Paulo Fonseca e il Milan, una storia d’amore mai sbocciata

Un'avventura nata in un clima di scetticismo e proseguita peggio: il tecnico portoghese non è riuscito a lasciare il segno sul Milan. Ma quali sono le sue colpe? Cosa ha pesato sul suo esonero? Un'analisi.

Domenica sera, intorno alla mezzanotte, Paulo Fonseca ha ricevuto la notizia che in fondo si aspettava da qualche mese, l’esonero dalla panchina del Milan. Eppure, fino a qualche minuto prima, aveva dovuto indossare la poker face, presentarsi in conferenza stampa e rispondere alle domande dei giornalisti che già gli chiedevano del successore, Sergio Conceição, ex allenatore del Porto. «Nella mia vita nel calcio non ho mai avuto paura di un esonero», ha spiegato. «Se penso che ci sarò anche in Supercoppa? Non ho nessun segnale del contrario, domani farò quello che faccio sempre e sarò pronto a lavorare». Perfetto contrasto di un amore finito sotto capodanno. E proprio come quando sta per concludersi una storia, può capitare di rassicurare amici e famigliari che tutto funziona, anche se appunto, in cuor proprio, si conosce la propria sorte. Perché di piccole crepe, tra Fonseca e il Milan, se ne erano aperte da tempo, forse dal giorno di un’altra conferenza stampa, quella di presentazione, lo scorso 8 luglio.

Allora il portoghese aveva spiegato di volere una squadra «dominante» che nei mesi successivi non si è mai vista. Mai fare annunci al neon senza avere la sicurezza che luci non si accendano per davvero. Quanto meno non porta bene. Docet, Marco Giampaolo che in un altro 8 luglio, nel 2019, aveva opposto all’umile “testa bassa e pedalare” di Conte, in quel momento dall’altra parte di Milano, un più spavaldo “testa alta e giocare a calcio”. Risultato? Esonero, esattamente tre mesi dopo.

Usando un aggettivo così potente come dominante Fonseca voleva sì rendere chiaro il suo playbook fatto di gioco posizionale, di possesso palla veloce, di riaggressione feroce, di laterali dentro al campo, di sponde e imbucate per gli esterni, ma in qualche modo voleva legittimarsi, ribadire l’importanza e la lunghezza di un curriculum che lo aveva portato alla guida di un club da 49 trofei. In effetti l’ex tecnico del Lille era arrivato in un ambiente un po’ dimesso. I tifosi si aspettavano Conte, o comunque un top manager che potesse colmare il gap con l’Inter e cancellare la delusione di uno scudetto festeggiato in faccia dai nerazzurri.

Quel dominio, nel senso di piena potestà e controllo della partita, non c’è mai stato. Anzi Fonseca non è riuscito a risolvere il problema armonico che il Milan si porta dietro da almeno un paio d’anni, l’andatura a strappi. I cambi di ritmo sono spesso una risorsa in un calcio sempre più tattico e controllato come quello della Serie A, ma per i rossoneri risultano un limite, perché dipendono quasi solo da Leao. Appoggiarsi su un fianco, in questo caso il sinistro, non è limite di per sé, anzi è stata la fortuna dell’Inter nelle ultime due stagioni, con gli interscambi Bastoni-Dimarco. Ma un conto è appoggiarsi, un conto è sbilanciarsi. Sbilanciarsi vuol dire quasi assoggettarsi. E se Leao non gira, fa fatica anche il Milan. Quasi un paradosso per un giocatore che non innesca ma ha bisogno di essere azionato, sia in campo che fuori. Leao, infatti, non è un leader, uno che prende in mano la situazione nei più delicati, uno che ci mette la faccia quando le cose si fan difficili. Ed è proprio l’aspetto caratteriale del 10 su cui Fonseca ha lavorato di più, arrivando a scontrarcisi.

Il cooling break saltato con la Lazio, quando l’allenatore parlava a bordocampo e Leao e Theo sono rimasti a distanza, l’esclusione per scelta tecnica contro l’Udinese, le panchine iniziali contro Napoli e Monza sono le scene cult del rapporto tra i due. Leao fuori per indolenza, per poca applicazione difensiva, per scarsa intensità. Una scelta forte che ha pagato, restituendo un calciatore che da inizio novembre ha elevato il suo rendimento, specialmente in Champions League, dove ha segnato due gol consecutivi aggiustando una campagna europea partita male.

La scelta di Fonseca ha tolto peso ai giocatori. Se si tocca Leao, tutti sono a rischio. Un concetto ribadito più volte anche a mezzo stampa. Fonseca è andato dritto per la sua strada, a costo di litigare, come accaduto poi anche con Theo Hernandez, altro punto di riferimento dello spogliatoio. Con il francese l’allenatore ha seguito il copione Leao: analisi degli errori, in privato e in pubblico, panchina, contro il Genoa, poi un confronto a quattr’occhi. Una decisione che con l’attaccante ha ripagato, con il capitano non si è potuto verificare. L’esonero è arrivato prima.

Sul piano tattico, inoltre, il Milan non si è mai dimostrato completamente solido. In diverse occasioni si è vista una squadra quasi spezzata tra i quattro davanti e i due di metà campo, costretti a rincorrere gli avversari in fase di transizione. Con una linea difensiva sempre alta, forse ci sarebbe stato bisogno di schierare sempre un centrale forte in marcatura e capace di coprire la profondità. L’acquisto in estate di Pavlovic andava in questa direzione ma il serbo non ha mai pienamente convinto Fonseca, nonostante nei primi match di campionato, contro Torino, Parma e Lazio, sia stato uno dei migliori, in un avvio da incubo con due punti in tre partite. Eppure dopo la sconfitta in casa contro il Liverpool, dura per lui come per tutta la squadra, è stato accantonato, salvo poi rientrare contro l’Udinese, quando Fonseca ha deciso di punire Tomori che la settimana prima a Firenze non aveva rispettato la gerarchia dei rigoristi consegnando il pallone non a Pulisic ma all’amico Abraham, reo poi di aver sbagliato dal dischetto. Pavlovic dentro, quindi, ma solo per un mese, dato che da dicembre non è stato più utilizzato.

Per risolvere i problemi di equilibrio Fonseca ha pensato di alzare Musah a livello della trequarti, in modo da condurre la prima fase di pressing. Esperimento riuscito, specie nella notte super di Madrid, in cui il centrocampo rossonero si è mangiato quello in bianco. Un placebo che si è mostrato però in tutta la sua fragilità contro la Roma, quando non c’era l’americano. Una volta saltato l’immediato tentativo di riconquista da parte del Milan, si sono aperti tanti spazi alle spalle di Chukwueze e Jimenez, che Fofana e Bennacer hanno faticato a chiedere. Eccolo il supplizio di Sisifo del Milan di quest’anno, una struttura delicata che può saltare quando qualcuno manca. Quello che doveva essere un sistema posizionale nel corso delle settimane si è trasformato in relazionale: da un calcio più attento alle posizioni a uno che lascia sì più libertà agli interpreti ma che dipende anche da loro. Un simile contesto ha sicuramente esaltato le qualità degli uomini di pensiero, come Rejinders che in questa stagione è diventato un giocatore totale. I nove gol e i tre assist sono solo la polaroid di un calciatore in grado di fare tutto: interdire, buttarsi nello spazio, condurre in campo aperto, rifinire e calciare bene in porta. Con Fonseca è cresciuto anche Gabbia, divenuto un attento leader difensivo e Musah che ha finalmente trovato un ruolo adatto.

Ma in un calcio relazionale è fondamentale il feeling con i giocatori proprio perché sono loro che fanno il sistema e non viceversa. Il cooling break dell’Olimpico, l’episodio di Tomori al Franchi, i riferimenti diretti ai big attraverso i media hanno modellato il vero vaso di Pandora della gestione Fonseca: il controllo dello spogliatoio. Spesso il portoghese ha dimostrato di averlo perso. La società, poi, non ha aiutato, lasciandolo spesso solo. Un esempio su tutti, il post-partita di Bergamo contro l’Atalanta in cui Fonseca ha attaccato l’arbitro La Penna per non aver fischiato un presunto fallo di De Ketelaere su Theo Hernandez in occasione del primo gol dei nerazzurri. Dopo lo sfogo del portoghese il club non ha mandato a parlare nessun dirigente ma solo Morata che ha minimizzato sull’episodio. Una presa di distanza marcata e resa ancora più stridente considerando che Fonseca ha avallato continuamente le valutazioni del management, sia sul mercato sia su casi più spinosi come quello di Calabria, messo ai margini dopo aver deciso di non rinnovare il contratto.

Diversamente a quanto successo a Thiago Motta, sempre sostenuto da Giuntoli e dalla società, sebbene in classifica abbia cinque punti e un match in più, Fonseca è stato continuamente messo in discussione, rischiando l’esonero in almeno altre due occasioni, prima della sfida all’Inter e in caso di sconfitta con la Juve o a Verona prima di Natale. Da metà settimana scorsa, inoltre, giravano a Milanello le voci di allenatori svincolati. In un frangente così delicato Furlani ha fatto visita alla squadra una sola volta. Insomma, indipendentemente dal pareggio con la Roma, c’erano diverse vibes negative.

La sensazione è che la relazione tra Fonseca e il Milan non sia mai partita davvero. Certo ha vissuto momenti intensi, come le quattro vittorie europee consecutive, la serata magica di Madrid, il derby vinto, ma c’è sempre stato un filtro, un grado di separazione, come se fosse sempre l’allenatore a cercare il club. Le modalità dell’esonero ne sono una testimonianza. «Ti hanno abbandonato», hanno detto i tifosi a Fonseca qualche ora fa, quando si è fermato a salutarli all’uscita da Milanello. «È stato un orgoglio essere l’allenatore del Milan», ha detto lui, salutando.