Mecarozzi e Sacchi, l’arte del cazzeggio e di commentare il nuoto

Intervista all'inseparabile coppia di telecronisti Rai.

Disclaimer: questa intervista è stata realizzata negli ultimi giorni di giugno, all’ombra dei pini dello Stadio del nuoto del Foro italico di Roma, durante un momento di pausa del Trofeo Sette Colli. Per questo motivo non troverete riferimenti alla vicenda che ha coinvolto Lorenzo Leonarduzzi e Massimiliano Mazzucchi, i telecronisti dei tuffi della Rai che qualche giorno fa sono stati richiamati in Italia per dei commenti sessisti e razzisti durante una gara del Mondiale che si sta disputando a Fukuoka, in Giappone. Da più di un decennio Tommaso Mecarozzi e Luca Sacchi commentano il nuoto per la Rai e svolgono il loro mestiere miscelando competenza e ironia. Nel 2019 gli hanno dedicato addirittura un fan club, il “MecaSacchi”, dalla crasi tra i loro cognomi. «Non riesco a vedere il nuoto senza di loro», dice l’admin del fan club, e la frase si sente spesso anche tra gli appassionati che li fermano dopo le telecronache per chiedere una foto o un autografo. Anche se, ammette l’admin, «io ho creato tutto questo solo perché volevo che partecipassero a Pechino Express».

Ⓤ: Beh, la prima domanda è obbligata: ci andreste? 

Tommaso Mecarozzi (TM): Assolutamente sì. Noi vinceremmo Pechino Express, se dovessimo andarci. Il problema è che non ci chiamano.

Ⓤ: Partiamo dall’inizio. Quando e come nasce il duo Tommaso Mecarozzi e Luca Sacchi? 

TM: A novembre del 2009 Sandro Fioravanti, che era la voce del nuoto prima di me, mentre Luca c’era già da una decina d’anni, diventa vicedirettore di Raisport e mi prova al suo posto, insieme con altri colleghi. Secondo lui e secondo il direttore dell’epoca, Eugenio De Paoli, le cose vanno bene, ed eccomi qua.

Luca Sacchi (LS): Novembre, il mese del lutto…

Ⓤ: Tommaso, che rapporto avevi con il nuoto prima di commentarlo? 

TM: Io venivo dal calcio. Gavetta lunga: Serie D, Serie C, campionato italiano Primavera e poi la Serie B. Il mio rapporto con il nuoto era quello di spettatore, di tifoso. Mi ero affezionato un po’ di più alle Olimpiadi di Pechino 2008 quando, a causa della sovrapposizione dei programmi di nuoto e atletica, Elisabetta Caporale che faceva il bordovasca del nuoto andò a fare il bordopista dell’atletica e io, gli ultimi giorni, fui dirottato come jolly proprio al bordovasca del nuoto. Da lì mi è rimasto un po’ di più perché, quando entri in un mondo così, se lo vivi un po’, se ti piace a pelle, ti rimane addosso.

Ⓤ: Luca, che voto daresti alla prima telecronaca di Tommaso? 

LS: Beh, un cinque. Di fiducia, eh…

Ⓤ: E all’ultima? 

LS: Dieci. No, oddio, no. Noi diamo il massimo nelle grandi gare, per cui oggi gli do solo nove. Tommaso è cresciuto subito. Io gliel’ho detto mille volte: in realtà la difficoltà, quando cambi telecronista dopo tanto tempo, non è del telecronista, o perlomeno io non la vivo come tale, ma è il mio apporto che deve cambiare. Per questo è stato complicato anche per me. Avevo uno stile narrativo di un certo tipo e con Tommaso è stato stravolto nell’immediato. Tommaso ha molto più il ritmo da telecronista, mentre Sandro era più narratore. E questo cambia totalmente le cose.

Ⓤ: Luca, tu hai iniziato a fare il giornalista nel 1997, un anno dopo il tuo ritiro, seguendo gli Europei di Siviglia per l’Unità. Cosa ricordi di quell’esperienza?

LS: Scrivevo per l’Unità e poi a un certo punto scrivevo per l’Unità e anche per l’Eco di Bergamo, per cui avevo come capi i comunisti e i preti (l’Eco di Bergamo è di proprietà della diocesi di Bergamo, nda). Comunque è stato un periodo veramente divertente. Mi piaceva e mi è costato anche, a un certo punto, rinunciare alla parte scritta. Era bello, era stimolante, era avventuroso. Lo scritto dà più soddisfazioni rispetto alla televisione. È più personale, credo che sia molto più intimo rispetto a quello che puoi raccontare in televisione. Ma era anche più difficile, o forse semplicemente era meno naturale per me.

Ⓤ: Pensi di essere più portato per la televisione?

LS: Beh, dopo tutti questi anni penso di sì. Però so benissimo che qua sono una spalla, là ero io, dipendeva tutto da me. Per cui è diversa anche la responsabilità, qui se vuoi è più leggera.

TM: Le colpe me le prendo sempre io, anche le sue.

«Si sta per realizzare qualcosa di assurdo, qualcosa di incredibile, qualcosa di impensabile. 1’54’’73, è medaglia d’oro per Federica Pellegrini. È una medaglia d’oro che forse non pensava di poter conquistare neanche lei!».

Ⓤ: Commentare il nuoto in televisione vuol dire anche dover riempire i tempi morti, le gare più lunghe, le infinite batterie dei grandi eventi. Quanto è importante fare compagnia ai telespettatori, anche divagare, andare su temi più leggeri?

TM: Secondo me è fondamentale. Quello che a volte viene definito “cazzeggio”, se è “cazzeggio” appropriato, cioè che ti dà la possibilità di fare dei link qua e là con quello che succede in vasca oppure con quello che devi raccontare degli atleti, va benissimo, perché stiamo parlando di sport, e lo sport va affrontato con leggerezza, lo sport è emozione, è adrenalina, ma è anche divertimento. Raccontare il nuoto come se fosse la lettura di un comunicato ufficiale rischia di diventare noioso. Il nuoto secondo me è, se non la più difficile, una delle discipline più difficili da raccontare. Perché c’è l’entrata degli atleti, c’è l’uscita degli atleti, ci sono le premiazioni… Non è come una partita di calcio o una partita di pallavolo dove il pallone praticamente è sempre in movimento e, anche se non sai che cosa dire, basta che racconti quello che vedi. Qua devi saper riempire di contenuti anche dei momenti nei quali i contenuti non ci sono o ce ne sono meno, e va bene riempirli, senza esagerare, anche con un po’ di divertimento e leggerezza.

LS: Ovviamente noi raccontiamo lo sport a chi lo sport lo guarda, poi veniamo giudicati da chi lo fa. Per cui dobbiamo essere credibili anche per loro, però il nostro pubblico non è composto da nuotatori, non è gente che si ammazza di vasche in piscina. Certo, è gente interessata a ciò che succede, se no non guarderebbe il nuoto, però va condito su, va raccontato un po’, va narrato, e questo, oltre a rendere più divertente il racconto tra di noi, credo che dia qualcosa anche a chi ci segue.

Ⓤ: Avete dei modelli di riferimento?

TM: Ho sempre cercato di non averne, perché se tu hai un modello rischi di imitare qualcuno che magari è più capace di te a fare quello che fa e rischi di infilarti in brutte situazioni, cioè rischi di voler essere qualcuno che non sei capace di essere. Quindi non è presunzione, ma al contrario è umiltà. Che poi tra me e Luca si ricrei un po’, in alcuni momenti, l’atmosfera che c’era tra Rino Tommasi e Gianni Clerici, come ci è stato detto, ecco, questa è una cosa che mi fa piacere.

Ⓤ: Avete mai pensato a una sigla come la loro “Bongo Bongo Bongo”?

TM: Siamo comunque servizio pubblico, c’è sempre un certo tono, educazione e rispetto da mantenere.

Ⓤ: Vi piacciono le vostre voci?

TM: La sua sì, la mia no. Ma mai! Credo che sia comune a tutti, anche ai colleghi: è naturale, fisiologico.

LS: La mia risposta non è dissimile, anche se non mi capita quasi mai di riascoltarmi.

Ⓤ: Tommaso, tu ti riascolti?

TM: No, mi sono riascoltato spesso all’inizio per cercare di capire dove potevo migliorare e l’ho fatto, per i motivi che ti ho detto poco fa, con molta sofferenza.

LS: Mi avevi chiesto all’inizio dei miglioramenti di Tommaso, e secondo me è migliorato in maniera rapidissima attraverso il sudore, la fatica e lo studio. Ed è una cosa a cui non ero abituato, perché Sandro aveva un altro modo di lavorare. Tommaso è partito come se fosse l’ultimo della classe che vuole scalare le gerarchie e arrivare preparato. Da novembre 2009 all’estate del 2010 ho pensato: «Però, notevole». Ma ho visto cosa gli è costato.

Ⓤ: Qual è stato il momento più emozionante che vi è capitato di commentare finora?

TM: Te ne dico due, anche se ce ne sarebbero molti di più. Gregorio Paltrinieri a Rio 2016, il primo e unico oro olimpico italiano nel nuoto che ho commentato, e la vittoria di Federica Pellegrini al Mondiale di Budapest 2017. Quella è stata una gara che forse neanche lei si aspettava di vincere, e credo che con Luca ci siamo lasciati trasportare anche noi.

LS: Credo anch’io che Budapest 2017 sia stato un momento forte. L’atmosfera che c’era all’interno della Duna Aréna era stupenda. Però devo dire che sono molto legato anche all’Europeo di Roma dell’anno scorso, perché quello che è successo a livello di pubblico l’ho trovato entusiasmante. C’era un calore, un modo di vivere il nuoto, che non si era mai visto prima. Era una sorta di grande festa con la gente che cantava l’inno, faceva il tifo, eccetera… Credo che sia stato qualcosa di irripetibile.

«La scalata è terminata, lampi d’oro squarciano le tenebre, Gregorio Paltrinieri è campione all’Olimpiade, è medaglia d’oro! Gli eroi vengono ricordati, i miti e le leggende non muoiono mai».

Ⓤ: Saranno irripetibili anche i cinque ori vinti dall’Italia al Mondiale del 2022?

TM: Sul Mondiale dell’anno scorso prima di tutto ripeto una cosa che dico sempre, perché qualcuno continua a parlare delle assenze, ma in realtà ci sono dei tempi che parlano chiaro e, anche se ci fossero stati alcuni dei grandi assenti di quell’edizione, forse gli italiani avrebbero vinto lo stesso o comunque sarebbe stata molto dura per loro batterli. Detto questo oggi la situazione è cambiata, è cambiata completamente. C’è un Thomas Ceccon che continua a dare segni di grande solidità ma ci sono altri aspetti che dobbiamo mettere a punto. Se mi chiedi se l’Italia ripeterà quel risultato ti rispondo: certamente no. Però se mi chiedi qual è la mia speranza e se ci sono alcuni presupposti per farlo ti dico: sì, alcuni presupposti ci sono, ma sarà molto difficile.

LS: Io penso che fra qualche anno dovremmo guardare a questo periodo intermedio tra le Olimpiadi del 2021 e quelle del 2024 in maniera diversa. Ma forse si può già fare adesso. Credo che l’Italia avrà un parziale ridimensionamento perlomeno nelle vittorie, però non credo che lo avrà come squadra, o almeno mi auguro di no. C’è una solidità di fondo che comunque rimane.

Ⓤ: Sempre più nuotatori, per ultimi l’ungherese Kristof Milak e il britannico Adam Peaty, si stanno aprendo sui loro problemi di salute mentale. Nel mondo del nuoto sembra esserci una nuova sensibilità su questo argomento. Come la si trasmette al pubblico?

LS: Innanzitutto il nuoto è diventato uno sport maturo, non è più uno sport di ragazzini, e questo ci permette di giudicare i grandi campioni su un arco temporale ampio, cosa che una volta non succedeva, perché erano pochi quelli che riuscivano a rimanere al vertice più di un quadriennio, invece adesso se uno si gestisce bene è la norma. E questo permette di entrare nell’aspetto umano degli individui in maniera più seria, più bella se vogliamo, perché non ti limiti ad analizzare i risultati ma vedi anche quello che accade fuori. Non ti nego però che la dimensione di un atleta si vede anche da come emerge dalle difficoltà, da come conclude questo suo periodo. Se Federica Pellegrini si fosse ritirata nel 2015 sarebbe stata un tipo di atleta, avendo nuotato altri sei anni è un altro tipo di atleta, molto più grossa, molto più completa, e molto più bella da vedere e da raccontare. Se Ruta Meilutyte avesse chiuso da teenager sarebbe rimasta una fiammata, no? Nulla di più. Bisogna avere la pazienza di aspettare i tempi di questi grandi campioni che apparentemente sembrano imbattibili.

TM: Raccontare questi temi è sempre molto delicato proprio per questo motivo, perché magari chi da casa vede gli atleti nuotare non pensa a tutto quello che c’è dietro. Devi stare sempre molto attento a far passare il messaggio caso per caso, raccontare la storia di quel nuotatore, che cosa ha passato nella sua vita, quali sono le fatiche quotidiane che l’hanno reso più o meno grande. Per esempio: la storia di Peaty, non dico strappato alla famiglia ma comunque preso ragazzo dalla sua allenatrice con la promessa che sarebbe diventato un campione, portato in piscina tutte le mattine alle 4 fin da giovanissimo, e in più ci sono tutte le ore da spendere in acqua, sono cose che devi raccontare per far digerire il messaggio, perché altrimenti la gente dice: «Sì vabbè, Peaty c’ha la depressione, ma che vuole dalla vita quello lì?». È tutto un mondo, caso per caso, da cercare di spiegare nel miglior modo possibile.

LS: Però devo dire che non mi dispiacciono queste pause, tutto sommato è bene che ci siano. Ammettere le debolezze fa parte della grandiosità delle persone.