È paradossale come, nella nostra epoca, sia diventato difficile fare le cose semplici. Con l’aumento delle informazioni e della connettività, infatti, è cresciuto anche il grado di complessità delle scelte da compiere. In tutti i campi. Anche il calcio – come ogni altro settore – è diventato sempre più specializzato e scientifico, ma è anche un mondo in cui la semplicità può risultare la chiave di lettura giusta. Quella vincente. Come si spiegherebbe altrimenti, nell’era dell’overthinking e dell’esasperazione tattica, l’ascesa di un uomo come Jose Luis Mendilibar? Come si potrebbe dar senso al percorso di un allenatore che, superata la soglia dei sessant’anni, dopo ventotto stagioni alla guida di squadre lontane da palcoscenici prestigiosi, si è ritrovato a vincere una competizione europea con il Siviglia e poi a giocare un’altra finale l’anno successivo, quest’anno, con l’Olympiakos?
Una prima risposta a queste domande si trova nelle origini di Mendilibar: è nato e cresciuto nei Paesi Baschi, a una quarantina di chilometri da Bilbao, nel piccolo comune di Zaldibar. La prima parte della sua vita si è svolta quasi del tutto nella sua terra, dove la sua carriera da calciatore si è aperta e poi si è chiusa senza che disputasse una sola partita in Primera Division. Da giocatore si era definito un «membrillo», cioè una mela cotogna: aveva, cioè, la possibilità di arrivare più in alto, ma non è mai stato in grado di coglierla. Dopo il ritiro nel 1994, il richiamo della panchina per lui era troppo forte, e così la nuova carriera da allenatore è iniziata come una naturale conseguenza, come se non conoscesse altro mondo al di fuori del pallone.
Le prime esperienze da tecnico hanno seguito il filo conduttore della sua carriera da calciatore, nel senso che Mendi ha lasciato per la prima volta la sua terra solo nel 2002, diretto sull’isola di Lanzarote. Questa esperienza può essere considerata una sorta di svolta, nel suo percorso: andando oltre le statistiche e il rendimento sul campo dell’UD Lanzarote, il primo viaggio della carriera di Mendilibar è servito a delineare il suo profilo, i suoi metodi di lavoro. È stato sempre un creatore di legami, prima che un tattico. Non a caso, due giorni prima della finale di Europa League contro la Roma, Marca ha pubblicato uno splendido ritratto di Mendi composto partendo dai ricordi di chi è stato alle sue dipendenze tra il 1994 ed il 2004. E tutti i calciatori interpellati ricordano Mendilibar come si può ricordare quell’allenatore che, da ragazzi, li ha fatti appassionare al gioco del calcio.
Mendilibar chiamava i suoi giocatori «pollos sin cabezas», soprattutto quando secondo lui correvano senza criterio per il campo. E aveva istituito una strana penitenza, durante gli allenamenti: una capriola per ogni tiro fuori dallo specchio della porta. A questo lato si aggiunge quello dell’attenzione ai dettagli, quasi pionieristica per il contesto in cui lavorava: era attento ai tacchetti che i calciatori indossavano, tanto da esser ribattezzato El Hombre de Aluminio; era un fermo sostenitore dell’utilizzo del ghiaccio per il recupero fisico, oltre che un controllore decisamente fiscale del peso dei suoi giocatori. Come ha raccontato Maciot Ruymán, attaccante che ha lavorato con Mendilibar al Lanzarote, «se il mister avesse saputo che andavi a una festa e mangiavi male, il giorno dopo, in allenamento, ti avrebbe messo a disagio».
Quando i calciatori si sono fatti permeare dalle idee di Mendilibar, i risultati sono sempre arrivati. Come nella stagione 2006/07, quando ha guidato il Real Valladolid alla promozione in Liga con ben otto giornate di anticipo. Quello è stato il primo ciclo aperto da Mendilibar: è durato quattro anni, nei quali il club castigliano ha sempre centrato la salvezza, e si è concluso nel febbraio del 2010. Con un esonero, dovuto alle sole tre vittorie ottenute in venti partite di campionato. Questo dato mette in luce l’altro lato, quello oscuro, della carriera di Mendilibar: se da una parte ha raggiunto risultati spesso sorprendenti, dall’altra quasi tutte le sue esperienze lavorative sono terminate prima della scadenza naturale del contratto. In alcuni casi sono finite in modo decisamente precoce, come con l’Athletic Bilbao o con il Levante, in altri dopo buone stagioni alle quali non è riuscito a dare un seguito – è andata così al Valladolid, come detto, ma anche all’Osasuna.
In mezzo a queste montagne russe di successi e licenziamenti, Mendilibar ha vissuto quello che si può definire il momento migliore della sua carriera, ovviamente se escludiamo il successo di un anno fa col Siviglia: sei stagioni (2015 –> 2021) con l’Eibar, che aveva già allenato nell’annata 2004/05. Anche nella sua isola felice, però, Mendi è stato travolto dal logorio del tempo: la stagione 20/21, si è conclusa con la sua prima – e finora unica – retrocessione. E con l’addio. Il punto è che Mendilibar, in un’intervista rilasciata al programma Durangaldeko Telebista, ha spiegato che l’esonero, per lui, è una parte inevitabile della sua professione: «Non puoi definirti allenatore finché non vieni esonerato da un club«. In quell’intervista, poi, c’è anche una dichiarazione che potrebbe essere considerata il suo manifesto tattico: «A volte, quando li ascolto, non capisco nemmeno gli allenatori che ho accanto. Potete darmi dell’idiota, ma la mia idea di calcio non è mai cambiata in oltre vent’anni che alleno». Forse proprio questo suo riproporsi in ogni ambiente in cui ha lavorato, sempre uguale a se stesso, è la causa delle sue stagioni negative: quando le squadre non lo hanno seguito, o hanno smesso di farlo, Mendi non è riuscito a trovare la soluzione per uscire dal caos e riprendere la situazione in mano, per ripristinare l’equilibrio o per trovarne uno nuovo.
E allora perché un anno e tre mesi fa è stato chiamato dal Siviglia, per altro dopo un altro esonero l’Alaves, quando iniziava a pensare di godersi un po’ di tempo con la sua nipotina? Il punto è che il club andaluso, a marzo del 2023, stava affrontando una delle peggiori crisi della sua storia recente: la stagione era iniziata in modo disastroso con Lopetegui ed era proseguita sulla stessa falsariga con Sampaoli, la squadra era 14esima, clamorosamente invischiata nella lotta per non retrocedere. A Siviglia, per dirla brutalmente, avevano bisogno di essere concreti, di salvarsi. E così hanno chiamato un tecnico che, della concretezza e delle salvezze, ha fatto un marchio di fabbrica per oltre 15 anni. La soluzione più semplice, in questo caso, è stata quella che ha pagato i dividendi maggiori: un allenatore 62enne e antidivo, che non indossa mai un abito se non gli viene imposto, che a Lanzarote girava in sandali e bermuda a gennaio, che non vede di buon occhio la tecnologia e il Var, che dice di non avere un computer, che non aveva mai giocato una competizione internazionale, arriva al Sánchez Pizjuan per salvare il salvabile. E nel frattempo elimina Manchester United e Juventus, poi batte la Roma in finale e regala al Siviglia la sua settima Europa League. Una storia tanto meravigliosa, ma anche paradossale.

Il punto, come detto, è che il grande pregio di Mendilibar – la semplicità – fa presto a trasformarsi nel suo peggior difetto. E quindi non è una sorpresa se, dopo due vittorie nelle prime otto partite di questa stagione, anche il Siviglia abbia deciso di sollevarlo dall’incarico. Quali sono i motivi di questa scelta, ovviamente al di là dei risultati? Si può parlare – e si è parlato – del poco impiego dei nuovi acquisti, della riluttanza al cambiamento e al percorrere altre strade tattiche, delle difficoltà linguistiche nonostante sua moglie sia insegnante d’inglese – piuttosto assurde, in questo senso, le dichiarazioni sull’impossibilità di comunicare con Soumaré). Ma restano i fatti: il Siviglia di Mendilibar, in pochi mesi, si era trasformato in una squadra fin troppo facile da affrontare. E, quindi, da sconfiggere.
In questa sorta di copia e incolla all’infinito che è diventata la sua carriera, per Mendi è arrivata l’ultima chiamata, forse l’ultimo viaggio. Dopo la bellezza di 468 panchine in Liga, il tecnico basco ha accettato per la prima volta un incarico al di fuori del calcio spagnolo, approdando così in Grecia. Era l’11 febbraio 2024 e l’obiettivo dell’Olympiakos era quello di risollevarsi da una situazione sinistramente simile a quella che l’allenatore basco si era lasciato alle spalle a Siviglia: anche al Pireo, infatti, Mendi è arrivato come terzo allenatore in una sola stagione dopo Carlos Carvahal e Diego Martínez, che non erano riusciti a dare alla squadra la giusta identità. Il direttore sportivo Darko Kovacevic lo ha scelto perché si è reso conto che, nelle acque turbolente in cui navigavano i biancorossi, ci fosse bisogno di qualcuno in grado di fare le cose con semplicità, non in modo nevrotico. E già durante la conferenza stampa di presentazione, Mendi ha messo le cose in chiaro: «Abbiamo firmato per quattro mesi. Se faremo bene, resteremo, altrimenti ce ne andremo».
L’arrivo di Mendilibar ha creato un cortocircuito tattico: per la prima volta nella sua carriera, infatti, il tecnico basco si è ritrovato dall’altra parte del tavolo, dalla parte quella dei favoriti che devono vincere, e se possibile dominare, ogni partita – almeno in campo nazionale. Una parte del pubblico greco era scettica: per loro era un difensivista, e quindi il suo arrivo al Pireo era stato vissuto come un enorme un punto di domanda. In effetti Mendi non aveva di certo la fama del “giochista”, anzi si divertiva a predicare una filosofia decisamente più concreta: «Facciamo giocare gli avversari lontano dalla nostra porta, così se rubiamo palla siamo più vicini alla loro» ha detto una volta spiegando il suo calcio.
Come a Lanzarote, a Valladolid, con l’Eibar e col Siviglia, l’Olympiakos si è lasciato persuadere dai metodi semplici e dai modi diretti di Mendi. E i risultati sono arrivati immediatamente. Nel discorso di presentazione, Mendi ha detto ai giocatori che l’obiettivo era arrivare a vincere dei trofei giocando una partita alla volta. Come ha raccontato Fran Navarro in una recente intervista a Marca, l’arrivo del nuovo allenatore ha dato alla squadra «il clic di cui aveva bisogno». Anche perché il tecnico basco ha trovato un gruppo eterogeneo, composto da veterani e da giovani di talento provenienti da undici nazioni diverse, a cui ha saputo dare subito un’identità. E non solo: grazie a Mendilibar, ha spiegato ancora Navarro, «noi giocatori ci siamo uniti molto: siamo diventati una famiglia, ci divertiamo. Questa è la chiave del nostri risultati».
Gli allenamenti dell’Olympiakos sono ripartiti da zero, come se i giocatori fossero partiti per il ritiro pre-stagionale, e i principi tattici di Mendilibar – modulo 4-2-3-1, pressing alto e aggressivo in fase di non possesso, ricerca dei cross dagli esterni o dell’attacco alla profondità in fase di possesso – hanno subito fatto breccia nei loro cervelli. Così si è determinato l’incredibile percorso in Conference League, fatto di sconfitte pesanti e rimonte clamorose e vere proprie imprese, come come l’incredibile 6-1 in casa del Maccabi Tel-Aviv dopo aver perso l’andata 4-1, la drammatica lotteria dei rigori contro il Fenerbahce, il clamoroso 4-2 sul campo dell’Aston Villa nella semifinale d’andata. Il fatto che Mendilibar sia arrivato dov’è a 63 anni compiuti forse è un’anomalia nel calcio moderno, ma in realtà è la storia di un uomo d’altri tempi che è stato in grado di rinfrescarci la memoria: a volte, la strada migliore da percorrere è quella più semplice.