Al Tottenham è sbocciato un nuovo Kulusevski, o forse è quello vero

L'esterno svedese non è mai stato così decisivo, così bello da veder giocare.

Quando, al minuto 13 della partita contro il Southampton, Dejan Kulusevski ha segnato con un facile tocco sottomisura il gol del 3-0 – il quinto stagionale e il terzo in una settimana dopo quelli realizzati contro Chelsea e Rangers – il telecronista di Sky Nicolò Ramella ha ricordato come lo svedese avesse celebrato al meglio la sua centesima presenza in Premier League con la maglia degli Spurs. Si tratta di un dato per certi versi sorprendente e che dice molto di come la narrazione che circonda Kulusevski sia soggetta a una profonda alterazione della realtà, sia dal punto di vista della dimensione spazio-temporale che da quello delle percezioni visive. Ci sembra ancora di rivederlo mentre, deluso e spaurito, si appresta a imbarcarsi sul volo per Londra cullando la flebile speranza di ritornare un giorno alla Juventus, cioè la squadra che non aveva avuto la pazienza di aspettarlo fino in fondo e che lo aveva scaricato senza troppi complimenti e alla prima occasione utile.

Da quel giorno sono già passati più di due anni. Due anni in cui Kulusevski è riuscito a ricostruirsi, a diventare un giocatore diverso e migliore, affermandosi come il calciatore simbolo di una delle squadre più elettrizzanti e divertenti da guardare del campionato inglese: «Lo scorso giugno ho firmato il contratto per diventare un giocatore degli Spurs a titolo definitivo. Ed è stata la decisione più facile che abbia mai preso visto, che giocare per questo club per me è come essere parte di una grande famiglia», ha scritto Kulusevski in una lunga lettera pubblicata nel mese di marzo da The Players’ Tribune. La sua appartenenza al Tottenham, è evidente, non riguarda solo tecnica e il campo, ma è soprattutto emotiva e psicologica. Un dettaglio non certo secondario per chi, nel corso di una carriera che è comunque ancora in divenire, ha già sofferto oltre il necessario tutti quei momenti in cui le difficoltà del collettivo diventavano anche una questione individuale, come succedeva allala Juventus del post Sarri o al Tottenham allenato con alterne fortune da Antonio Conte.

Il concetto stesso di percezione è la chiave di lettura fondamentale per comprendere la resurrezione di Kulusevski come calciatore in grado di fare la differenza. E lo è più del numero di gol e assist o del vestito tattico che Ange Postecoglou ha cucito su misura per lui sul centro-destra della metà campo offensiva, assecondando la natura prettamente verticale delle sue giocate. Del resto Kulusevki non è mai stato un fantasista estetico, di quelli belli da vedere e che colpiscono per la qualità e la naturalezza di ciò che fa, anzi: la sua corsa sghemba e sgraziata, la brutalità con cui controlla e porta avanti il pallone come se volesse azzannarlo, il suo voler giocare sfruttando costantemente i movimenti basculanti di anche e bacino hanno alimentato la visione del giocatore fuori controllo, sempre in bilico sulla linea sottile che separa la grande giocata dalla figuraccia colossale, come se fosse prigioniero di un corpo fuori scala che non gli permettesse di rispondere agli impulsi e agli stimoli provenienti dal suo cervello. Nelle sue stagioni alla Juventus Kulusevski si era addirittura trasformato in una sorta di proto-meme, con i tifosi che sul web lo irridevano per il modo in cui riusciva ad attorcigliarsi su sé stesso per eseguire anche il movimento più semplice, arrivando persino a ironizzare sul fatto che sembrava faticare a rimanere in piedi durante la corsa. Questa visione crudele e stereotipata oggi ci appare lontanissima, appartenente a un multiverso in cui Kulusevski era finito per sbaglio e comunque per il breve volgere di un attimo.

Eppure stiamo parlando dello stesso giocatore di allora, anche la connotazione brutalista e fisica del suo talento è rimasta pressoché invariata, per quanto incanalata in un sistema dalle sovrastrutture meno rigide rispetto a quelle in cui era abituato ad agire. A mutare è stata, appunto, la percezione che abbiamo di lui mentre lo osserviamo muoversi per il campo con una leggerezza – anzi: con una levità – che pensavamo non gli sarebbe mai più appartenuta. E che, invece, gli permette oggi di dominare una partita, per intero o nei singoli attimi in cui decide di variare il ritmo e la velocità del suo incedere.

Prendiamo, ad esempio, il gol realizzato a Glasgow contro i Rangers nell’ultimo turno di Europa League. Quando manca poco più di un quarto d’ora al termine di una gara in cui il Tottenham ha sofferto la capacità degli scozzessi di fare densità all’interno della propria trequarti difensiva, Kulusevski riceve isolato sul lato destro all’altezza della linea laterale; tra lui e la porta ci sono 40 metri e almeno sei giocatori in maglia blu, quindi la sua scelta è quella di appoggiare il pallone a Pedro Porro e di tagliare verso l’interno sfruttando uno dei rarissimi momenti di distrazione di Jefté. Quando riceve il tocco di ritorno, Kulusevski ha già bypassato una linea di pressione e si ritrova lanciato fronte porta in situazione dinamica: potrebbe controllare il pallone e accentrarsi ulteriormente in modo da avere un maggiore e migliore angolo per la conclusione, invece sceglie di toccare di prima verso Solanke che ha già attaccato lo spazio in verticale alle spalle dei due centrali. A quel punto l’intera rotazione difensiva dei Rangers porta ben quattro giocatori a collassare sullo stesso Solanke e su Maddison, perdendosi il taglio di Kulusevski. Che, in meno di dieci secondi, si ritrova a concludere l’azione che lui stesso aveva iniziato, prendendo in controtempo Butland con un tiro d’interno destro a incrociare quando tutti si aspettavano il piatto sul palo lungo.

Sembra tutto facile, ovviamente non lo è

Quattro giorni prima, contro il Chelsea, Kulusevski aveva segnato un gol molto simile, calciando di sinistro sul primo palo e togliendo il tempo dell’intervento a portiere e difensori. Il tratto comune tra le due reti, tuttavia, non è nella definizione ma nella costruzione, nella fluidità con cui Kulusevski riesce a muoversi all’interno di quella che può essere ormai considerata come la sua nuova comfort zone in cui nulla accade se non è lui a volerlo. Il cambio di paradigma è stato evidenziato anche da Postecoglou in una conferenza stampa di qualche settimana fa, in un periodo della stagione in cui il Tottenham sembrava poter entrare in una nuova dimensione dopo il 4-0 rifilato al Manchester City di Guardiola all’Etihad; in quell’occasione il tecnico australiano aveva sottolineato come l’ambizione di Kulusevski lo portasse a non accontentarsi mai nemmeno nel bel mezzo del momento migliore della carriera: «La mia sensazione che ho è che lui non sarà soddisfatto fin quando non sarà considerato il migliore in assoluto e questo per noi è fantastico. Io stesso posso assicurare di essere altrettanto ambizioso, anzi sono quasi certo che qualsiasi cosa lui abbia in mente possa essere superata dalla mia ambizione».

Nelle successive quattro partite (tre in casa) il Tottenham avrebbe perso contro Bournemouth e Chelsea e si sarebbe fatto rimontare da Fulham e Roma, eppure il rendimento di Kulusevski – in campo per 281 minuti sui 360 complessivi – non ha conosciuto flessioni significative, anzi è andato a migliorare proprio quando ce n’era più bisogno: «Il calcio è una guerra e tu devi essere sempre al 100% o in campo verrai mangiato vivo. Per questo devi fare tutto ciò che è in tuo potere per arrivare sempre pronto alla partita». ha detto nella mixed zone di Ibrox dopo l’1-1 che ha permesso agli Spurs di restare attaccati al treno della qualificazione diretta agli ottavi di Europa League. Postecoglou aveva anche provato a concedergli un minimo di riposo dopo 84 presenze (di cui 41 consecutive) nelle ultime 86 partite disputate dagli Spurs, eppure a un certo punto era stato l’andamento stesso dalla gara a imporre l’ingresso in campo dopo l’intervallo del giocatore più importante. Che, non a caso, avrebbe segnato il gol del pareggio mettendosi in proprio dopo aver creato inutilmente anche per gli altri.

Questa centralità che Kulusevski è riuscito ad acquisire nella squadra che è, o dovrebbe essere, soprattutto di Son e Maddison, è stata più volte ricondotta al nuovo ruolo – un po’ mezzala, un po’ finto esterno – che Postecoglou gli ha affidato per far progredire più velocemente l’azione nell’ultimo terzo di campo. Tuttavia la spiegazione risiede principalmente nella nuova consapevolezza che Kulusevski ha di se stesso da quando ha smesso di cercare il proprio posto nel mondo prima ancora che sul terreno di gioco. In questo senso il lavoro del Postecoglou psicologo si è rivelato ben più importante del lavoro del Postecoglou allenatore: «Lui è diverso da qualsiasi altro allenatore abbia mai avuto. Gli altri ti parlano di tattica e di vincere le partite, e questo va bene, ma con Ange questo significa finire a parlare anche di te come persona e di tutto quello in cui credi» scrisse nella già citata lettera a The Players’ Tribune. Per questo risulta facile immaginare che, al di là degli spazi che gli ha aperto su 30, 40 o 50 metri, Postecoglou abbia prima di tutto fornito a Kulusevski gli strumenti per alleggerire il carico di pressioni e aspettative che non gli permettevano di esprimere tutto il suo potenziale.

Se Kulusevski appare finalmente leggero, etereo, bello da vedere – stavolta sì – e sfuggente e imprendibile per qualsiasi avversario che provi a fermarlo è perché adesso è perfettamente collocato, perché adesso sente di essere dove avrebbe sempre dovuto essere, giocando nel modo in cui avrebbe sempre dovuto giocare, senza preoccuparsi del superfluo, delle sue corse sgraziate, dei controlli di palla smangiucchiati, dei dribbling antiestetici, delle giocate in cui sembra accartocciarsi. Tutto questo non esiste più, o forse, semplicemente, non è mai esistito. Come detto è, ed è sempre stata, tutta una questione di percezione.