Nello sport la vittoria e la sconfitta stanno attaccate l’una all’altra come le teste di Giano bifronte. Una non può mai guardare l’altra ma entrambe conoscono perfettamente le fattezze dell’altra. Non si parlano mai ma si conoscono bene. Non si amano affatto ma non possono vivere separate. Tutto questo lo scrivo per ribadire l’ovvio, cioè che nello sport – anche e soprattutto nello sport che qui ci interessa, il calcio – vittoria e sconfitta sono entrambe il volto della stessa divinità. Immagino ognuno darà alla vittoria le fattezze che preferisce: la faccia di questo o di quel giocatore, scelta ricordando un tale momento o una certa circostanza. Attorno alla sconfitta il discorso si fa invece più complesso e di conseguenza oggettivo: se è vero infatti che per diventare un vincente (e quindi una delle incarnazioni della vittoria) basta essersi trovati una volta soltanto nella vita al momento giusto e al posto giusto, per guadagnarsi la denominazione di perdente è necessaria una certa continuità, una sorta di coerenza.
Pochissimi giocatori nell’intera storia del calcio hanno avuto la continuità, la coerenza necessaria a diventare personificazioni della sconfitta: si sa che la fortuna è cieca, confusionaria ma egualitaria, le sue attenzioni sono brevi ma diffuse, prima o poi a tutti i giocatori toccano i privilegi che essa soltanto concede. Ma se proprio volessimo dare un volto a questa personificazione della sconfitta nel calcio, se proprio volessimo trovare un giocatore al quale assegnare questo ingrato – e tuttavia necessario: per qualcuno che vince ci deve essere per forza qualcun altro che perde – c’è soltanto un giocatore in attività che ha fin qui dimostrato di essere all’altezza della parte: Harry Kane.
Nessuno sa esattamente come sia cominciata né chi se la sia inventata, la maledizione di Kane. Con il gusto per la titolistica che solo il Paese che ha inventato i tabloid può avere, nel Regno Unito l’hanno chiamata e la chiamano ancora The Kurse of Kane. Facendo un giro nei luoghi di internet dove le scemenze vengono trattare con rigore accademico, si trovano decine di approfondimenti e ricostruzioni. C’è chi ha provato a risalire all’origine della maledizione con la stessa passione con la quale gli storici provano a risolvere i misteri che l’antichità ci ha lasciato: una delle teorie più apprezzate e condivise è quella secondo la quale Kane si sarebbe attirato addosso la maledizione peccando di hubris, di quell’arroganza umana che nelle tragedie della Grecia classica veniva sempre punita dalle volontà divine.
Sempre secondo queste ricostruzioni a metà tra la filologia e il misticismo, la Kurse of Kane sarebbe cominciata nell’aprile del 2018, quando l’attaccante insistette affinché gli fosse riconosciuto il diritto d’autore sul gol del 2-1 in una partita di Premier League tra Tottenham e Stoke City. Il contributo di Kane a questo gol era piuttosto difficile da stabilire, secondo tanti sarebbe stato più giusto assegnarlo a Christian Eriksen, autore del tiro in porta che Kane affermava di aver però deviato in maniera determinante. «Giuro sulla vita di mia figlia che ho toccato la palla», disse nelle interviste post partita Kane. Nell’aprile del 2018 Kane aveva ancora 25 anni ma era già considerato il più forte degli attaccanti inglesi e uno dei centravanti più forti del mondo, se non addirittura il più forte. Sulla panchina del Tottenham sedeva ancora il Pochettino migliore, le speranze di portare finalmente un trofeo in quel pezzetto – anch’esso così bistrattato dalla sorte – di Londra erano così realistiche da essere diventate persino aspettative, pretese. Ma gli esperti della maledizione di Kane dicono che non si può perdonare un uomo che è disposto a giurare sulla vita di sua figlia pur di vedersi attribuito il gol della vittoria in una banalissima partita di campionato contro lo Stoke City. Una partita che il Tottenham avrebbe vinto comunque. Hubris, appunto.
C’è da dire però che già a quel punto della sua carriera Kane aveva avuto una sfortuna talmente grande che da sola basta a confutare la ricostruzione dell’origine della maledizione fatta fin qui. La sconfitta è la cosa peggiore che possa accadere a un calciatore, si sa. Ma anche della sconfitta esistono tipi, intensità, gradazioni diverse. Una sconfitta in campionato contro lo Stoke City non vale certamente una sconfitta in finale di Champions League contro il Liverpool, per esempio. O ancora: una sconfitta in una semifinale di Nations League non brucia sicuramente quanto una sconfitta nella finale degli Europei, giocata per di più in casa, a Wembley. E continuando: un secondo posto in campionato può essere pure considerato un risultato accettabile, basta che a vincere questo campionato non sia il Leicester di Claudio Ranieri. Questa è la carriera di Kane riassunta per sommi capi, cioè attraverso i momenti più rilevanti che ha vissuto fin qui, cioè attraverso le sconfitte peggiori che ha subìto a oggi. Resta difficile capire quando, come e perché la Kurse of Kane abbia avuto inizio: non tutta la sfiga è venuta dopo quel gol in campionato contro lo Stoke City che l’attaccante così fortissimamente volle.
La Kurse of Kane non è però soltanto una questione di filologia o di misticismo. A rafforzare la credenza che ci sia un’entità maligna e beffarda a privare Kane della gloria che il suo talento meriterebbe – parliamo davvero del più forte attaccante inglese della sua generazione, di uno dei centravanti più forti del mondo, del miglior marcatore della storia della Nazionale, di uno che a 30 anni ha segnato 350 gol in circa 500 partite giocate – c’è anche l’estetica così peculiare di questo giocatore. Kane ha un modo di condursi in campo che lo fa sembrare “appesantito”, “trascinato”: è come se le sue spalle venissero spinte verso il basso da un peso immateriale eppure tangibile; come se il suo collo fosse costretto a incassarsi un po’ nella cassa toracica, schiacciato da una forza che sembra concentrarsi interamente tra la sua scapola destra e quella sinistra. E poi ha quello sguardo che sembra sempre distratto e distante, come se ci fosse sempre un segno misterioso e minaccioso all’orizzonte, una presenza distante ma immutabile che rovina il suo panorama. Ogni tanto sembra di vederlo, questo segno, questa presenza, riflessa per un attimo negli occhi di Kane, così azzurri da diventare a intermittenza delle superfici riflettenti.
Certo l’esistenza della maledizione può essere presa come una dimostrazione dell’eccezionalità di Kane: un attaccante così forte, così completo, così prolifico non può non vincere niente in dodici anni di carriera. Se non vince niente, l’unica spiegazione plausibile è che forze oscure, disumane e sovrannaturali si siano mosse contro di lui: una volta che hai eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità, diceva il più grande investigatore della storia della letteratura. Cosa è più probabile, allora? Che un attaccante fenomenale come Kane passi una carriera intera senza vincere nemmeno un trofeo perché è andata così o che una maledizione lo perseguiti chissà come, chissà perché, chissà da quando?
Visto come stanno andando – si potrebbe dire che ormai sono andate, almeno in Bundesliga – le cose con il Bayern, diventa sempre più difficile scegliere la spiegazione più probabile per le sorti avverse che sono toccate a Kane. Che ha pure provato a fare quello che fanno tutte le persone che si sentono perseguitate da un aguzzino invisibile: allontanarsi dai luoghi maledetti, dai momenti disgraziati, mettere un mare e un continente di distanza tra sé e i propri momenti peggiori. Se ne è andato al Bayern, ha attraversato tutta la Manica e mezza Europa, Kane. Si è trasferito a Monaco di Baviera, convinto che la fortuna lunga un decennio del Bayern sarebbe bastata a scioglierlo finalmente dalle sue sorti avverse.
I filologi e i mistici hanno pure visto un tentativo di riappacificazione con gli spiritelli cattivi del calcio in quell’intervista che Kane ha concesso al Guardian in cui raccontava la bella vita che la sua famiglia si stava godendo a Monaco di Baviera: i suoi figli soprattutto, aiutati da quella capacità di apprendere una lingua nuova impareggiabile dagli adulti. I filologi e i mistici hanno interpretato tutto come un rito purificatore: Kane si rivolgeva a qualsiasi entità lo avesse punito per quel giuramento fatto sulla vita della figlia, in cambio del quale aveva ottenuto un gol segnato contro lo Stoke City e una carriera intera di frustrazioni (cosa c’è di più frustrante che segnare 30 gol a stagione e basta?). Ho sbagliato, mi sono pentito, ho pure fatto fare un’esperienza all’estero e fatto imparare una seconda lingua alla bambina, abbiate pietà, basta così: questa la preghiera che i filologi e i mistici della maledizione si sono immaginati Kane abbia rivolto ai cieli e agli abissi all’inizio di una stagione che sperava fosse la sua prima vittoria.
Sappiamo com’è andata, fin qui. La Bundesliga la vincerà il Bayer Leverkusen, una vittoria appena appena meno sorprendente di quella del Leicester all’epoca. Sappiamo che anche questa volta Kane finirà la sua stagione con almeno 30 gol segnati, più gli assist, più tutte le altre quantità misurabili che da un decennio ormai ne fanno uno degli attaccanti più forti, completi e prolifici del mondo: a lui almeno va la soddisfazione che nessuno potrà mai accusarlo di non saper giocare a pallone come sta invece succedendo a Haaland in queste settimane di magra realizzativa. Ad Haaland resterà la soddisfazione di aver già vinto a 23 anni più di Kane a 30, e magari questa differenza tra i due si spiega con un’altra differenza che li separa: Haaland non ha figli sulla cui vita giurare. Sappiamo che a Kane e al Bayern Monaco resta la Champions per salvare quella che altrimenti passerà agli annali come la peggiore stagione della storia recente dei bavaresi. Sappiamo anche che le maledizioni non esistono, ovviamente. Ma sappiamo pure che fin qui la carriera di Harry Kane è stata davvero una serie di sfortunati eventi.