Ce lo sussurriamo da anni mentre ci diamo di gomito, lo dice la classifica ATP, lo raccontano gli albi d’oro di diversi tornei importanti e della Coppa Davis, naturalmente: il tennis maschile, in Italia, è arrivato a un livello mai raggiunto prima. Mai sognato prima, neanche ai tempi leggendari di Pietrangeli e poi di Panatta. Gran parte del merito appartiene ovviamente a Jannik Sinner, il fuoriclasse completo e generazionale che non avevamo mai avuto. Ma in realtà questa nuova vita è cominciata ancora prima della manifestazione di Sinner ad alti livelli, vale a dire con l’esplosione fragorosa di Matteo Berrettini: era il 2019 e Berrettini arrivò alle semifinali degli US Open. Una cosa mai successa prima e che, in quanto tale, ci sembrava irripetibile. Col tempo, per fortuna, quella sensazione è stata cancellata dalla realtà.
Poi, si sa, le vite dei tennisti seguono strade e traiettorie impossibili da prevedere. Nel caso di Berrettini, tanto per fare un esempio significativo, il suo fisico fuori scala ha preteso un conto salatissimo, lo ha costretto a stare praticamente fermo, anzi a regredire, per la gran parte delle ultime tre stagioni. In questo periodo siamo stati quasi costretti a dimenticare quanto potesse essere forte, quanto potesse giocare bene soprattutto sull’erba, quanto fosse migliorato in tantissimi aspetti del suo gioco. Ecco, per dirla brutalmente: il miglior Berrettini, almeno quello sull’erba, aveva pochissimi rivali. Ed è ancora così. Ce ne siamo accorti nella notte in cui il movimento del tennis maschile italiano ha toccato un apice elevatissimo: la prima sfida Sinner-Berrettini giocata a Wimbledon.
Una definizione come “apice elevatissimo” può sembrare sproporzionata, ma chi ha visto la partita sa che non si tratta di un’esagerazione. Quella tra Sinner e Berrettini, infatti, è stata una sfida di enormi contenuti, è stata una gara tecnica, tattica, fisica, emotiva e mentale, è stata il meglio che potesse offrire il tennis contemporaneo. È vero, i livelli leggendari di alcuni match tra Federer e Djokovic e Nadal non sono stati raggiunti. Ma quelli erano gli alieni, quelle partite erano semifinali e finali dei tornei più importanti. E invece ieri eravamo solo al secondo turno. Purtroppo, viene da dire.
Perché purtroppo? Semplice: perché, sul centrale dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, abbiamo visto una gara equilibratissima tra due tennisti che approcciano il loro sport in maniera diversa, tra una palla demolitrice come Berrettini e un metronomo ad alte frequenze tecniche come Sinner, solo che Jannik e Matteo hanno saputo scambiarsi i ruoli, poi si sono messi a sciorinare colpi di un’intelligenza tattica spaventosa, tocchi vellutati e arrotatissimi, smorzate e lob precisi come se avessero un mirino nelle corde della racchetta collegato al cervello e al braccio, il tutto senza abbassare mai i ritmi fisici, senza diminuire mai l’intensità di corsa necessaria per coprire il campo, per raggiungere gli angoli più remoti tra le righe e i corridoi. Entrambi i giocatori hanno assorbito i loro – inevitabili – cali atletici e di concentrazione, hanno perso punti e game importanti ma poi sono sono riusciti a rientrare in partita, e infatti alla fine la differenza l’ha fatta solo la maggior tenuta nei momenti davvero decisivi della serata, vale a dire i tie-break. Ecco, tutto questo ben di dio tennistico avremmo voluto vederlo ai quarti, se non addirittura in semifinale o in finale.
4 minuti e 40 di bellezza
Certo, i meccanismi compositi del tennis – i sorteggi basati sulla classifica, la classifica basata sul rendimento in un dato periodo di tempo – sono più o meno inappellabili, ma allo stesso tempo è stato un peccato che una partita del genere si sia giocata così presto. Anzi, si può usare una parola ancora più forte: è stata un’ingiustizia bella e buona, ha ridotto l’epica del match, almeno per i tifosi neutrali. Nel senso: in Italia ci siamo – giustamente, inevitabilmente – gasati, così come il pubblico assiepato sugli spalti del centrale di Wimbledon, ma è chiaro che all’estero la partita sia stata seguita meno di quanto avrebbe dovuto, meno di quanto avrebbe meritato, considerato l’enorme valore del tennis espresso da Sinner e Berrettini.
La sorte – intesa come sfortuna che ha travolto Berrettini negli ultimi anni – ha avuto un peso decisivo nel determinare questo scenario così iniquo, ma la partita meravigliosa tra Sinner e Berrettini è la dimostrazione che serviva, l’ennesima, di un concetto semplice eppure difficilissimo da metabolizzare, soprattutto se guardiamo ad altri sport: il talento, il lavoro e il lavoro sul talento alla fine pagano, restituiscono sempre qualcosa. A volte le ricompense e i risultati sono inferiori alle aspettative, può succedere, a pensarci bene il tennis e lo sport in generale hanno delle trame tortuose, mai lineari. Ma lo spettacolo resta, e in questo caso si può parlare proprio in questi termini: la partita tra Sinner e Berrettini ha offerto uno spettacolo favoloso perché favolosi erano loro, i protagonisti, i giocatori in campo. Erano i migliori tennisti italiani degli ultimi anni, forse i migliori di sempre, erano entrambi in grande forma e si sono affrontati su una superficie che esalta il loro modo di giocare. La novità, il nocciolo del discorso, è che i migliori tennisti italiani, adesso, sono anche tra i migliori del mondo. È così, non possiamo fare altro che applaudire, godercela e lavorare perché duri il più a lungo possibile. Non è facile, ma è davvero bellissimo.