Paulo Fonseca, allenatore sottovalutato

Il Milan voleva un tecnico dall'identità chiara e che sappia lavorare con i giovani. E Fonseca, da questo punto di vista, offre delle garanzie importanti.

L’epopea emotiva di José Mourinho e l’apparizione di Daniele De Rossi, un’altra operazione carica di valori simbolici, è come se avessero dilatato il tempo dell’AS Roma: sembrano passati secoli da quando la squadra giallorossa era allenata da Paulo Fonseca, e invece sono soltanto tre anni. Per i critici e i maliziosi, questa stessa sensazione può essere interpretata in un altro modo: le due stagioni con il tecnico portoghese sono state dimenticate perché sono state anonime, prive di picchi, di risultati e/o di momenti significativi per la storia del club. Quest’ultima lettura è quantomeno ingenerosa. Almeno dal punto di vista statistico: Paulo Fonseca, con la Roma, ha disputato una semifinale di Europa League e ha raggiunto i 70 punti in campionato, una quota mai neanche accarezzata nelle due stagioni intere in cui c’è stato Mourinho; in totale, Fonseca ha vinto il 51,96% delle partite sulla panchina giallorossa, una percentuale più alta rispetto a quella di Daniele De Rossi (50%).

Basterebbe questo ad alimentare l’idea per cui Paulo Fonseca, 51enne nato in Mozambico quando era ancora una colonia portoghese, sia un allenatore sottovalutato. In realtà ci sarebbero anche degli altri elementi a supporto di questa tesi, e non bisogna arrivare fino ai successo ottenuti ai tempi del Porto, del Braga, dello Shakhtar: a Lille, nelle ultime due stagioni, ha fatto delle cose importanti. Ha portato una squadra giovane – secondo Transfermarkt, i sette giocatori più preziosi del LOSC hanno un’età media di 22,2 anni – al quarto posto in campionato, quindi ai preliminari della prossima Champions League, e ai quarti di finale di Conference League, con la semifinale sfumata soltanto ai calci di rigore dopo una sfida tiratissima con l’Aston Villa; ha permesso alla sua società di incassare un bel po’ di soldi, circa 40 milioni, grazie alla fioritura di giocatori come Baleba e Weah; ha lanciato definitivamente di tanti ragazzi che saranno protagonisti del prossimo mercato, tra tutti vale la pena nominare Jonathan David, Bafodé Diakité, Edon Zhegrova, Leny Yoro – che ha soltanto 18 anni eppure vale già più di 50 milioni, almeno secondo le rilevazioni di Transfermarkt.

Insomma, Paulo Fonseca al Lille ha creato valore sul campo. E non c’è niente di cui sorprendersi, è una cosa che ha sempre saputo fare, fin da quando era un enfant prodige: nel 2013, quando aveva 39 anni e aveva vissuto soltanto una stagione in Primeira Liga, sulla panchina del Paços Ferreira, fu assunto dal Porto proprio per la sua capacità di far fruttare il talento a sua disposizione. In che modo? Attraverso un approccio ambizioso che aveva già manifestato anche prima del Paços, quando allenava squadre di divisioni inferiori o addirittura dilettantistiche: in un’intervista rilasciata nel 2020 al giornale portoghese Tribuna Expresso, il suo storico assistente Nuno Campos ha raccontato che «la nostra idea di calcio è rimasta sempre quella che vedete oggi: si è adattata alle contingenze, ai salti di categoria, ma in realtà non mai è cambiata». In questo senso, lo stesso Nuno Campos ha raccontato un aneddoto piuttosto significativo: «All’intervallo della prima partita sulla panchina dell’Aves, in seconda divisione, Paulo scese negli spogliatoi e alzò la voce con i giocatori. Gli disse che il peggior affronto che potessero fare, a lui e al suo staff, era quello di non provare a giocare a calcio. I suoi giocatori, diceva, dovevano andare in campo per cercare di vincere e di comandare le partite».

Ecco, questo è un aspetto centrale in tutti i discorsi su Fonseca, perché in qualche modo determina la percezione che abbiamo di lui. Nel senso: il tecnico portoghese, a Lille e a Roma e nel corso di tutte le altre esperienze professionali, ha sempre praticato un calcio sofisticato e legato indissolubilmente a certi principi, e questo naturalmente lo fa rientrare nella categoria giornalistica degli allenatori idealisti, quelli che fanno fatica a derogare dalle loro convinzioni. In realtà le cose sono diverse, sono molto più sfumate: nei suoi due anni in Italia, Fonseca ha cambiato e ricambiato più volte il software dei giallorossi. Il problema vero è che questi esperimenti, che fossero più o meno impattanti sul gioco della sua squadra, alla fine non hanno prodotto molto di concreto: la Roma di Fonseca ha perennemente sofferto gli scontri diretti, le partite contro avversari di primo e di primissimo livello. E alla fine si può dire che sia rimasta una squadra essenzialmente incompiuta: quasi sempre ben messa in campo, spesso bella da vedere e/o particolarmente creativa nella sua proposta, ma condannata a manifestare ciclicamente gli stessi difetti – un attacco che produceva molto ma finalizzava poco, una difesa efficace soltanto quando riusciva a essere intensa, a mantenere alti i ritmi delle marcature e della riaggressione.

L’esperienza più importante della carriera di Fonseca è stata indubbiamente quella allo Shakhtar: in tre stagioni, a cavallo tra il 2016 e il 2019, il tecnico portoghese ha vinto tre volte il campionato e tre volte la Coppa d’Ucraina (Carlo Hermann/AFP/Getty Images)

Ora è chiaro che questa sensazione di rigidità e di stasi poteva essere ricondotta alla composizione della rosa, al fatto che la Roma avesse determinati giocatori, che i vari Dzeko, Veretout, Mancini, Pellegrini, Cristante, Zaniolo, Smalling, Spinazzola, Mkhitaryan, Villar e Borja Mayoral non fossero i calciatori adatti per Fonseca, sia per le loro caratteristiche che in valore assoluto. Ed è in questo punto, verosimilmente, che tutto si ricollega. È da qui che bisogna partire per interrogarsi, per comprendere e anche per metabolizzare l’arrivo di Fonseca al Milan: al di là della facile ironia sugli algoritmi di RedBird e delle speculazioni sui presunti legami tra il club rossonero e il Lille, la verità è che il Milan ha deciso di investire su tutto il buono di Fonseca, sulla sua capacità di creare valore partendo dalla tattica, dalla sua capacità di gestire e valorizzare gli atleti con cui lavora quotidianamente. L’idea, per dirla in poche parole, è quella di affidargli un gruppo formato da calciatori giovani e di talento, in modo da formarli e portarli al livello successivo. In che modo? Magari attraverso un gioco ambizioso e sofisticato. Da questo punto di vista, l’abbiamo visto e raccontato finora, non c’è molto da dire: Paulo Fonseca offre delle garanzie importanti.

Certo, in vista dell’arrivo di Fonseca a Milano ci sarebbe tanto di cui discutere: la reazione dei tifosi che avevano già boicottato Lopetegui e magari si aspettavano un nome più affermato per il post-Pioli, la percezione diffusa secondo cui il club rossonero non sembra disposto a fare grandi investimenti sul mercato, se non per acquistare giovani da sviluppare, l’eventuale aderenza della rosa con i principi del nuovo allenatore. Dal punto di vista progettuale, però, si avverte una certa coerenza di fondo: Paulo Fonseca è un profilo ideale per portare avanti un’idea di calcio identitario e sostenibile, a livello economico e di risultati. È la sua storia a dirlo. E magari, chissà, ci sono anche dei margini di miglioramento.