Sarebbe bello essere in grado di scrivere un’ode, anzi di più, un elogio, un inno, un encomio di Franco Bragagna, prima che finiscano queste Olimpiadi — che poi saranno, purtroppo, le ultime che commenterà. E non perché, come accade spesso in occasioni analoghe, Bragagna è stata la voce che ha accompagnato la nostra adolescenza, la nostra giovinezza o quel che è — non per parlare di noi, insomma, e di come ci ha accompagnati nelle estati migliori della nostra vita — ma per parlare di lui, dei suoi meriti, della sua unicità. In un Paese da sempre innamorato della retorica vacua e perciò pronto a innamorarsi di ogni retorica e pronto a confondere l’onestà intellettuale e la serietà proprio con la retorica, Bragagna è stata la voce in grado di raccontare la bellezza del gesto atletico e celebrarne la grandezza senza scadervi, nella retorica. In grado di mettere la propria cultura al servizio del racconto, di dire “Iotebori” al posto di “Goteborg” con rigore e senza risultare pedante, di trasformare gli atleti di oggi in eroi classici — sì, lo so, sembra assurdo, ma non è proprio questo che gli chiediamo? Perché chiamarle Olimpiadi, se no? — senza perdere l’ironia e, però, usando poi l’ironia, ma non per creare distacco.
Abbiamo sempre creduto alla sua sincerità. Ci ha fatto credere di essere felice realmente — perché lo era — per un’atleta capace di migliorare il proprio personale di otto centesimi, proprio come comprendesse meglio di chiunque altro quali sacrifici comporta migliorare il proprio personale di otto centesimi. Gli abbiamo creduto quando snocciolava i risultati in progressione di un lanciatore del giavellotto estone e ci ha appassionati quando raccontava storie di Emil Zátopek o Paavo Nurmi, di Olimpiadi lontane nel tempo per noi quanto per lui — ma come se lui fosse stato lì, da sempre, prima di de Coubertin, in attesa solo che de Coubertin se ne venisse finalmente fuori con questa diavoleria delle Olimpiadi, così che lui avrebbe potuto raccontarla agli altri. Ci ha accompagnati, soprattutto, sempre capace di comprendere l’affetto del pubblico nei suoi confronti, senza però mai inciampare nella vanità di volersi sostituire ai protagonisti (come accade a molti colleghi). Lo abbiamo aspettato ogni quattro anni – sì, certo, c’erano i Mondiali e gli Europei, il Golden Gala a Roma, magari qualche sparuto meeting di atletica, Rieti, la Coppa Europa, occasioni per ascoltarlo, ma erano giusti palliativi, nell’attesa di ascoltarlo di nuovo parlare di portabandiera, braciere olimpico, rifugiati sotto la bandiera del Cio e sentirgli dare la linea a Elisabetta Caporale.
In questi giorni ha girato molto un video di Zerocalcare in cui, in un paio di minuti, si racchiudeva quanto di speciale era successo finora nelle Olimpiadi. Si guarda con piacere, si sorride anche si è in disaccordo, ma, a me, ha fatto venire anche in dubbio: è davvero successo solo questo finora? Tra quattro anni ci ricorderemo queste stupide polemiche sull’Ultima cena e Dioniso, sull’incontro Carini-Kherif, sul giorno più bello della vita di Benedetta Pilato? Davvero è successo soprattutto questo nei primi dieci giorni? Mi sembra più probabile che tra qualche anno ci ricorderemo le gare di Ceccon e Martinenghi e la voce di Luca Sacchi e Mecarozzi, mentre le polemiche avranno il respiro di tutte le polemiche social, proprio così come nessuno ricorda le polemiche sul beach volley o le misure anti-Covid di Tokyo 2020, ma “Marcello” urlato da Bragagna all’oro di Jacobs e quei venti minuti incredibili con la vittoria quasi contemporanea di Tamberi e poi la 4×100. Lo sport, insomma.
Da un punto di vista ideale la doppietta Tamberi-Jacobs sarebbe stato il migliore dei commiati, ma sarebbe anche riduttivo trasformare Bragagna in “un alfiere degli azzurri”, perché, ad ascoltarlo bene, è stato capace di trasmettere emozioni anche raccontando il primo oro di Saint Lucia o la prima medaglia di Dominica. E forse ci piace immaginarcelo così, a suo agio, in pensione, come se fosse un habitué delle Antille, pieno di amici a St. Kitts & Nevis, o in quella famosa valle del Kenya da cui arrivano tutti i siepisti e altrettanto a suo agio nell’Etiopia dei mezzofondisti, in Eritrea, in Nordafrica, ovunque. Tutti lo tratteranno bene perché ha saputo cantare i loro eroi.