Massimiliano Allegri non poteva finire peggio di così

Avrebbe potuto dire addio alla Juve da vincitore. E invece contro l'Atalanta, campo a parte, ha sbagliato tutto ciò che poteva sbagliare.

C’è stato un momento, durante la finale di Coppa Italia, in cui il linguaggio del corpo di Massimiliano Allegri ha dato forma e sostanza a quel profondo senso di distacco dalla realtà che ha caratterizzato il suo ultimo triennio – che poi è stato anche l’ultimo triennio della Juventus visto che a un certo punto è diventato impossibile distinguere dove finisse la squadra e dove iniziasse il suo allenatore. Siamo nei minuti di recupero. La tensione, in campo e sulle panchine, è alle stelle: l’Atalanta, dopo 90 minuti in cui non è riuscita a produrre più di un tiro di Lookman finito sul palo, sta cercando faticosamente di organizzare l’ultimo assalto; la Juventus, di contro, non sembra essere particolarmente in difficoltà – non lo è stata mai, del resto, durante una partita che ha controllato e gestito a piacimento dopo il gol in apertura di Vlahovic – ma vive comunque la solita ansia di diversi difendere negli ultimi venti metri, laddove basta anche un rimpallo per vanificare tutto. Quando manca poco meno di un minuto alla fine accade che l’arbitro Maresca non fischi immediatamente un fallo a favore dei bianconeri. E allora Allegri, in una gimmick che gli riconosciamo fin da un (in)dimenticabile Carpi-Juventus del dicembre 2015, si toglie la giacca, la scaglia via e comincia a inveire. All’inizio non è ben chiaro con chi ce l’abbia, visto che il suo primo istinto è quello di girarsi verso la panchina e il suo vice Landucci: poi, però, va a muso duro verso il quarto uomo e subito dopo sembra quasi che voglia invadere il campo e arrivare a un confronto fisico con il direttore di gara, che decide di espellerlo.

È in quell’istante che si consuma la vera scena madre, la cesura attesa – ma non per questo meno traumatica – con un qualcosa che negli ultimi dieci anni aveva costituito la parte più importante della sua vita umana e professionale. Allegri ha il volto trasfigurato dalla tensione, la camicia fuori dai pantaloni, la cravatta che prima va per conto suo come se fosse in balia del vento e poi finisce gettata chissà dove, i tifosi della tribuna centrale si esibiscono un un’ovazione come se una decina di metri sotto di loro ci fosse l’ultimo gladiatore rimasto in piedi nell’arena, dalla Curva Sud dove sono assiepati gli oltre 20mila juventini arrivati a Roma viene lanciato un petardo che esplode fragorosamente sulla pista d’atletica: è l’opera omnia di Allegri, un fotogramma che ne contiene molti altri, un’istantanea dalla fortissima carica comunicativa ed emotiva, un colpo di teatro alla Mourinho (di quelli che fanno dire ai tifosi che lui sì che è uno di noi) che arriva al termine di una finale di Coppa. «Per tutti potrebbe essere l’ultima finale. Non è mica detto che ciascuno di noi possa giocare delle finali anche il prossimo anno», aveva detto con il sorriso nella conferenza stampa della vigilia. Come se avesse già visto tutto prima e volesse preparare e prepararsi al peggio che sarebbe arrivato da lì in avanti.

A un certo punto, perciò, è stato come se davanti ai nostri occhi avessero preso vita tutta la rabbia, tutta l’angoscia e tutta la frustrazione provate da Allegri nell’ultimo triennio. Inevitabile per un uomo che si era accorto che non era riuscito nel suo intento, che il suo tentativo di rendere la Juventus una diretta emanazione del suo essere non aveva portato a nulla. Ma non è tutto: questo processo gli si era ritorto contro nella maniera più crudele possibile. E allora quello sfogo così vecchio e così nuovo, allo stesso tempo, è sembrato un ultimo sussulto d’orgoglio, un estremo e disperato tentativo di restare aggrappato a quella che, a tutti gli effetti, sente essere una creatura soltanto sua. Non di Cristiano Giuntoli, non dei giocatori, men che meno dell’allenatore che dovrà prendere il suo posto per provare a ricostruire la Juventus dalle fondamenta. Si è trattato, in fondo, della chiusura perfetta di un cerchio aperto cinque anni fa, nella famosa conferenza stampa in cui ammoniva tutti i presenti sul fatto che «ci sono allenatori che vincono e altri che non vincono mai», salvo poi vederli vincere letteralmente tutti, uno dopo l’altro, anno dopo anno.

Le indiscrezioni su quello che sarebbe successo nel postpartita, sui presunti screzi con Giuntoli e sugli altrettanto presunti attacchi ad alcuni giornalisti, non aggiungono granché. Sarebbero da considerare come la conseguenza di un avvilimento profondo, tossico, che però nasce anche dal totale appiattimento della Juventus – come squadra, come società – sulla sua figura. Forse soltanto Allegri potrebbe dirci quanto questa sua centralità sia stata ricercata volontariamente. Oppure quanto, invece, sia stata figlia delle circostanze particolari della stagione 2022/23. Di certo l’essersi più o meno consapevolmente assunto le responsabilità proprie e anche quelle altrui – «nel ruolo dell’allenatore c’è anche essere un parafulmine» ha detto qualche giorno fa Stefano Pioli, un altro che l’anno prossimo difficilmente siederà sulla stessa panchina su cui si trova ora – ha fatto sì che gli errori di gestione, comunicazione e programmazione della società diventassero anche, se non soprattutto, i suoi. Pure se a commetterli erano altri.

Questo approccio a dir poco risentito alla comunicazione ha, alla fine, logorato Allegri. In modo talmente profondo da condizionarne in negativo strategie, pensieri, parole, fino allo sfogo finale dell’Olimpico. E così le immagini e le notizie della finale di Coppa Italia hanno fatto passare in secondo piano quanto di buono fatto alla Juventus. A cominciare, ovviamente, da una gara preparata benissimo – l’Atalanta è stata annichilita sul piano fisico prima ancora che su quello tecnico –  e dalla vittoria di un trofeo. Insomma, Allegri ha chiuso malissimo una serata che avrebbe potuto sancirne l’uscita di scena da trionfatore, da quello che aveva ragione. In un mondo ideale, che poi era il suo fino a neanche troppo tempo fa, l’allenatore della Juventus avrebbe salutato tutti chiosando con una battuta tagliente a favore di telecamera. E invece oggi della sua quinta Coppa Italia – un record – non parla quasi più nessuno, l’agenda mediatica è dominata da cose completamente diverse. Cose completamente sbagliate.