochi giorni fa. E c’è da credergli, perché è attraverso la preparazione, lo studio e l’aggiornamento continuo che è riuscito ad arrivare fin qui. Non più un traghettatore, uno da risalite ardite e nulla più, ma un allenatore vero. E alla Lazio dovrà dimostrarlo, ancora una volta.